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Piangono ancora come bambini (pubblicato per la prima volta nel 1994, ripreso
e ritoccato nel 2004) è un poemetto di grande forza tragica, espressa in una
lingua ricchissima di vibrazioni immaginative e visionarie. Concepito come un
monologo interiore del Poeta a tu per tu con la salma della madre nella camera
ardente durante la notte precedente la sua sepoltura, il testo è intriso di una
pietà lancinante, quasi selvaggia, degna di una sacra rappresentazione medievale
o di un rito funerario arcaico. Di fronte al corpo totalmente umiliato, inerme e
perduto della madre la coscienza del Poeta non può accettare il trionfo cieco
della Morte: il suo strazio si fa ribellione impotente, si inerpica sui crinali
dell’Impossibile, dà voce ad un bisogno disperato di ritrovare un contatto con
l’anima di lei. Ad un tratto da questo intreccio di lacrime, tenerezza e sangue
si stacca qualcosa come l’ombra cupa di un incubo: mentre la veglia si prolunga
nel cuore della notte, un che di sinistro e gelido, una specie di immonda realtà
senza nome sembra lentamente impadronirsi dei piccoli, fragili, delicati resti
della madre per trasformarli in “forme turpi ed aliene”. L’amore del figlio
appare allora minacciato dalla spirale oscura, ghignante, del Male Assoluto. Ma
infine l’alba arriva, sciogliendo il cuore di chi è rimasto dai fantasmi, e
avviandolo ad accettare, seppure con infinito dolore, quanto è avvenuto.
L’ultima parte del poemetto si apre a una meditazione su ciò che resta di tutti
i morti: forse essi, “inzuppati di fango (...) piangono ancora come bambini” in
attesa di qualcosa, di qualcuno che li consoli del peso senza perché
dell’universo.
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Recensione |
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