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Il fine del mondo
Un romanzo, questo di Micheli, in cui la parola
apre l’obiettivo, non solo dell’occhio, trasformatosi in macchina
“da presa” del vedere ma
il guardare il mondo dentro e intorno a noi e quindi dell’apprendere. E
questo, tra l’altro, sin dal titolo dell’opera, in cui scrittura e immagini che
ne derivano corrono intersecandosi in continuo. Il linguaggio, che figura le sue
forme costituite da ombre, le rende davvero corporeee, per contrasto, le
immerge in immagini senza una precisa definizione ma in cui si affacciano
persone, personaggi e luoghi che appartengono ad una precisa mitologia, e fanno
della loro storia l’imbastitura che crea l’abito del testo e nostro, senza quasi
che ce ne accorgiamo, fino a stringerci tutti in un unico cap(p)io. Tutto e
tutti ci sentiamo immersi, senza poterci allontanare o sottrarre da
quell’insieme, che è l’anima del mondo stesso e nostra anima vitale. Il cammino
attraverso questi luoghi dell’anima, l’errare e l’errore vissuto con
consapevolezza ci offrirà la possibilità di trovarci e di toccare la verità, che
in questo percorso andavamo cercando, forse, anche senza saperlo.
Il fine del mondo ha in sé una vena profetica,
anche se a nessuno è dato conoscere il vaticinio finale, il fine del mondo
appunto. C’è qualcosa che viene insinuato in chi legge e permette di presagire
il domani, il nostro domani. Tutti gli sguardi svolgono dal passato a questi
oggi, che in fondo, sono già un barlume di domani e tutti cercano o possono
darci un significato in rapporto al presente ma, realmente, niente è permanente
e dunque niente può essere già ora ciò che potrà essere. Una specie di nebbia,
come quella dei paesaggi del libro, mantiene in sospeso o in sospensione atomi
di ieri oggi e domani e, potrebbe essere, li rimescola in una visionarietà come
quella dell’autore, per fornire configurazioni che saranno situazioni sociali e
geografiche perché appunto tutto è soggetto a cambiamento, tutto arde
istantaneamente e nelle descrizioni di ambienti naturali, là dove si svolgono
situazioni amorose e relazioni a cui siamo abituati, altri elementi si
intrecciano tra loro in una complessità eco-logica, una specie di
micro-laboratorio di quanto in natura avviene, avvolto da quella nebbia in cui
si annidano e si annodano gli elementi di una fisica e di una chimica a cui
appartengono elementi non scorporabili dalle modalità in cui viviamo: l’amore,
il denaro, i sensi e i sentimenti, gioia, dolore, paura affanno. E’ da questo
fitto reticolo, da questa fitta trama che si intravede, come in controluce, un
pericolo immaginato all’inizio e, ora, sempre più reale: la fine del mondo.
Sepolti come gas e petrolio, fossili nel nostro comune inconscio ci sono gli
elementi pronti ad esplodere. Eppure ci sono immagini che possono essere lette
anch’esse come una stoffa double face, perché è possibile leggerci una metafora
di noi stessi come anche la realtà del mondo che abitiamo, in cui la forza
propulsiva ma anche distruttrice non appartiene al caso, al destino, ma alla
natura stessa.
«La corrente trascinava tronchi d’albero, suppellettili e veicoli con parimenti
equanime
inerzia.»
E la stessa metafora del diluvio, che nel testo è
un richiamo forte, riesce a caricare chi legge dello stesso impulso della
corrente, come qualcosa a cui non ci si può opporre, creando uguale tensione
nell’impeto del linguaggio usato, che richiama i flagelli profetizzati da più
tradizioni,dandoci in
contemporanea anche lo stimolo a rivedere le ragioni per cui vale la pena di
vivere, di vivere ancora.
28 marzo 2017
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Recensione |
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