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Da Troia una parola di speranzaArricchita da una nota critica di Melo Freni, nel risvolto di copertina, e da una illuminante presentazione di Raffaele Pellecchia. vede la luce la silloge poetica di Lucio Zinna, Abbandonare Troia, a dieci anni esatti dalla sua fortunata Sagana [«Il punto», Crotone 1976 (Riassume vent’anni di lavoro poetico: dal lontano libretto giovanile, II fìlobus dei giorni, «Quaderni del Cormorano», Palermo 1964, ma scritto a partire dal 1956, a Un rapido celiare, ibidem, 1974 e alle più recenti composizioni che danno il titolo a tutta la raccolta).], una conferma, questo lungo arco di tempo, della discrezione, della capacità di attendere, della misura dell’autore che, come scrive in uno dei testi più felici del libro, «evita cauteloso | l’overdose», pur reputandosi «di poesia un antico drogato» (A volte qualcuno rimane). E tale effettivamente è se si considera la sua lunga fedeltà alla poesia, che, del resto, risulta dalla notizia bio-bibliografìca che correda il volume.
L’analisi di Zinna, sostenuta da una lucidità sottile e da uno scandaglio affilato e penetrante, s’appunta, innanzi tutto, sulla cosiddetta «sudità» che, ancora, dopo millenni di atavico immobilismo, equivale a «irremovibile sudditanza implume vecchissima | insularità da viversi sulla pelle come nigritia» (Sudità). La denunzia storico-sociale, mai gratuita e fine a se stessa ma sempre fondata su un sostrato di solida eticità, attinge, nel destino ineludibile della Sicilia, più che il tono del quasimodiano «lamento del Sud», la protesta virile («qui – come tutto − tardivo», Memoria di scirocco), non tanto per l’irregolarità delle stagioni climatiche, quanto per l’incapacità di trovare soluzioni rapide e adeguate ai complessi problemi socio-economici, morali e politici dell’isola. Dalla quale la tentazione cui sarebbe più facile cedere è la fuga: «Piantare tutto. Allogarsi da queste parti | con la sacrafamiglia nel più remoto villaggio» abruzzese sono i pensieri che turbano il poeta mentre viaggia sul treno Espresso Pescara-Napoli via Roccaraso; e ancora: «Recidere i fili coi tossici milieux culturali | di questo molle-agonizzante impero» (Sessantacinque versi per il treno della Maiella). Il tema della «sicilitudine» si allarga, però, e si dilata sino ad abbracciare tutta la nostra civiltà, europea o africana, asiatica o americana. Non è l’impasto siculo-arabo-normanno, greco e bizantino con apporti gotici e barocchi, a interessare in primo luogo Zinna, ma i destini dell’uomo contemporaneo, alienato, meccanizzato e minacciato dalla morte atomica, indipendentemente dalla nazionalità o dalla razza cui egli appartenga. La condanna della civiltà massificata e tecnocratica, di questo nostro presente attivistico e «anticontemplativo» (Tabes), dove la solitudine, anche di un giorno o di un’ora, come quella vissuta nella Certosa di Pavia (Estate longobarda), appare una dimensione del vivere assurda che può condurre alla pazzia, è espressa con modi risentiti e ironici, mai però pungenti e satirici, perché improntata a una visione disincantata, non crudele o cupa, della realtà. S’intuisce, insomma, scorrendo il libro, che il poeta si sente sempre profondamente coinvolto, sia che s’aggiri per le vie della sua patria d’adozione, Palermo, sia che rievochi la natia Mazàra. E contraddittori sono i sentimenti che egli prova, un miscuglio di amore e di odio, di amarezza e di nostalgia, di dolcezza e di malinconia. Così Palermo è detta «struggente» e, insieme, «selvaggia» (Fontana del pescatore), «tradita moribonda | tra rifiuti e mostruosi palazzi», sicché il suo «sole» sembra «un freddo glaciale coltivato | per secoli» (Sessantacinque versi per il treno della Maiella). Mazàra, allo stesso modo, affiora greve di ricordi luminosi della infanzia, trascorsa a contatto del «Mediterraneo immenso | e affascinante» [Porto