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Il mio personale incontro con la poesia è avvenuto verso gli undici anni, con Pianto antico di Carducci e La capra di Saba; la prima lirica, che imparai di buon grado a memoria, mi parve un meraviglioso inno alla primavera, ed insieme, una tristissima, a tratti angosciosa canzone d’amore; la seconda, mandata pure sùbito a memoria, mi diede un intimo scossone grazie a numerose associazioni multiple che, durante la lettura mi si scatenarono dentro: quel “querelarsi” fu per me, pure ancora così ignorante in materia linguistica, un gorgo di vertiginose sensazioni, tra l’effetto sonoro, così simile al belato, e l’emotiva suggestione di una mite protesta-richiesta da parte di una creatura bisognosa. Da ultimo, un’autentica rivelazione fu trovare frequentemente nei versi i miei amatissimi animali nobilitati da una tale sensibilità poetica, in un universale compatire. Ma adoravo anche il disegno e la pittura e fu quella la prima via d’arte che seguii, di pari passo a quella della musica, che fu però la prima che abbandonai (ero troppo incostante nell’esercizio paziente, troppo ribelle alla disciplina ferrea che esigeva la mia severa insegnante). Più avanti la pittura, quella materica, ad olio, che prediligevo, infastidiva con l’acre aroma il desco familiare..mentre la poesia poteva, inodore e segreta, proseguire indisturbata, anche dalle vicende familiari, e non apparire, se lo volevo; era in grado di insinuarsi ovunque, si divincolava, lesta e amica, negli spazi più angusti del mio tempo..nei foglietti più ridotti, dietro le buste della posta ricevuta, sulle note della spesa; ogni minimo ritaglio di carta fungeva da pagina bianca per i miei spunti e appunti. Ecco, la mia prima produzione, appariva scarna, breve, ridotta all’osso, quasi sfrangiata nel foglio, spesso oscura. Inizialmente scrivevo perché mi era più facile mettere in carta il mio pensiero, piuttosto che comunicarlo parlando. Avevo una sorta di ritegno a dire, in tutta sincerità, ciò che mi passava per la mente, mi sentivo in generale troppo poco simile al genere umano che mi girava intorno, quanto a ragionare sul mondo e a percepirlo. La mia scomoda e tempestosa sensibilità, l’intimorita fragilità, le mie sgomente, pullulanti incertezze mi allontanavano dal normale discorrere. Solo la scrittura mi poteva rappresentare con verità; seguitava a presentarsi stringata, laconica, a volte misteriosamente ostile, talora criptica. Più tardi, iniziai a realizzare quanto il regno della parola fosse il regno dell’opportunità di trasformazione, quanta potenzialità di determinazione delle idee vi fosse nelle varianti e quanto l’appassionante lavoro meditativo di politura con “lima” accorta, dopo la penna, e la riflessione linguistica dessero sempre esiti sorprendenti; mi parve che quello della scrittura fosse àmbito privilegiato, zona franca delle idee. La poesia non soltanto era il modo per adattarmi a vivere, àncora di salvezza, ma diveniva anche la mia palestra di vita. Oggi la cura di scrivere continua ad essermi gioia pura e profonda, a gratificarmi in modo ineguagliabile. Nell’abbandonare questa avventura terrena, quale testimonianza lasciare del nostro passaggio? Come rendere manifesto e trasmettere il raccolto germinato dalla nostra esistenza, se non lasciandone scrittura? La ragione per cui non cessiamo di leggere chi ci ha preceduto: i filosofi, i poeti, i letterati di ogni tempo, sta nel desiderio di ricevere l’eredità prediletta e più preziosa da loro lasciata: l’unicità delle loro idee. Mi pare che nel pensiero ci sia vita inesauribile. Per questo, credo, mi lascio trasportare volentieri nei luoghi dove esso mi porta. Constàto che quegli spazi finiscono sempre per illuminare le mie inquietudini, anzi, molto spesso ospitano una sorta di imprevedibile felicità, e le mie ossessioni diventano rifugio e occasione di incontro fraterno con altri mondi paralleli e simili al mio, ma, altrettanto vero e utile, la poesia, oltre che via di consolazione e di gioia, è strumento insostituibile di conoscenza del reale. Da qui l’impossibilità di sottrarmi all’ascolto interiore: ne va del mio equilibrio e del mio essere me stessa. Da dove viene la