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È vero, senza alcun dubbio, che vi è una crisi in atto: del pensiero, della sua organizzazione, delle sue capacita espressive, dei suoi rapporti con la realtà; ma, anche, del ruolo dell’arte, delle possibilità di aderire alla vita, dell’ermeneutica (sia per quanto riguarda gli artisti, che per i loro interpreti). Insomma, per molti, un’età di trapasso un’epoca di confine, spesso di sofferenza intellettuale,di malore, ma soprattutto di solitudine, di ostracismo, di impossibilità a raggiungere un interlocutore, un pubblico, che tra l’altro non esiste. E se appunto il pubblico della poesia non è mai esistito, oggi la spinta verso di lui è più forte, più impellente, più indifferibile ed irrinunciabile, perché si sente l’abisso sul quale l’uomo sosta, in pericolo, in oblio, esule soprattutto da se stesso.
Zinna ha accolto una sfida sostanziale, quella nei confronti della profonda inutilità dell’essere poeti, ed ha dato una risposta, ancora una volta convincente e coinvolgente. Se fin qui egli aveva preso le mosse da una terra e da un’inquietudine che gli scorrono nel sangue, ora è da questo sangue che torna a partire. Nel senso che si avverte un respiro nuovo, una maggiore profondità d’analisi, una più acuta attenzione alla voce segreta delle cose, un più peculiare sguardo sulla vicenda dell’uomo. E quindi, prevaricando i confini del proprio ego, Zinna va oltre le frontiere della biografia per arricchire la sua già feconda linfa, l’humus di uno spirito che ha sempre cercato negli altri un confronto ed una verifica. Ne scaturisce una universalità del discorso poetico che, divincolatasi dalle costruzioni della vicenda artistica, si slancia, con indicibile coraggio, nel gheriglio degli accadimenti. Così le dediche (a Peppino Zagarrio a Daniele e Gabriella) o alcuni titoli (Omaggio al gatto Raffaele, Vaso da fiori con dagherrotipi, forse la più bella poesia dell’intera raccolta), sono indici di una quotidianità colta ben oltre l’attimo cogente ed interpretata come coagulo di qualcosa che è l’oltre. È cosi superato il minimalismo latente in tanta lagnanza della poesia contemporanea, ed è vinta la malattia dello spirito: è l’uomo a porsi, stoicamente, davanti al proprio calice, per il giudizio della storia e dei posteri, per la consegna dell’ideale testimone che passerà ad altri l’intero bagaglio di un’esperienza generazionale. Vi è un punto, tra gli altri, che mi sembra centrale. Ogni volta che uno scrittore del sud, non emigrato al nord e non prostituitesi alle tasche milanesi o romane, scrive, subito si ricerca il lui la meridionalità o, peggio, la regionalità. Quasi che ci si attenda i violini, il mare, la solarità e la carnalità, insomma tutti gli stereotipi di una civiltà da azienda autonoma del turismo e della cui esportazione in confezioni di facile utilizzo gli stessi meridionali sono i primi responsabili. Come a dire che un siciliano non possa che parlare di mafia, un napoletano di camorra e di pulcinella. In tal modo una civiltà, che ha visto il giogo secolare gravarle addosso per troppo tempo, è rimasta inascoltata, soffocata anzi nella sua forza vitale. Ora, Zinna, che della propria tradizione (quella vera, però, che ha dato al mondo ed all’arte voci convincenti e temi eter-ni) va giustamente fiero, e che anche in precedenza non aveva mai accettato la falsa riga industrial-culturale, trova, attraverso una meditazione distaccata ed al contempo compenetrata sulla realtà, la misura di un incontro con la grande tradizione mittle-europea. Il corpo della sua Weltanschauung emerge per intero, svelando ulteriori aspetti dell’uomo e del poeta. La casarca si divide in tre sezioni. La prima La campana del coprifuoco, si apre, come anche le altre, con un prologo in prosa. Immediatamente Palermo “cosi bella cosi ineffabile”, si presenta come luogo archetipo di un’umanità più vasta. Il capoluogo siciliano viene eretto a simbolo