di Mazàra, in Il filobus dei giorni, cit.], e di momenti grigi e giorni uguali, interrotti da un sorriso o da uno sguardo di fanciulla, e, nel contempo, contristata da una pena segreta e da un’oscura speranza «nella chiara | sensazione di una vita in fondo da vivere ancora» (Odore di acetilene), e per di più immalinconita dall’abbandono del padre [Sulle conseguenze traumatiche dell’abbandono del padre (conosciuto la prima volta alla vigilia della laurea – era partito per il Marocco in cerca di lavoro, s’era formato una nuova famiglia e non era più ritornato in Sicilia) cfr. Mio padre, in Il filobus dei giorni, cit.]. Immersione nel passato e nel presente che è anche distacco dal passato e dal presente, com’è detto felicemente nel verso «Ti sorrido connivente e distanziato» (Ridi pulzella). Sono, più che amori giovanili, puri vagheggiamenti, sogni e tremiti del cuore, rapporti «oftalmici» come li chiamava scherzosamente lo stesso autore [Nella nota a Odore di acetilene, Abbandonare Troia, cit., p. 59.], non dissimili, per certi aspetti, da «quei fantasmi» − di cui discorreva Leopardi − «di bellezza e di virtù celeste», che né si trovano nei sogni, né nella realtà, almeno non in questo nostro pianeta, di modo che il poeta recanatese, la sua donna, «la cerca tra le idee di Platone, la cerca nella luna (il corsivo è nostro), nei pianeti del sistema solare, in quei de’ sistemi delle stelle» [Con queste e altre parole, d’umore sapido e scherzoso, pubblicate la prima volta sul «Nuovo Ricoglitore» del 1825, Leopardi presentava il canto Alla sua donna, composto a Recanati il 1823 ed edito l’anno seguente. Per altri echi leopardiani in questo libro, cfr. Ridi pulzella, dedicata a Silvia: «limitare di gioventù», «lascio le sudaticcie carte», ecc.]. La citazione ci è stata suggerita dallo stesso Zinna che, ne Il bacio, definisce per due volte «selenica» una sua antica compagna di scuola, dalla quale, con sorpresa dopo un anno e un mese, ottiene appunto un bacio. L’indagine fin qui condotta potrebbe avvalorare l’ipotesi del prefatore di leggere Abbandonare Troia «come un misurato romanzo psicologico» [Cfr. la presentazione di Raffaele Pellecchia ad Abbandonare Troia, cit.], se non risultasse parziale e fuorviante a un esame più approfondito. Intanto, nessun intenerimento elegiaco in Zinna, se non tenuto a freno, come vedremo, dall’ironia o meglio dall’autoironia, nessuna rinuncia a vivere, nessun abbandono o indulgenza vittimistica, motivi estranei alla virile e dinamica concezione che il poeta ha della vita. Né, tanto meno, inazione o fuga dalla realtà, ma un incitamento vigoroso a un agonismo più incisivo e precoce, nonostante gli sconvolgimenti tellurici che mandano all’aria qualunque progetto, disegno o sforzo umano («Opera tu per la tua parte | mettiti in guerra la coscienza – insisti stringi | i denti...», Il bivio). E, in versi ancor più lapidari, l’autore condensa il suo esistenzialismo: «Coltivo un’utopia di nome libertà... | ... A volte stringo i denti urlo se capita | difendo mi difendo continuamente resisto» (Resistenza) e, in Astoria 327, ribadisce e completa: «resisto per non soccombere». Questo culto della libertà, se è condizione indispensabile per una esistenza umana e civile, lo è maggiormente per la sopravvivenza stessa della poesia: «È canapa indiana la parola e cresce | in terra di libertà...» (A volte qualcuno rimane). Abdicare a questa religiosità, laica o confessionale: poco importa, «è già cominciare a morire | deporre la dignitosa veste con la quale in un gesto | può azzerare Kölbe tutti i guasti del mondo», non solo i lager e i campi di concentramento, ma qualunque forma di oppressione e di sopraffazione. La verità è che, in Zinna, nonostante la scoperta e ferma censura della storia, presente e passata, non viene mai meno la speranza nel futuro, nella possibilità di salvare l’uomo dalla catastrofe incombente, di