poesia? Direttamente e finalmente dalla verità, essendo maternità dello spirito. Quella verità troppo spesso appiattita nelle parole della prosa, che sovente”smontano” il sogno, lo sbiadiscono, fanno perdere di ardore la passione, e scoraggiano la libertà. Amo la poesia proprio perché più che messaggio è amalgama testuale che configura il respiro vitale, è quasi l’oscillazione rassicurante di una culla, ove trova pace o comprensione l’ansia della quotidianità. Con la lingua della poesia si può dipingere, cantare, suonare, giocare, amare, ricordare, carezzare, si possono onorare i vivi e coloro che furono; essa gode di una autonomia e insieme di una completezza che in altre arti trovo meno riconoscibili..ma ancora per suo mezzo possono rivivere nell’immaginario di ciascuno, eventi, emozioni, creature; i sentimenti così come avvertiti nella loro forza e peculiarità, si perpetuano..e nulla può essere reperito più facilmente di un bastoncino di grafite, di una goccia d’inchiostro, e di un foglio di carta. Così la penna, è diventata la mia “benna”, per “scavare” dentro di me e il foglio cassa di risonanza agli echi che vengono dal profondo della memoria e dalle inquietudini della coscienza. Poi si viene presi dall’amore viscerale per la parola, corpo stesso del pensiero, si comprende bene che le idee esistono solo se nominate, che la parola-parabola-paragone-simbolo può essere usata per dire qualcosa che va oltre il suo senso intrinseco, che è strumento che va indagato, con perseverante ostinazione; ciò che le creazioni linguistiche, originalmente assemblate, dicono, non è ciò che dicono i termini presi singolarmente..esse divengono invenzione, microcosmo autonomo, sede operativa di trasformazioni, occasione di sorpresa che ha in sé il sano germe del divertimento. È così che lo studio linguistico risulta gratificante al massimo grado: si ricevono largizioni di grazie intellettuali, di canali cognitivi, che dilatano la consapevolezza. Ci si “nutre”, nel senso letterale dell’espressione, di dizionari, di parallelismi linguistici, idiomatici, si rimane affascinati dalla musica delle lingue antiche, come dalle parlate materne..ci si persuade che la parola è risorsa vivente e vitale, un fermento fremente da domare, da usare così com’è, o da rivitalizzare, a volte da resuscitare, da ricomporre per dar vita insieme ad altre, alla poesia, organismo esistente in sé e per sé, animato e in muta, perché comunica nel tempo e risuona in ciascuno che legga, in modo diverso. Chi scrive partecipa, infatti, alla vita cosmica, ai tempi che verranno, all’amore e alla ricerca universali. Può essere che la poesia derivi da Dio stesso, forse mi viene di dire così, associandola alla perfezione e va la poesia nella memoria nostra e maggiormente in quella dei nostri figli, dei giovani che ci guardano e ci ascoltano..è invito ad aver fiducia e, in uno, prova che è possibile dire l’indicibile usando i facili suoni dei nostri alfabeti materni, mettendo insieme alla verità del nostro cuore, i sentimenti degli esseri che intorno vivono o hanno vissuto l’umana condizione, che è sfida, prova, scelta quotidiana di esserci, nonostante tutto, perché esistere è sempre meraviglia e la scrittura permette di condividere la straordinarietà della normale quotidianità, come pure l’eccezionalità di ciò che, in effetti, più raramente accade. E ancora, il testo, sul quale anche i posteri si potranno cimentare, rinvenendovi significati che neppure l’autore aveva ipotizzati, è creatura viva, congegno ambizioso che “ne sa” più di lui..rimane “voce”, sonorità, al di là della valenza oratoria del lettore, che lo riproduce in modo unico ed esclusivo; il suo valore e il suo senso non si esauriscono mai nell’interpretazione, ma ogni volta che lo leggiamo nel chiuso della nostra mente, insinuiamo in quell’apparente stare muti, il discorrere dell’autore, perché pronunciamo in noi stessi suoni ben precisi e gli accenti di quei messaggi scorrono in noi con una mai falsata intonazione ideale: la lettura appartata è fenomeno che costituisce comunque una potente fenditura nel nostro silenzio interiore e, inevitabilmente, lo scompiglia. Esaminando, invece quel silenzio, volutamente ricercato, quella