| |
Non mi piacciono
gli apparentamenti/appaesamenti per c.d. vicinali modi e toni facilmente
rintracciabili fra i diversi A.A. che nel tempo consegnano alla espressività
dell’arte (in questo caso alla letteratura) la testimonianza, sempre e comunque
unica ed irripetibile, della loro ri-creatività; e ciò è tanto più vero
allorché ci si trova immessi in full iummersion dentro opere come quest’ultima
di Paolo Ruffilli, organico corpus verticalmente aggregato dalla scientifica,
paziente perizia del ricercatore che ne esperimenta, coltiva ed osserva le
sinestesiche, vitali partiture verificandole nella congrua, idonea,
borgesiana misura del racconto, che del romanzo è virtuosa sintesi senza
abbreviazioni. Qui i racconti sono 18, tutti inter-dipendenti e contaminati
ognuno da un impalpabile filo di sospensiva autarchica anarchia, svolto dall’A.
in verticale, acrobatica, calviniana consistenza, rigorosamente acciaiata per
penetrare quel ‘senso della fine’ ‘apicalmente’ ri-conosciuto e paradossalmente
annudato – ‘todo modo’, e da ciascuno a suo modo – dagli eccentrici attori
contemplati nelle singolari mosse della singola, metamorfica specularità del
comune, metamorfico motore dell’esistere: un esistere da essi in-trattenuto
nell’ardito, solitario, rivoluzionario, inebriante ed appagante distacco da
ogni ordinato desiderio, ordinariamente trattenuto dentro le rituali,
asettiche/assennate gabbie della borghese consuetudine/consumazione; un
esistere con-vertito, con-vissuto e liberato “senza riserve” nella
consapevole volontà della ‘dèprise’ come “segno della necessità interiore”,
per non ostare alla fertilità di quella implicita, intrinseca “combinazione
indecifrabile, eppure semplicissima” “dell’intelligenza e dell’amore” incrociate
nell’“avventura della vita”: “esplosione controllata” di quella inerte,
essente sostanza d’energia dove le cose, non più sperate’ né ‘parventi’
‘sono’ e basta, senza come né perché, fuori dalla ‘crosta’ d’ogni
razionalistico,dualistico, contraddittorio conflitto di “sangue e cenere”,
“anima e corpo” perpetrato nella “superbia estrema” dell’“imperio dei codici”,
da Hammurabi ai Brahmana, dal Vecchio Testamento all’ordalia medievale fino a
quella, attuale, della mafia.
E’ quel joyciano
‘senso della fine’ che Ruffilli usa come iniziatica “chiave” per azzardare il
“salto” nella “quebrada” della terra, fenditura aperta nella sua rigogliosa
‘selva oscura’ in attesa del seme, a sua volta in cerca dell’innesco per
penetrarne la resistenza nell’abbandono dell’accoppiamento: sacrale,
significante liturgia nella reciprocità di un reiterato sacrificio che, ad ogni
tentativo riuscito, inchioda quella fine a un altro inizio “a perpetuare la
vita” nella ricongiunzione di “due metà di uno stesso insieme”.
Il “salto” già
pascaliano nella fede è qui dunque trasferito nella fedeltà alla libertà
attraverso il paradosso da ognuno dei protagonisti adottato come autarchica
regola all’eccezionalità della propria singola e singolare pratica
esistenziale, la cui extra-ordinarietà prescinde dall’accettazione del prezzo
imposto dalla solitudine: una solitudine drastica e fantastica, placata-mente
lucida e placida, assorta, scavata e risucchiata nell’immunità prodotta dal
suo stesso crudele (metabolizzato) veleno, alla quale con-cedersi senza
cautele, e nella quale (e dalla quale) lanciarsi “a capofitto” (come i
“clavadistas” del racconto/cardine della silloge intitolato “La chiave e il
salto”) dentro “le cosce della terra”, nella consapevole intuizione/iniziazione
della corsa verso la salvifica potenza del suo “pericolo estremo”. Comminato
nell’”accortezza di non dimenticarsi” che si tratta – appunto – di una esclusiva
“finzione” della fantasia contro il diffuso e perpetrato agguato/abbaglio dell’
“equivoco estetico”, è quel “pericolo”che, volontariamente esperito e
superato, disestesicamente affranca il marinaio esiliatosi sull’alpeggio, l’ex
dirigente di Brera nell’ alloggio alla Bovisa, il Guinness londinese dell
’insonnia nella sua “notte bianca”, lo scrittore “precipitato”, a Capri, proprio
“come il tappo nel collo della bottiglia” nella con-testuale testimonianza del
suo libro, la “Schiava d’amore” del Pigalle, il virtuoso ladro romano, il
vecchio giudice saggio, il direttore del prestigioso MIT bostoniano (tutti
ugualmente spinti dalla “vera vocazione di arrivare” dentro se stessi “vivendo
in prima persona il mistero” di quell’ abscondito, compresso e represso sè )
chiamandosi fuori dalla subdola violenza dal condizionamento inflitto dal
quotidiano funzionalismo di una realtà che (‘con la varia anestesia di un
capovolto ascetismo’, come scrive Zolla) misura ed omologa, in-attuandola al
ribasso, la pensante energia dell’umana materia, resa incapace a procedere a
quell’ardua, s-conveniente individuazione nell’ anti-eroico, dissidente
di-stacco professato attraverso la kenosis necessaria ad ‘allargare l’area
della coscienza’ (secondo il motto lirico di Ginsberg): una coscienza
prigioniera della sua prepotente, delirante, intellettualistica pretesa
d’onnipotenza, e ormai dunque incapace a ri-trovarsi e ri-conoscersi, per
attuarsi nella perenne e con-fluente quietudine di quella sua stessa
sostanza d’ energia, “nel segno dell’assenza” sempre in atto nella mobile
costanza della sua potente fissità.