risolvere, nel modo più sollecito e giusto, i problemi urgenti che travagliano la nostra società, di ritornare a uno stato edenico e innocente, pur senza rinunziare alle conquiste positive del progresso tecnico-scientifico. A connotare e arricchire la raccolta è, infatti, la bipolarità natura vergine proiettata nel passato | degradazione attuale, che è correlativa all’altra: infanzia/età adulta. In Laguna veneta, ad esempio, si sottolinea la «fluida putrescenza» della laguna; nei Pastori di Sagana, «luogo del cuore» più che contrada geografica [Secondo la definizione dell’autore stesso (vedi la premessa a Sagana, cit., e la nota esplicativa dei Pastori di Sagana, in Abbandonare Troia, cit., p. 60.], si lamenta il modo di vivere incontaminato a contatto con la natura immacolata, nonostante l’invasione del cemento; in Uccelli del viale, con tratti realistici eppure sfuggenti e allusivi che ricordano il migliore Saba, i volatili «attentati da diserbanti e bracconieri» preferiscono l’inquinamento della città a quello della campagna: «sorge – come osserva ironicamente il poeta – un’era di urbanesimo ornitologico». Tuttavia, sotto gli atteggiamenti provocatori e talvolta anche mordaci, trapela un grande amore per il Sud e per le sorti dell’umanità in genere; nel giudizio severo e impietoso sul presente traluce una speranza tenace e coraggiosa, anche se ogni volta messa a dura prova dalle aberranti follie dell’uomo [«Resta (perplessa) la speranza di uno squarcio | aperto nell’ignoto»: è esplicitamente detto in Tabes, p. 38.]. Una speranza che è persino adombrata nel titolo. Abbandonare Troia, perché in mano al nemico e arsa dal fuoco, è, sì, un destino disperato che non sembra offrire adito a nessuna illusione, ma per Enea e i Troiani fuggiaschi vuol dire anche andare in cerca di una nuova Troia, da ricostruire come la prima o migliore della prima, portando con sé, oltre al terrore dell’ignoto, anche un accorato rimpianto degli affetti lasciati – luoghi persone e cose – e un intrepido coraggio che i pericoli, cui andranno incontro per mare e nel Lazio, potranno scalfire ma non incrinare. Per cui il mitema del viaggio – uno dei motivi conduttori del libro – acquista sfumature e risvolti simbolici di volta in volta diversi. E non mi riferisco, è chiaro, alle numerose scorribande a piedi per le vie di Palermo né ai viaggi in treno, attraverso varie città italiane, che forniscono materia, stimolo e occasione a molte poesie (Fontana del pescatore, Isola delle Femmine, Laguna veneta. Memoria di scirocco. Estate longobarda, Ode minima a Palermo pluvia, Sessantacinque versi per il treno della Maiella: per citare solo le più significative), ma ai viaggi mitici, fantastici o visionari, la cui meta è sempre irraggiungibile o, se raggiunta, è diversa da quella sognata e si è inesorabilmente condannati allo scacco. Ora è Odisseo alla ricerca di un’Itaca inesistente o esistente nella deludente realtà − «Non era Itaca che si cercava | (non c’era Itaca) | ... | (O era questa – forse – l’Itaca?», Odissea (par avion) −; ora è il cavaliere Marino che, dopo una lunga e perigliosa navigazione («cinque mari su sette»), giunge al suo castello e chiede al «gran custode» lo scrigno, della cui chiave è in possesso: lo scrigno – risponde il custode – era scomparso ed era «un gran mistero dirne il come e il quan-do» (Ballata atipica del cavaliere Marino). È, insomma, il viaggio del cuore proteso a «reinventarsi le albe e i tramonti» (Sessantacinque versi per il treno della Maiella), a rinnovare «il mistero della luce», anche dove regna il buio totale o uno spiraglio appena, «il filo d’erba cresciuto sul ciglio di una strada» (Astoria 327), nonostante che avanzi il cemento da ogni parte, oppure a regredire nel tempo, a ritornare bambino come il figlio, non solo per riconquistare una presunta innocenza perduta o felicità mai posseduta, ma per realizzare un’ipotesi