sorta di pausa silenziosa che è anche uno stato d’animo, quando si fa la scelta cosciente di “non pretendere” di voler cambiare le cose, di concedersi di “lasciarsi per una volta portare dalla mente libera” senza pretendere di fissarla esattamente dove si vorrebbe, ci si offrono occasioni preziose di ricezione e si soddisfa quel sentimento di avventura che è il sale dell’esistenza greve, dando origine a quella deviazione dall’ordinario, che non è contrattempo, ma lapsus di verità. Quando questo tipo di silenzio, elemento fondamentale magmatico, inizia ad ardere ed entra in parossismo, diviene necessariamente ascolto, è allora che comincia a decriptarsi l’apparente nulla, avviene una sorta di piccola conflagrazione e si avvia a specificarsi un significato nuovo, una risposta va creandosi, prende forma un’altra realtà. C’è dinamicità in questa operazione che è sostanzialmente di attesa, che si faccia lume sul caos d’esordio e, in circolarità, ogni testo che deriva da questa “attività” apre, intreccia, e chiude. Ricordare e dimenticare sono poi entrambe azioni della memoria, e la memoria è il pozzo inesauribile del nostro pensiero, la sua palpebra perpetua che solleva e rinasconde. Ciò che apparentemente viene “smemorato” va a fondo, nell’oblio, per poi ripresentarsi come acqua inquieta che si spande per via, sotto spoglie inedite, sorprendenti, che tornano fruibili come inventiva. E se è vero che su ogni dolore si rinasce diversi, perché fuggirlo? Perfino il dolore può essere mutato in piacere estetico! Prova ne sia l’esistenza del genere tragico. Quando si innesca la depressione è facile cascarci dentro, come Narciso, per una sorta di attrazione; c’è un certo fascino nella propria sofferenza, ma la compassione di sé non è pur sempre una forma di amore? L’importante è riuscire a staccarsene, osservare la pena come non fosse la propria, lasciarla indietro fotografandola, farne bellezza nell’eroico superamento, così come il coraggio emerge dalla paura. E sulla quieta bellezza in sé, che dire? Se esteta è chi considera prioritari sull’etica i valori della bellezza, è anche vero che etica ed estetica non sono in opposizione, ma vanno di pari passo nella stessa direzione; bello è anche buono, in senso etico, poiché non può essere che probo e degno di stima ciò che appare armonioso e suggerisce in chi lo gode, positività. Infine, benché ci sia chi dice che per far apparire la poesia debba allontanarsi il raziocinio, non trovo nulla di più logico dell’esito finale di una poesia, che muove magari da posizioni antitetiche o lontanissime, per giungere ad assunti più che ragguardevoli, a coincidenze o analogie straordinarie, dal che deriva che anche nelle emozioni e nei sentimenti c’è logica! L’autore, dunque, muove attraverso percorsi narrativi, riflessivi, descrizioni, e rappresentazioni, ma quanto ha in mente muta via via in modo imprevedibile, credo sia questo il sommo piacere, la felicità dello scrivere: la sorpresa dell’esito finale..e, fatto inatteso, si stupisce tanto chi legge, quanto chi scrive! La storia è spesso groviglio di bieco utilitarismo, sul quale la poesia fissa il suo sguardo fidente nel sogno, nella speranza, nella meraviglia dell’illusoria perfezione del creato; essa è forse emblematica dell’inutilità, estraniandosi, in base a tale caratteristica manifesta, dai bisogni della storia, si pasce della gratuità del sentimento del bene e dell’amore del bello, ma questi non restano pur sempre tra i valori umani maggiormente da recuperare, oggidì come in ogni tempo? Mi sento legata a tutta la mia produzione, perché ogni testo corrisponde a ciò che io avverto come una piccola per quanto imperfetta percezione d’assoluto; alcuni testi mi danno più soddisfazione di altri, tuttavia ho scelto questi due (entrambi ad oggi inediti): Illuminillime, del gennaio 2002, perché emblematica delle risposte esistenziali che mi è parso di cogliere contemplando la volta stellata e Humuschianti afrori, del febbraio 2002, perché descrittiva di un paesaggio fondamentale alla mia formazione, quanto quello marino e quello celeste, per le fonosimbologie ricercate nell’intento di rispecchiare in modo realisticamente immaginabile, le caratteristiche del bosco.
