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Con un linguaggio
piano, senza enfasi, misurato al ritmo del dettato, ora incalzante, ora piano,
con il ritmo del respiro dentro, Danilo Mandolini, con questa sua ultima opera,
si distacca notevolmente dalle precedenti per l’intento assoluto di definire
l’indefinibile: la vita, nel suo farsi, nel suo svolgersi, nel suo volgersi
verso… l’approdo.
Dalla soglia
iniziale, per una deriva che vede il significante in una penombra di nebbia, o
nella “contesa dei marosi” e ancora “nella cenere immemore dei morti”, per una
deriva di trafitture e sconfitte, non tanto personali o esistenziali, quanto
delle creature tutte chiamate a testimoni di un mal di vivere che è causa di uno
stato culturale e di uno stato esistenziale.
Non fa sconti a
nessuno, il poeta: “Siamo uomini e soldati, in questa vita, | cerchiamo e
rincorriamo altre sembianze | per dimenticare, negare e rinnegare | che il vento
insegue, in ogni caso,…”; dunque la vita è vista come una lotta quotidiana per
la sopravvivenza di ciò che ciascuno di sé si tiene della propria identità: nel
magma generale c’è, ignoto, da qualche parte, qualcosa che distingue un io da un
tu, che fa la storia di ciascuno personale e unica. Pur tuttavia “Il cecchino
veglia senza riposo | sulle debolezze del molteplice nemico,…” e quando anche
capita di bere alla fontana zampillante, piacere buono e semplice, si deve
“…abbassare le palpebre | piegando il corpo in avanti | e […] poi, tornando alla
luce, | non si è più capaci di rammentare | che molte foglie cadono al suolo,
oggi,…”. Quando, dunque, ci sarà concessa una semplice gioia in questa landa
iperumanizzata e iperdisumanizzata ?
Se già dalla
nascita si sospetta il tramonto, se “Non si può affatto immaginare | che luogo
costruiranno le nostre frasi, | né sopra quali tetti, per non morire, | lo
schianto del fulmine terminerà…”, allora viene da chiederci da dove viene il
male; dalla vita stessa ? E allora perché scrivere ?
Un poeta sa, e
ne trae un suo piacere, che oltre il muro spesso della sofferenza,
dell’indifferenza, della crudeltà, c’è un topòs incontaminato che solo la parola
può liberare nell’atto stesso di costituirsi come parola poetica. E lo afferma
anche il poeta nell’ultima poesia, L’approdo: “…è attendere impazienti, |
affaticati ed infine sorpresi, | il proprio turno per assistere in gruppo |
all’apertura di una porta bianca | sui suoni sordi della piazza | e sugli uomini
che verranno.”. Che cosa egli intenda per porta bianca lo lascia immaginare al
lettore, portatore delle sue risme di speranza, dei suoi personali spiragli. Ma se non fosse
stata quella porta bianca, ugualmente l’avremmo immaginata, se non porta,
spiraglio, se non spiraglio, pietà.
Nella nota posta
alla fine del libro, Francesco Scarabicchi coglie anch’egli questa disperanza
del mondo fino a…; anche se dopo tanto e tanta asprezza di osservazione e di
riflessione, veramente si cerca un approdo, anche solo per traghettare il giorno
dopo.
Nelle
poesie di Mandolini non mancano belle immagini, ma il suo linguaggio è più
riflessivo che ermeneutico, vive nella testa e nei pensieri prima che nel cuore
e nelle viscere: e dalla riflessione pacata, ma senza varchi, esce un verso
piano che coglie anche le minime dissonanze dell’esistente. Perché ovunque
splenda il sole, là c’è un’ombra. Ma infine ci sarà solo luce.
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Recensione |
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