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Ci vediamo al Jamaica
Tutte le persone vivono o hanno vissuto la loro epoca, la quale può essere orribile, accettabile, buona, gioiosa ed anche esaltante; ma, mentre viene vissuta, non sempre ci si accorge del particolare risvolto che a posteriori giudichiamo in vario modo.
A concorrere a rappresentare quell’epoca l’autrice si rifà all’aspetto artistico-letterario di questo caffetteria-bar, rinominata in epoca posteriore dal musicista Confalonieri “Jamaica “ in contrasto tra il sole di un’isola caraibica e la nebbia sempre un po’ presente con la fuliggine dei camini. Le cause che hanno concorso a farne un luogo di aggregazione vanno ricercate innanzi tutto nella vicinanza, quasi spalla a spalla con L’Accademia di Brera, vicinissima al centro storico di Milano e nel contempo luogo decadente quel tanto da apparire per suggestione assai simile a quelli che si ritrovavano a Montmartre a Parigi, dove la vita artistica assumeva l’aspetto di vita di Bohème, assai cara agli artisti abbastanza squattrinati ma di belle speranze. Inoltre concorse anche la liberazione da una guerra tanto crudele ed orribile, non solo per i bombardamenti massicci sulla città di Milano e per la lotta fratricida di due fazioni opposte: gli eroici partigiani e dall’altra le brigate nere del fascismo più estremo alleati con le forze peggiori del nazismo, ma per quanto si veniva a sapere e che si ignorava: i lager nazisti dove erano morti milioni di persone: donne, vecchi, bambini ebrei gassati nei forni crematori, e gli altri: ebrei, zingari, i diversi in senso lato come gli ammalati mente anche tedeschi, i prigionieri di guerra, i politici antifascisti morti straziati da lavori forzati per la peggiore schiavitù che si possa immaginare. Dopo un simile shock la vita lentamente aveva ripreso ad essere vissuta all’inizio con titubanza dalle persone più anziane, ma per i più giovani fu più difficile non ritagliarsi uno spazio personale di felicità in ogni campo, ma soprattutto nell’arte, nella poesia, nella letteratura nella scultura ed anche nell’architettura. A rinnovare completamente l’arte moderna, a rompere ogni canone che ancora rimaneva della classicità del disegno o della pittura fu la tragedia delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki alla quale attinsero a piene mani i “nucleari”, iniziando a dipingere qualcosa che ricordasse la scomposizione del nucleo dell’esplosione e che fosse contro la guerra in generale, irridendo la pomposità dei generali come fece Enrico Baj, seguiti dagli spaziali che volevano trasmettere un messaggio dell’oltre materia visibile con i tagli o i buchi di Lucio Fontana, per ricordare i due maggiori e poi tutti gli altri i dadaisti, i surrealisti. Ma ciò che concorse a rendere il “Jamaica” il luogo, il ritrovo di artisti fu una geniale idea di Elio Mainini che organizzò il premio post-Guernica proprio nel suo locale, attirando in questo modo e per sempre tutti gli artisti di Brera, e con loro giunsero le modelle italiane e francesi. Il luogo divenne quindi il fulcro della vita artistica mantenendo la sua caratteristica bohémienne che attirò letterati come Dino Buzzati e di passaggio Umberto Eco e tanti altri; poeti come Ungaretti, Quasimodo, Montale, e più tardi i grandi registi come Luchino Visconti, Mario Soldati che si portavano appresso attori e attrici, i più grandi fotografi di allora come Mario Dondero, Alfa Castaldi, Uliano Lucas, Carlo Orsi, Ugo Mulas, giornalisti come Guido Vergani che frequentava il “Jamaica” e si divertiva come un matto per il linguaggio per nulla forbito di coloro che iniziando a fare fortuna con mostre alle varie Gallerie d’Arte Moderna, lasciavano intravedere dalle loro tasche dei rotoloni di denaro agli amici ancora squattrinati ai quali regalavano un po’ di quel denaro perché facessero baldoria. La Minotti Cerini faceva parte di questo ambiente perché lo frequentava con un’amica giornalista o con la prima moglie del pittore Baj: Gigina e questo era un passe-partout all’amicizia con gli artisti. Lì al” Jamaica” è nata pure una grande stella del firmamento cinematografico e teatrale: Mariangela Melato che era una giovanetta con la passione per il teatro. La scrittrice rievoca anche le lunghe discussioni anche politiche, che finivano in una grande risata o in una pernacchia, tra un tre sette, o una partita a scopa. Insomma un’epoca irripetibile in una città che riprendeva fiato dal dopoguerra e si proiettava nel futuro. |
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