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Abbandonare Troia

Senza dubbio Lucio Zinna non è un pacifista, non è una persona che soccombe e morde la polvere, sa restare in piedi, al bivio, anche se ferito. Sa combattere proprio là dove occorre portare lo scompiglio, non sulle montagne rarefatte o tra le paludi della pianura ma nel cuore stesso della terra e dell’uomo.

«Opera tu per la tua parte | mettiti in guerra la coscienza – insisti stringi | i denti – per il resto (sia chiaro) la vita | è vita...»

La composizione citata, «Il bivio», è – per l’appunto – l’incipit della sua strategia poetica raccolta, ora, in volume (Abbandonare Troia, Forum – Quinta Generazione, 1986).

La critica si è già ampiamente interessata di questo nuovo libro di Zinna, tutti hanno colto il decifrabile segno dell’artista e del pensatore; ma – forse – è rimasto un po’ in ombra il suo gusto iconoclasta mascherato, a volte, dietro parole suadenti o pervicaci resistenze al male. Quasi sempre abbiamo di fronte uno scrittore che riesce a divincolarsi dall’Hic et nunc, per ciò che questo vivere racchiude e comporta di velenoso e di crudele, ed ugualmente resta ben fermo nella sua posizione umana annullando – però – gli impegni retorici e i traguardi fracassoni, amando il colore, l’odore, il gioco disinteressato del Tempo.

Tale diagramma è sostenuto da una strutturazione sintattica proiettiva e caratterizzata, autonoma e pluridimensionale che lascia all’autore «un’estrema libertà di scelta» segnica. Questa libertà è individuata, nella prefazione, da Raffaele Pellecchia che sottolinea la «mobilità della gamma espressiva, la varietà dell’assetto lessicale, la compresenza di stilemi ora mutuati dal parlato ora derivati da una cultissima fonte». E la linea tonale risulta consapevole e unitaria, tanto da «costituire un corpo organico e tipizzato». L’osservazione di Pellecchia mi trova consenziente anche se la corrente variegata della parola – a mio parere – è costretta a trasportare qualche sassolino in più ipotizzando sponde fin troppo saldate tra loro.

Se noi, tuttavia, leggiamo composizioni come «Ne polluantur corpora» e «Isola delle femmine» ci accorgiamo che l’uomo – prima del poeta – vive con tutto il proprio corpo infilato, radicato nella terra e successivamente (ma i due momenti sono talmente rapidi che non ci accorgiamo quasi della pausa e del minimo scarto) il poeta lancia, costruisce un ponte attraverso i secoli e la sua falcata ristabilisce l’armonia e l’equilibrio dei vuoti storici.

Racchiusa nel palmo di una mano la silloge di Lucio Zinna vuol dire due cose: si può, comunque, vivere nel compromesso cangiante ed emblematico della cronaca, personale e collettiva («Uccelli del viale», «Tabes») e contemporaneamente raggiungere, attraverso la «memoria» e la visualità concreta, la scena dell’oltre (per es. «Ballata atipica del Cavaliere Marino»), la trasparente visione che non ingessa alla terra, nel luogo dove siamo nati, tra i nostri santi e i nostri dèmoni.

«Mai altro luogo in cui s’azzeri come su questa | fluida putrescenza ogni contrasto e integra | ne permanga l’essenza». («Laguna veneta»).

E mentre la parola qui rifluisce in se stessa, denudandosi, e palesando l’inquieto sentire del poeta, altrove (come nella già ricordata «Ne polluantur corpora») il segno non è vanitoso e puntiglioso, rinasce nel rigore e nella presenza del lemma. A questo punto la scrittura di Zinna non concede più nulla al narcisistico sguardo dell’io sul mondo e sulle cose. La memoria allora non serve per riportare a galla spezzoni di eventi, refrattari al discorso temporale perché «mi vedo gleba alla terra | confitto e si dissolve l’intonsa selva | nel panta rei dove scorre – spermatico – un fiume... | Carponi l’immagine di te lamiera riflessa | nello specchio quando gleba mi vedo (Carolo | piissimo) e tu come spina e con il grido | che perfora le monadi e le gonadi e se ne lagna | l’oceano con l’azoto».

L’immissione, nel testo, di termini scientifici rientra nel dosaggio ritmico ed espansivo della stesura totalizzante che, in definitiva, crea un linguaggio non corrotto né infiacchito dalla troppa sedimentazione umana e culturale; il poeta prende in mano la spada e apre nuovi «luoghi». Sperimenta, per conto suo, l’essere della parola.

I luoghi tradizionali e le persone (amiche) gli consentono un avvicinamento paziente alla solarità del loro codice esistenziale; che si tratti di piazze storiche o di piazzette periferiche, di un mago o di un demiurgo antico, di un santo celebrato o di un martire sconosciuto e «godereccio», Zinna riesce sempre (e ne abbiamo un esempio nelle «Epistole metriche») con vena critica sottile o con il distacco tipico dell’infanzia che gioca realisticamente nel sogno, a conquistarsi quell’area appagante e cospirativa che rifiuta ogni gesto inconsulto, ogni precaria sensazione. Abbandonare Troia si situa così in una zona di resa artistica già realizzata nelle cose, accostandosi – poi – al quadro del possibile e del probabile, dei pensieri con una genesi, e noi vorremmo lasciare la nostra California per correre verso e dimorare a Troia; ci dev’essere qualcosa di magico e di autentico se un poeta ha saputo bere, a larghi sorsi, alla straordinaria sorgente che Troia conserva. A tratti egli è calato totalmente nelle situazioni visuali; ha bisogno di ricordare idee e accese voglie di altri e di tutti i giorni poiché affonda nel caldo ventre del già vissuto. Per tale sedimentazione la catastrofe si allontana; un uomo resiste. Una testimonianza generazionale che sa ricostruire in noi l’impero della grande metafora dell’io.

Recensione
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