di una situazione esistenziale che travalica i confini geografici o sociali, le contraddizioni, le violenze, che emarginano e costringono ad un forzato regime di autodifesa, causato da una totale incertezza di sopravvivenza, sono significanti di un modus vivendi che accomuna tutti. È un giro della storia, un ciclo che si ripropone sempre rinnovandosi, come se a cambiare siano gli aspetti esterni, le vicissitudini contingenti, all’interno delle quali l’uomo è costretto a combattere il proprio eterno agone. La storia è quindi storia di questa lotta impossibile, diario intimo ed universale al contempo di una disperata esistenza che trova però continui stimoli per proseguire, tenace, irrinunciabile. “Il coprifuoco è ridiventato un’usanza, come nel medioevo, quando, a un’ora vesperale, i componenti di un centro abitato erano tenuti a coprire il fuoco con la cenere, per evitare incendi. Allora, il segnale era dato da un tocco di campana; oggi, dalla sigla del telegiornale delle venti”. Tutto quanto si trasfonde dall’esterno all’interno, come se l’uomo, che in fondo ha costruito la propria gabbia, ne sia poi di conseguenza rimodellato. È qui il fulcro essenziale del libro, che lo amalgama e lo rende compatto,unitario, ben al di là delle scansioni del testo. Ciò che accade al di fuori non può che trasferirsi dentro di noi, che nella nostra anima portiamo le ferite, le cicatrici del tempo e di quanto è stato prima, poiché siamo la risultante della vicenda individuale e di quella collettiva. Il binomio città/anima coesiste su un livello dialettico ed interagente, in modo tale che è impossibile, alla fine, distinguere i due piani “... qualcosa va mutando. Non nei muri o nelle vetrine o nell’asfalto, ma all’interno degli esseri umani, che sotto la cenere del loro affaccendarsi cercano di coprire il fuoco del loro sgomento.” I temi della raccolta sono molteplici, ma tutti sembrano convergere su un’idea centrale: quest’epoca a cavallo tra una civiltà che finisce ed una al varo, rappresenta una sorta di stazione di frontiera. Si tratta ora di trovare un modo per salvarsi, edificando, al contempo, qualcosa che rimanga, scavando una traccia di noi per chi saprà o vorrà seguirla. Dunque, sarà necessario prima di tutto un bilancio di quanto accade. Per questo, la vita dovrà essere passata al vaglio nella sua grandezza e nella sua ordinarietà, rintracciando nelle vicende, anche nelle più minute, i segni di quel qualcosa cui aggrapparci. Perché la solitudine che Zinna propone ha un’accezione di fatto particolare. Non si tratta di un rinchiudersi dentro un guscio, nel più cupo solipsismo, ma, in primis, accettare la propria situazione di esuli per un cammino che gioco forza ci chiama a verifiche individuali e personali. In questa chiave, non possono esservi tessere che sfuggono, in quanto tutto, e la completezza del tutto, ricadono sotto il rogito dell’esperienza. Per quanto amara possa essere la conclusione, essa stessa è frutto di un innegabile esercizio della volontà, seppure chiaramente influenzata dagli eventi esterni. Impossessarsi della propria vicenda di uomini è quindi accettare, ma non passivamente, bensì sentendo come ogni cosa che accade porta il segno delle due risultanti, quella endogena e quella esogena. Entrambe segnano il dramma e l’avventura dell’essere: “Resta un rassegnarsi albe contate a coattive | distanze nell’accettazione del giorno come viene. | Perché vivere e pure il sentirsi morire | del distacco ed è resurrezione ogni ritorno.” Varrà la pena appena accennare all’importanza, consequenziale all’approccio tematico, rivestita in questo libro dal viaggio, sia nella sua accezione letterale, che nel più vasto senso metaforico. Il Viaggio di Zinna, ripetendo il doppio canale dell’intero lavoro, ha due direzioni: la prima verso altre terre, in un continuo abbandono della propria stazione di partenza, cui si unisce lo stimolo del ritorno, nel necessario recupero di