Nella filosofia
“spinta di là delle parole” e dai loro convenzionali, contraffatti
schemi/schermi, Paolo Ruffilli provocando(ci) prova in questi suoi “Preparativi
per la partenza” ad aggirare l’abbaglio delle apparenze seguitando le umbratili
tracce delle consistenze nel “vedere ciò che è senza essere accecati da ciò che
si vuol vedere” nelle testimonianze di queste 18 vite vissute nella luminosa
marginalità dell’ antisistemico esercizio d’uno spericolato, sovversivo,
silenzioso e solitario dispatrio per placare e de-nunciare nell’estraniamento
oltre i suoi coatti, ontologici confini, la coattiva, squallida luccicanza
della rassicurante consuetudine di quell’attuale, mondializzato arcipelago dove
la cultura dell’agostiniano ‘ritorno nella identità’ è l’inabissata isola in
cui perisce, intento all’’ego’ e non attento all’’idem’, quel profondo,
inconosciuto, violentato, annichilito ‘sé’. Dal rumore centrifugato e
amplificato del mondo, ridotto a cassa/contenitore senza risonanza di
contenuti, che tutti ci sovrasta e ci frastorna dis-togliendo(ci) dal
desaintexuperyano ‘voir l’essential invisibile pour les yeux’, Paolo Ruffilli
attrae, inscrive e fissa con l’esperta, raffinata perseveranza
nell’osservazione, le metamorfiche avventure di questi suoi temerari
esploratori d’anima che, in de-costruita musicalità schoenbergiana di sapore
post-novecentesco (ormai lontano dalle pur recenti stagioni ancora vicinali
all’utopia illuministica ri-fiorita e aggiornata dall’abuso di un’ archetipale
mitopoiesi innestata sulle incerte istanze di un ubiquo oriente, sempre pret à
porter) azzarda la ricerca di quell’isola dimenticata, scoprendola naturalmente
immersa nel sorprendente Altrove di quel consistam già immesso e
con-sustanziato nell’ubi della senziente coscienza: occasionale depositaria
dell’unica Verità che intra-scorre intrattenuta, e mai trattenuta, nella
biologica corsa d’ogni avvento vitale, in cui l’immanente evento della morte è
il feto ogni volta generato e partorito dall’inesauribile grembo della vita.
Con i sicuri
mezzi di una disinvolta, sorvegliata, discorsiva acutezza/accuratezza narrativa
– che la vocazione alla poesia dell’A.perfonde e purifica in levigate suggestioni
stilistiche/estetiche – questi racconti si costituiscono e delineano
nell’andante, consequenziale momento/movimento incardinato in ogni frase
all’ordito di ogni racconto, come unitario, testuale/testimoniale
monito/memento ordinato dall’adesiva familiarità di Ruffilli con la sapienza
extrastorica della tradizione culturale dell’ occidente, dove l’esoterismo
mistico-metafisico è intrecciato senza nodi con la ‘regola celeste’ della
spiritualità orientale, in particolare fra sciamanesimo e taoismo, in cui,
febbrile nell’ardore della sopita febbre ‘al di qua delle passioni’,
“l’immaginazione è l’unica via” conosciuta “per saperne di più”. E come la rosa
di M.Eckart, che fiorisce e ri-fiorisce sempre, ma non sa e non si domanda
‘perché’, pre-disponendosi al senso di quella fine nell’inizio cui mi riferivo
nell’accingermi a questo mio commento, Paolo Ruffilli osserva per registrare e
con-seguire dalla necessaria, vicinale distanza dell’osservazione, la discesa
controcorrente di tutti gli interposti gradi/guadi della traversata vitale, per
prepararsi “per la partenza” verso l’eterno, trasmigrante ritorno, dove l’io,
il me, l’altro, il come , il quanto e il quando sono l’altrove indistinto,
intangibile e inestinguibile, il contenente e il contenuto, la domanda e la
risposta, l’ergon e l’ energeia di un unico, ab-veniente ad-divenire nella
re-itinerante coalescenza del suo mobile, immutabile approdo: a-teologico,
numinoso ‘Savoir Absolu’, o semplicemente ‘Ca’ (come Derrida ri-nomina l’ ‘Il
y a’ di Lévinas) d’una medesima, essente unicità di materia/ spirito (‘il
dualismo è morto: che sollievo!’, scrisse il neurofisiologo V.Mountcastle alla
fine del passato millennio), il wei wuwei della nobile legge del Tao, inerte
in-attività dell’agire dove l’arbitrario esercizio dell’umano intelletto (ren),
rifuggendo dal tempo della storia rifulge de-ristrutturato nella ri-sorgiva
ri-congiunzione con la sua naturale, immortale, celeste (tian) sostanza
dell’anima.
| |
 |
Recensione |
|