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Finalmente torna in libreria per la poesia, Lucio Zinna con una silloge edita
deliziosamente da LietoColle, per la collana da collezione, e con l’intrigante
titolo Poesie a mezz’aria.
La prima
impressione che viene da queste nuove pagine del nostro ben noto poeta, critico
e narratore, è che si tratta di una poesia di più agevole lettura rispetto al
passato, nel senso che risulta impostata su un tono confidenziale che mette il
fruitore a suo agio. Ma se costui sa leggere con la dovuta esperienza, scopre
una specie di finzione, perché anche quest’ultima poesia di Zinna è tutt’altro
che facile. Essa, dietro l’apparente familiarità del tono, che è comunque già
apprezzabile fluidità di stile, in effetti ti costringe a percepire a fondo
l’incongruità dell’esistenza e ti dice che tu sei lì, anche tu ci sei
impigliato, fragile e impotente benché indaffarato nel fatuo comune correre e
scorrere del quotidiano. Ne viene dunque piuttosto un invito alla presa di
coscienza, il che, si noti, è la più importante funzione rimasta oggi alla
poesia; ma lo è senza reazioni particolarmente passionali o di ira. Zinna
smorza, procede quasi sornione e ironico e tuttavia tra le righe affonda la lama
di una saggezza disincantata, esperta del vissuto, molto al di là di quanto ci
si aspetti, sicché ti sorprende e ti conquista. Un testo che può leggersi come
esemplare (Vincoli e strappi) ci riconduce addirittura al primo pianto
della nascita dell’uomo, dopo il quale sarà tutto un doversi abituare alla vita
– e “doversi” per il poeta significa che ne farebbe a meno –, la quale “subito
alletta e sgomenta” e poi magari sventaglierà ”blandizie, possibili miraggi”,
stabilirà “legami e vincoli, sempre più forti e fragili”, per quell’ineludibile
ossimoro permanente dell’umana avventura, che Zinna articola con blando
stoicismo siculo piuttosto che con l’ossessione montaliana. E in un altro testo,
ove vige intenso il sentimento nel rapporto d’amore (Non sempre), il
tutto si fonda sulla generosità del volere contro il non avere, per cui la
quotidianità ci sta come lotta continua contro il limite, sia di origine che di
prospettive.
Ecco come
il discorrere poetico di queste pagine va ad aperture riflessive che danno la
misura di una costante tensione interiore, provocata dal male di vivere, proprio
mentre se ne fanno rivelazione e catarsi. E Zinna è stato sempre maestro
nell’uso del linguaggio lirico discorsivo. La singolarità del quale è nel
recupero disinvolto della parola tolta dalle corrispondenze oggettuali, per
trasformarsi, agglomerarsi o disciogliersi in dizione icastica destinata ad
incidere, farsi monitoria e talvolta proverbiale. Come non ricordarsi, chi ha
avuto la fortuna di conoscerlo, del “Disorganico-improvviso” o de «il mio
silenzio è chiuso in un bicchiere». Così egli ora ci mette innanzi il «Conto le
porte che furono aperte [...] le serrature refrattarie […] i chiavistelli giusti
e quelli | fasulli o che non si riuscì a far girare». O ci dice «Mi tengo com’è
| questo straccio d’anima | coi suoi errori risorse rimpianti | parimenti
elevabili a potenza». O ammonisce che qui, nell’isola, il luogo del consumarsi
delle sue esperienze di vita e di pensiero, «ogni distanza si converte | in
privilegiata specola». Certo per il suo logico istinto di continuità e per il
suo caratteristico modo di ridurre il mondo alla dimensione del proprio io,
onde farne motivo di straordinaria riscoperta in senso immaginifico e memoriale.
Ma è questo in fondo che vuole la poesia. Quando è vera, e distinguibile per
l’intima armonia che vi serpeggia e ne esalta originalità e spessore.
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Recensione |
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