quanto si è prima lasciato; la seconda va verso le profondità della propria coscienza, laddove non si finisce di scoprire i nuovi orizzonti dell’esistenza e si continuano ad imparare cose nuove, malgrado l’età forse chiami ad un rasserenamento. Invece, l’anabasi prosegue, sempre feconda e fertile, anche se diventa possibile, grazie all’età, indicare un ipotetico percorso. Ricordiamo come già in Abbandonare Troia si leggesse. Questo ci mostra la linea di continuità di Zinna, che ha approfondito i propri temi, piuttosto che appiccicarsene degli altri. La sua poesia gli viene sostanzialmente dal proprio Viaggio, e per questo la sentiamo cosi vera, cosi controcorrente al confronto dei titillamenti delle poetiche, dei giochetti linguistici dominanti, e avvertiamo come il suo respiro passi attraverso noi tutti. Nella seconda sezione, intitolata Polaroid (Diconsi “polaroid” quelle poesie nate in luoghi meno adatti e fissate dove capita: margini di giornali, biglietti di metropolitana, scontrini fiscali, involucri di dopobarba), predomina la chiave ironica. Senza mai trascendere nel facile sarcasmo, Zinna riesce a trovare il distacco necessario per sorridere di sé e del mondo. Ma è un sorriso amaro, che fa pensare al miglior Chaplin, dietro al quale traspaiono sia una profonda amarezza che un’infinita tenerezza. Tra tutte, indichiamo la lapidaria La gatta al lardo, che ci sembra fornire una sintesi non solo dell’intera sezione, ma di tutto quanto si è fin qui detto. Difatti, proprio da questa angolazione di fatto particolare e decentrata è possibile avvertire l’estremo coinvolgimento dello spirito, la lama che taglia la carne e dà dolore e disillusione: “Non andò al lardo | la gatta dell’anima mia. | Andò alla sarda salata | ne derivò gran sete | e non trovò acqua |di ciotola o di rigagnolo. | Andò poi all’incenso | andò al rosmarino | (e fu allora | che dovette | lasciarci lo zampino).” Concludiamo questo nostro percorso con l’ultima sezione del libro, che gli dà il titolo. L’arca è luogo metaforico della salvaguardia di ciò che si rischia di perdere. Ecco, la fine (ed il fine) è dunque questa: dobbiamo compiere qualunque sacrificio per un manipolo di poche, quotidiane cose, le sole che varrà la pena di portare con noi, per difenderle dal corrompersi generale, ma ancor più per ricavare da esse l’energia vitale da cui e per cui continuare. Non siamo davanti ad una riproposta pedissequa di valori stantii e superati dalla propria stessa retorica. Ciò che Zinna propone è un’isola di salvezza su cui trovano spazio tanto l’amicizia, l’affetto, il gatto Raffaele (simbolo, suo malgrado, di una giocosità indipendente ed intraprendente, quasi audace), quanto la consapevolezza del proprio essere. Se dunque l’arca di pietra (l’arca litica, una delle immagini più affascinanti e suggestive del libro) trasporterà quanto vorremo e sapremo preservare dalla violenza degli elementi, in una società ed in un mondo che sempre più sembra voler attentare a quanto possediamo di maggiormente prezioso, di sacro, ciascuno è chiamato a diventare custode e propulsore della propria isola: “Noi stessi siamo casarca (cioè casa-arca n.d.r.), protesi nell’esigenza di “restare a galla” in attesa di un arcobaleno.” Tantissime cose si potrebbero ancora dire su questo libro, che cosi tanto dà al lettore, un libro cui si deve tornare, per poterne godere a fondo le molte sfaccettature. Ce ne congediamo citando i versi di Meglio l’Ispettore Derrick, la poesia cui Zinna ci sembra aver voluto affidare il più profondo momento di auto conoscenza: “Apprendo cosi che sia questa matura | età. La voglia di non correre a vanvera | il sorprendersi di affinate capacità | di antivedere di inalterate sensibilità | amorose. E questo fremente rassegnarsi | alla rassegnazione non voler tornare | indietro valersi di poco stringere | le forbici sentirsi vicino all’orizzonte.” 1992 |
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