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Anche in quest’ultima raccolta,
Bonsai, Lucio Zinna rimane il poeta di sempre. Si guarda attorno, vicino
e lontano, scorrazza col broncio per i sentieri del mondo scontrandosi con un
vivere cui non può aderire, si legge dentro nel passato remoto e più prossimo e
nel pulsante presente – che gli viene incontro con lo sguardo della moglie, il
ronfare noto del gatto Raffaele e il volto di perla di Teresa di Lisieux – e fa
corrispondere la penna a questo groviglio interiore. Beffardo, corrosivo,
dolente, scanzonato e sentenzioso, disincantato e ricco di incanto si è
costruito infatti un verso e un lessico a sua misura dove può incidere profondo
o passare lieve, dove le parole scorrono a fiotti o si frantumano lente, dove i
giochi linguistici servono a costruire determinati contenuti e trafitture del
cuore.
Nella poesia-racconto
Lucio Zinna, a sussulti, a cascata, a girotondi di lessemi, con im-magini
ardite, citazioni colte mescolate ad arte con la parlata quotidiana riesce a
dire ciò che gli urge dentro, con irriverenza, con stupore maligno o con dolore
soffocato, ma senza sprecare gli strumenti del consueto linguaggio impegnato, da
poeta civile. È il Lucio Zinna che, a dispetto del brutale vivere d’oggi, sa
scoprire ancora il suo piccolo talismano e lo trova in casa e lo trova nel volto
della giovane santa come invito a una nuova «renaissance».
Il verso dunque può
davvero correre ampio senza l’impaccio delle interpunzioni, la parola può allora
fluire sicura stendendosi e aggrovigliandosi senza il timore di perdere mai il
suo ritmo interno, le pause necessarie, il rotondo del suono, e il poeta può
chiedere infine in una chiesa «silente», «(oh gradini della separatezza e
dell’invito)», il dono di una «relativa solitudine» che significa pace
dell’anima, armistizio sicuro tra il collettivo e il privato.
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Recensione |
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