fantastica: «... (fosse l’infanzia | a reggere per una volta le stanche sorti del mondo)», A Massimiliano. Una «queste», dunque, che non si placa mai, una ricerca inesausta il cui traguardo ultimo sembra che non si possa mai conseguire ma che è, tuttavia, continuamente inseguito, essendo il viaggio sorretto da una speranza indefettibile, che implica non solo un atto di fede nell’uomo e nella poesia [Lo stesso Zinna, in limine alla raccolta, riporta alcune parole di Antoine De Saint-Exupery: «Non si può vivere senza poesia, calore né amore».], ma che nasce anche da una visione religiosa della vita, non ingannino la riservatezza e la confessione parca e discreta del poeta: «Di pregare mi accade assai di rado | a modo mio nei lochi più impensati...» (Astoria 327). La scrittura poetica di Zinna, conformemente alla ricchezza e alla varietà dei motivi ispiratori, abbraccia cadenze e dizioni complesse e discordi: raramente dà l’impressione di indulgere all’elegia, mai però all’autocommiserazione [«... Più non è tempo d’auto- | commiserazioni» è ribadito in Sudità.], neanche quando evoca con vibrante commozione, con «gli occhi lucidi | come di pianto», la morte della madre nella lirica che rappresenta, a mio giudizio, il momento più esaltante del libro e la sua naturale conclusione; talvolta accenna con sobrio pudore alla sua infanzia senza il padre («Non sopporta l’infanzia l’abbandono», ch’è l’ultimo verso di Fontana del pescatore) o recupera esperienze e figure della sua vita scolastica; spesso s’innalza ad accenti fortemente scanditi da una robusta visione etico-religiosa o si piega alla discorsività piana delle conversazioni amichevoli – Epistole metriche s’intitola una sezione −; in alcune occasioni, però, non manca di usare gli artigli che graffiano e lasciano il segno, pur senza cattiveria o caustica polemica. Ma la peculiarità stilistica, il timbro proprio del libro è la medietas [Sulla medietà e l’ironia precisi rilievi nella presentazione di Raffaele Pellecchia, cit.]: un vigile, sorvegliatissimo controllo esercitato su di sé e gli strumenti adibiti, che impedisce a una tonalità o a un tema di debordare e di accamparsi nella centralità della pagina o della raccolta. Leggendo, tuttavia, in profondità, si comprende che questo autocontrollo è il risultato di un profondo equilibrio interiore, di un’indole che tempera la «rabbia» con l’«ironia» (... «a volte m’incavolo | e dice Elide mi si potenzia l’ironia», Controcanto). E non solo per ragioni di poetica ma di necessità di vita. Occorre, infatti, la maschera del pagliaccio da circo («ridopagliaccio e infarino», ib.), l’ironia o, più esattamente, l’autoironia, per doppiare «questa specie di capo di buona speranza», ib.). Donde non solo il sano realismo cui informa Zinna la sua idea della vita, equidistante tra un ingenuo e fiducioso ottimismo e un amaro e nero pessimismo, ma il distacco dalla stessa materia trattata, dalla stessa poesia («Recito contro-vento controcanto controgloria». Controcanto). Un’ironia ch’è, quindi, un habitus esistenziale e, al tempo stesso, poetico, che consente all’autore di trovare, quasi senza sforzo apparente, la forma e il tono giusti, consoni al suo originale «fare» poesia e congruenti col respiro della sua anima, gagliardo e dilatato come il verso che lo raccoglie o la struttura composita in cui esso si adagia e si riposa. Medietà e ironia che, sul piano linguistico, comportano l’adozione di una tecnica personale, dove citazioni dotte (da Dante, Leopardi, Montale, Piccolo ecc.) e termini aulici, espressioni colloquiali e locuzioni dialettali, imprestiti dal francese e dall’inglese e innesti metapoetici si fondono in un impasto di straordinaria efficacia, anche in virtù di una pronunzia asciutta e di una scansione metrica rigorosa, capaci di inglobare la dissonanza nell’armonia dell’insieme. |
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