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Affari di cuore
L’amor cannibale di Paolo Ruffilli
Affari di cuore: non inganni
il titolo dimesso del canzoniere amoroso di Paolo Ruffilli. E’ fine astuzia:
quel titolo è la cenere con cui il poeta-affabulatore ricopre la brace che arde
sulle pagine, ossia l’esplorazione impetuosa e impietosa di una scoperta
sconvolgente: la smania che hanno gli amanti di divorarsi a vicenda: “Può darsi
| sia un retaggio | cannibalesco, | questo di mangiarsi | con gli occhi | con le
mani | con la bocca e | tutto il resto.”
La materia è scabrosa. Di più:
uno scandalo! E non può essere che così per l’uomo di oggi ormai disavvezzo a
concepire la congiunzione di due carni estranee come una dimensione del sacro.
Con tutta evidenza, è lo stesso uomo che non sa più chiedersi perché Cristo,
nell’offrire ai discepoli il pane spezzato e benedetto, abbia detto “Prendete e
mangiate, questo è il mio corpo” e non “Prendete e mangiate, questo è il mio
spirito”.
Da lì, dunque, bisogna
ripartire: dalla lezione evangelica. Che non smette di essere vera, e perciò
scandalosa, laddove venga applicata al pasto amoroso. Come ha l’ardire di fare
Paolo Ruffilli quando, olimpicamente incurante del giudizio dei sepolcri
imbiancati, sparge semi di (sacro) mistero nel viluppo d’amore (cannibale) in
cui incarna l’io narrante: “il lenzuolo disperso | su cui, distesa,
| sei stata
| schiacciata dal peso | del mio | sopra il tuo corpo...” (...) “nel vuoto della
tua | amatissima presenza | rimasta qui stampata | inesausto aspetto e |
contemplo | la sacra | sindone del letto”.
Gli squartamenti e i “corpi
assorbenti”, con cui i due lovers, l’innamorato italiano e l’amata-amante
slava, infiammano la loro travolgente liaison carnale, incalzano il
lettore-spettatore e, via via, lo mettono a parte di un amore che “dilata i
pori | e le fessure | fino a farne falle | passi e gole | mentre annoda | le
figure”.
Fermi tutti: questo luogo
poetico reclama una sosta. Il lettore vuole riascoltare la musica dell’autore,
riammirarne l’eleganza senza pari delle allusioni, il sapiente ricorso a lettere
e parole corporee e sonore. Sbirciando nella prossimità lessicale di “falle”,
crede allora di cogliere l’evocazione di un termine più plebeo. Poi si persuade
che “passi” sia vocabolo messo lì apposta per ammiccare alla passione. Ma ad
estasiarlo di più, in quel frammento di strofa incorniciato, è la folla di effe
(fessure, fino, farne, falle, figure). Guarda caso, proprio la consonante
maggiormente implicata con le connotazioni sessuali, dice a se stesso, ormai
arreso ai pensieri audaci del “narrautore”.
E’ chiaro: il lettore ha
compiuto il salto, ora è complice di chi scrive. Ed è una mutazione, la sua, che
è stata resa possibile dalla squillante contemporaneità - per storia, lingua e
ritmo - del poema che lo ha avvinto. E pensa: finalmente un poeta del Duemila
che si rapporta al Novecento come fosse l’Ottocento: con distaccato disincanto.
E giustamente: ché il Novecento è il nostro Ottocento, ossia il secolo che
dobbiamo lasciarci alle spalle. Guardando avanti: come fa Paolo Ruffilli
affidando magistralmente ad un gerundio, “Mangiando”, il titolo della sua ultima
poesia. Ma non è ancora tutto: non pago di tanto “movimentismo”, con
un’accelerazione semantica, sceglie come desinit della composizione
conclusiva un furioso sostantivo: “appetito”. Che è come dire: se cannibale,
l’innamorato non può che avere una fame insaziabile.
Ed è, questa, una buona “notizia” per il lettore, il quale
può, così, coltivare la speranza che Paolo Ruffilli voglia condividere con lui
pure il seguito dei suoi “Affari di cuore”.
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Recensione |
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