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Ballata del vecchio capitano
Le “riflessioni in versi” di Veniero
Scarselli sull’inquieta umana materia, sofferente negli angusti confini del
proprio limite (dannazione ma anche risorsa, perché tensione al riscatto
salvifico attraverso l’incessante esplorazione), suscitano sempre una stupita
emozione. La “Ballata del vecchio Capitano” è un percorso di
lettura che ci mostra un Ulisse giovinetto dal candido osare e ci porta nei
meandri del relitto d’un bastimento arenato dove attende, impotente perché
impigliato nel naufragio, lo scheletro e l’anima d’un Vecchio Capitano. Il
“Pianto di Ulisse” (Rhegium Juli 1998) ci mostra invece un Ulisse stanco per
l’inutilità dell’errare e ormai disperato, alla fine dei suoi giorni e forse
anche a quella del mondo. In ambedue gli Ulisse la poetica esplorazione di
Scarselli scarica come inutile zavorra i tanto diffusi reati dell’intimismo,
solipsismo, lirismo e tutti gli altri ismi consanguinei e conseguenti, tesando
le vele agli alisei d’una rotta esistenziale temeraria e indomita al timone
della sua barca. E’ un Ulisse metastorico, non metafisico, un uomo fatto di
carne e sangue e di contraddizioni, quello che disincaglia dalla prigionia e dal
limbo di dolore del naufragio la Nave col Vecchio Capitano; è diverso dal
desiderio di liberazione che spinge l’Ulisse del “Pianto” ad andare come un
nomade antico col suo gregge in un luogo in cui seppellire il mio cuore /
ed amare soltanto a primavera / come uccelli sulle rive del mare / e poi via
senza dolore / senza più ricordare, ma implorando però alla calda, amorosa
nicchia d’una mano di non lasciarlo, come un bimbo che cede alla fascinazione
imperiosa del bosco ma è reso titubante dal timore dell’incognito buio.
L’Ulisse
della smania di conoscenza si ritrova invece nella “Ballata”, ed è quello che
tiene ancora acceso il fioco lume negli occhi del teschio venerando
del Capitano per vedere se gli fosse rimasta incisa nella retina / la vera
fotografia di ciò che vide / della vita oltre la morte; ma è anche il
boomerang della speranza di sopravvivere, coazione che ritorna sempre con la
stessa domanda per dare sollievo alla speranza. Il Vecchio lo supplica di
recitargli le parole dei Sapienti, per liberargli l’anima dallo scheletro che
ancora la trattiene, e poi di prendere il suo posto al comando della nave
incagliata per rimetterne la prora / ad Oriente, attraversare l’Oceano /
incontro all’agognata salvezza. Dopo la consolatoria, pacificante visione
concessagli su ciò che è “oltre la morte”, l’Ulisse della “Ballata”, liberato
della sua “coazione” alla conoscenza, pensa solo a combattere contro la morsa
degli scogli risvegliando la Nave dalla notte del letargo corporale,
mentre questa con tremendi balzi di cavallo imbizzarrito s’impenna
disperatamente cercando in mare la rotta per la salvezza: il riscatto da un
cieco destino senz’anima di un candido cigno / guarito dell’antico dolore
e pacificato nell’esaurimento del compito.
Troppo facile, scontato, apparentare la
mirabile, poetica esplorazione di Veniero Scarselli a Novalis, in particolare il
Novalis dei Geistliche Lieder, anche se comunque riduttivo e claudicante sarebbe
l’apparentamento, poiché davvero la solida progettazione poetica di Scarselli
sfugge ad ogni tentativo di confronto anche per l’ardimento del suo travagliato
riflettere in lasse che scuotono e sciolgono il canto in epica pietas. Scarselli
è in ogni lassa preso dalla foga della conoscenza, che non gli concede
tregua guidandolo nella discesa verso il centro della Terra (...) con fede
temeraria / giù per botole anguste e labirinti (...) nelle viscere più nascoste
fino al regno del Silenzio: è il sacello dove giace lo scheletro del
Capitano e dove finalmente le immagini / fedeli della Vita oltre la Morte
si confondono in un’estasi indicibile elevandolo al luogo d’una luce suprema
/ così piena d’Amore e di Grazia / ch’io subito potei riconoscerla / come quella
dolcissima della Madre. E’ in questa lassa del poema, preludio del
ritorno ad un porto terreno / fra le umili fatiche quotidiane, che l’Ulisse
di carne e sangue e di contraddizioni, nel suo candido, fanciullino osare,
travalica la soglia del Mistero trasformando l’iniquità della morte in uno
stupore per la sua amorosa inimmaginabile dolcezza.
Ciò che distingue
l’uomo dagli altri animali nell’avere coscienza di quella morte che tutti ci
dispera e annienta, in Veniero Scarselli diviene unica e irripetibile chiave
d’accesso a questo suo mondo onirico ma ferocemente lirico come un dipinto di Jeronimus Bosch. Ognuno di noi va verso la propria verità: quella di Scarselli
passa per l’arco d’una inusitata e abbagliante fisicità, carnalmente umorale e
voluttuosamente dolorosa. E’ onnivora fagìa quella che trae il suo canto di
tzigano (e Titano) che canta solitario la sua inutile canzone sotto un cielo
impassibile di stelle, é strenua ed estrema coalescenza con la Vita, fusione e
contaminazione in una sensuale commistione di sangue e sudore, lacrime e paura,
tensione e dolore: una grande celebrazione che comprende e trascende la Morte.
La forza e la grandezza di Veniero Scarselli é proprio in questa temeraria
umiltà di costringersi all’annientamento rifiutando l’inerzia d’ogni comodo
approdo. Il riscatto, ma non la risposta, é nel folle volo del pensiero che tesa
le vele nell’incessante tentativo di appropriarsi dell’Inconoscibile, cui tende
con tutte le bocche spalancate dei suoi sensi. Fu detto “prendete e mangiatene
tutti, questo é il mio corpo e il mio sangue offerto in sacrificio per voi”;
offertorio che è premio e sublime castigo alla umanità dell’uomo. Veniero
Scarselli riceve e assimila quest’offertorio, sorbendolo nel calice di un’epica,
magniloquente dissacrazione, per consacrarlo ad un patto nuovo: la tensione alla
salvezza, dopo tanto travagliato inquisire, cede ad una pietas amorosa e
solidale per tutto l’ignaro popolo degli uomini affranto dal silenzio
d’acciaio della divinità.
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Recensione |
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