Innumeri rilucono | candenti | dei silenzi siderali esauste | le adonate stelle || e negli sguardi lunuli | si leggono in vessilli | volubili segreti. || Nel flammeo ridanza | la gioia dolorosa dell’experiri, | memoria adusta di radianza || e senza posa scorrono | - eliotropiche spirali degli orienti - | le nascite risolte || murmurimando | guaiscono | di urente solitudine | in disveli germinanti d’albescenze || illuminillime. Dalle stelle che, innumerevoli, nei silenzi astrali infiniti bruciano completamente, facendo totale dono di sé, giunge, anche molto tempo dopo la loro estinzione, la sottile luce incandescente ai nostri sguardi instabili, lunatici (lunuli) che leggono, nella loro apparenza, (vessilli) ora di voti di speranza, ora labili segreti. Nelle fiamme del sole (flammeo), la stella a noi più vicina, sono il gioco e la danza della vicenda umana che sperimenta poca ma inebriante gioia unitamente a tanto dolore; così la storia si fa memoria adusta ed anch’essa riluce sulle infinite vite decise (risolte) in assenso all’Assoluto, offerte con la mediazione carnale terrena, ed ora nascenti da spirali raggianti di promesse: sono le biogerminazioni inesauribili e le nascite (eliotropiche) delle creature, che al sole per natura si rivolgono “murmurimando”: è suono primario, “fiato minimo” “afflitto” del pensiero in nuce che teme il proprio precario destino, “affiorando” alla vita, e si pone all’ascolto accorato del messaggio dell’Immanente, del Creato. Gli esseri si lamentano nel dubbio dell’abbandono. Una volta quaggiù, anch’essi, come le stelle, si spendono in bruciante (urente) solitudine esistenziale esplicando il proprio, unico progetto, dall’alba della vita, tutta illuminandola, benché la permanenza in un corpo li renda immensamente minimi e fragili.
Prendere la gioia canora del bosco dal prato | per scale radici e spaccate silenti silíci. | È un segreto salire | sfogliando un lunario percorso | un adire vago girando | di un poco crescendo | e scoprire topazi di spazi | per sedurre gli gnomi in radura. || Pigiare le dune di un letto di spine a un castagno | cercando fra gli amari ricci | e capire che il dolere è un frutto bruno e lucente | che nutre soltanto chi si lascia ferire. || E franare al torrente ferroso di foglie | che roggia nel pigro restare di erboso muschiare. || I voli dei soli | non smagliano intrighi di selva, | riplanano alti sui rami | e il covo fra gli aghi del rusco | mai terso, né arso | vapora inviolato misteri sinuosi. | Se trame e viluppi di denti bugiardi di ortiche | mordono i pallidi passi, | nel buio da eclisse | il torpido umore del colle | si svela | ed esala dall’alvo suo molle | effluvi di ambrosie cedrine | mischiate a fragranze mentine. Sono percezioni odorose quelle autunnali, provenienti dall’essudato senza tempo di humus e di muschio del bosco, nell’atto di entrare dallo scoperto del prato nella macchia collinare euganea, che risuona dei richiami di alate e silvane creature. È un piacere singolare salire in solitaria i gradini offerti dalle radici delle piante più anziane, affioranti fra le marne cangianti, silenziose e sgretolate (spaccate silenti silíci); percorso apparentemente casuale, senza meta precisa, ma che segue un intimo desiderio di raggiungere luoghi più elevati, per poi scoprire alla sommità, piccoli slarghi di spazi, preziosi e magici, dove poter tornare in contatto con la propria ritrovata ingenuità infantile. È una festa premere cumuli di ricci caduti dai castagni, per farne uscire il bruno frutto lucente, del quale godere e nutrirsi, per restar fedeli alla vita ed evolvere, per poi realizzare che per coglierlo, pure si devono pazientare i pungoli degli aculei fastidiosi sulle dita; ci si persuade allora, che la dose corripondente di sofferenza sia parte del “gioco”. E quando la discesa si fa, infine, rovinosa e scomposta (un franare al torrente ferroso di foglie), nel letto umido e sdrucciolevole del fiume delle foglie, che staccatesi innumerevoli dalla parte cedua del bosco, si sono stese sui grovigli dell’erba alta e inviolata, in quell’istante gli steli intonsi si svelano, e regalano i loro intensi aromi. E il rivo bruno e ferrugginoso non può seccare mai, perché l’insolazione quotidiana resta obbligata alla superficie, per l’intrico delle fitte piante d’alto fusto, impenetrabile ai raggi solari. Essi mai raggiungono il rintanato sottobosco (covo...mai terso, né arso), il cui segreto è difeso da roveti d’agrifoglio e pungitopo, da spinose robinie, fra un pullulare d’eriche, felci, erba cedrina, menta, acetosella; ma se le caviglie restano avviluppate nella vegetazione selvatica e sono spesso preda delle insidiose foglie urticanti, tuttavia l’ovattato calpestio ancora procura inesauribili suggestioni di inebrianti fragranze, i doni inattesi dell’oscurità del bosco, che avvolge come un denso e ricco mantello la pigra collina. luglio 2006 |
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