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All’alba di un giorno qualunque

Nuovo agone letterario per Anna Gertrude Pessina, che da anni ha abituato un pubblico, forse ristretto ma sicuramente selezionato e attento, a un’intensa attività critica, poetica, teatrale e narrativa. E, in questo caso, con All’alba di un giorno qualunque, siamo proprio di fronte ad una prova narrativa, un romanzo, il primo di ampio respiro, della scrittrice. Il titolo, peraltro particolarmente suggestivo, immerge subito il lettore in un quotidiano che se da un lato si nutre di una normalità familiare – in cui padre e figlia formano tutto un mondo – dall’altro accoglie e nasconde nel suo seno tutte le imprevedibilità e le devianze, che quella stessa normalità negano e cancellano. In effetti, nonostante l’apparente gioiosità che certe immagini familiari all’inizio della vicenda lasciano godere, tutta la trama sembra dimostrare l’illusione di una normalità, impossibile in una realtà pirandellianamente assurda e dominata da un caos senza logica.

Ariele, uomo dalla fragile personalità, incantato da realtà, da lui stesso costruite e di fronte a lui quasi subito infrante, lasciatosi irretire dalla bellezza perversa di una appariscente Eva, ― il nome è ovviamente significativo della tentacolarità subdola della donna ― si accorge troppo tardi della sua vera natura, vuota e calcolatrice; ma sui cocci di un’unione infranta miseramente Ariele costruisce un’altra seducente quanto illusoria realtà, quella di padre amorevole di Verdiana, la bimba nata da quell’unione infausta e alle sue cure pressoché esclusive affidata, per il senso di maternità assolutamente assente nella donna. Dunque, Ariele, investitosi del doppio ruolo di padre-madre, innalza giorno dopo giorno attorno al suo rapporto genitoriale un recinto di gelosa difesa, di protettiva elargizione di ogni bene a riempimento del vuoto incolmabile lasciato dall’assenza materna. Verdiana, resa curiosa dai continui stimoli dell’educazione paterna e vanitosa dall’adorazione che la assurge favolisticamente al ruolo di principessa, vive i suoi primi dieci anni apparentemente indisturbata e felice nel nido confortevole e amoroso, costruito per lei. Quella di Ariele, uomo intelligente e dalla brillante carriera, è la rinuncia, per nulla sofferta, alla sua vita di uomo giovane e vitale per divenire innaturalmente, ma senza consapevolezza alcuna, vestale della piccola Verdiana, unico amore e centro di ogni sublime attenzione.

Da questo inizio, apparentemente normale nella sua quotidiana felicità familiare, sia pure mutilata di una fondamentale componente, e che tuttavia già lascia intravedere i segni di un tragico disfacimento, si dipana la vicenda complessa per il magma di sentimenti dicotomici che in un crescendo rapido quanto irrazionale sconvolgono l’apparente normalità e disfano il nido di illusorie aspettative, di cui Ariele aveva nutrito la sua vita e quella di sua figlia.

Eva, forza travolgente e malefica, una Lupa moderna, senza l’epicità passionale del personaggio verghiano, irrompe ancora, questa volta non per incantare il disincantato Ariele, ma l’inconsapevole figlia, prima respinta per la sua inutile fanciullezza, ora riagguantata per la sua molto più utile adolescenza, da sfruttare, lanciandola sul trampolino vacuo del successo e dell’onnipotenza materiale. La curiosità e la vanità di Verdiana, che il padre materno aveva innescato per surplus di amore, si rivelano a un tratto facile esca all’insaziabilità di Eva e terribili arpioni azionati contro la debolezza di Ariele, distruggendo un universo fallace ma benefico e innalzando, sulle sue ceneri, un castello di aggrovigliate falsità e di sentimenti malefici quanto menzogneri. Nuovi valori, più liberi, moderni, efficienti, rispondenti alla logica del visibile e del socialmente utile, a sostituzione dei vecchi, quelli paterni, fatti di inutile sostanza, perdenti come il “buono a nulla” che li ha prodotti ed imposti: nella nuova Verdiana, catapultata nell’incantamento del mondo materno, fumoso ma affatturante, manipolata e rimodellata a uso e consumo delle strategie ambiziose di Eva, non c’è altra scelta, molto poco libera e consapevole, che lasciarsi alle spalle la dorata fanciullezza e il debole padre e percorrere, magari a rompicollo sul bolide di Max, la nuova via segnata per lei, morbida argilla, da mani sapienti. Su questa nuova via il prezzo da pagare sarà altissimo: il lento e inesorabile declino di Ariele, condannato, da una malattia dell’anima oltre che della mente, alla disarticolazione della parola; l’inganno perpetrato a suo danno da una figlia, ormai solo a tratti fintamente affettuosa, cui viene per i paradossi di una giustizia ingiusta affidato, quale essere incapace, fino alla morte; la rovinosa autodistruzione della stessa Verdiana, resa asettica e “vuota d’infinito”. E su quel bolide, guidato con proditoria tracotanza da Max, suo fidanzato e insieme drudo della madre-Lupa, Verdiana, poco dopo la dipartita del padre, ci rimetterà la vita, o quello che di quella vita, sciupata e stracciata, restava.

È solo a questo punto che l’autrice di questa epica, è il caso di dirla, lotta tra bene e male, coprendo col velo di una pietas, assente in tutta la vicenda nella tortuosità di anime perse, il sangue di Verdiana sul selciato, ipotizza per lei una speranza: il ricongiungimento col genitore in una nuova alba, quella che anche un giorno qualsiasi può regalare all’imprevedibilità spiazzante della vicenda terrena.

La Pessina, sempre affamata di altrettanto imprevedibili situazioni stilistiche, accompagna questa vicenda dalle forti tinte, in cui il male serpeggia fino a giganteggiare nella sua disaggregante erosione ― la mancanza di parola in Ariele ne è un segno esemplare ― con una sintassi incisiva, spesso lapidaria, scevra da ogni retorica spiegazione, perché i fatti parlino da soli il linguaggio crudo e tinto che da essi scaturisce. Ma quello che ci sorprende sempre, anche se ormai abituati dalla nostra autrice, esperta cesellatrice di parole nuove, sono proprio i neologismi particolarissimi ― sciaguazzava offre solo un esempio ― che impreziosiscono le pagine, conferendole un suono e una suggestione, che se rendono le immagini più vivide, al tempo stesso le traspongono in un’arcaicità, fuori da ogni coordinata spazio-temporale.

Il romanzo della Pessina termina la sua corsa con un punto interrogativo, che è, dunque, il disserramento ad una nuova, ipotizzabile alba. Non resta che augurarci che una nuova possibile alba di un altro giorno qualunque, come a Verdiana ha regalato una speranza di salvezza, regali a noi lettori, attenti e riconoscenti, una nuova prova letteraria, poiché la vera letteratura è sempre capace di fare di un giorno qualunque un giorno particolare, nello svelamento della sua parola di speranza e libertà.

Recensione
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