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Una analisi delle «forze» che scorrono
all’interno del linguaggio poetico di Paolo Ruffilli mostrerebbe una maestria
impareggiabile nell’orchestrazione del lessico (sempre calibrato sull’impianto
referenziale del reale) e dell’ordito delle cesure e delle rime interne, che
disfano a volte il verso in due emistichi, che inducono ad un rallentamento,
quasi uno stop; a questa forza frenante del binario poetico si sovrappone un
tensore di accelerazione connesso con l’impiego, pressocché continuo, dell’enjambement,
che riprende il verso in extremis, lo rimette sui binari
dell’acceleratore del ductus per portare la durata del ductus fin
nel verso successivo in cui la disconnessione fra senso e senso, che definisce
la forma-poesia, è portata alle sue estreme conseguenze; è qui che ha inizio un
contromovimento che si frange su quello precedente per dare il la ad un nuovo
inizio.
Tipico di quest’onda sintattico-sonora è la corresponsione diretta di
essa con l’onda ipotattica, la cui severità gerarchica collide e frigge con la
leggerezza dei plot delle storie d’amore che l’«io» narrante ritrova,
quasi per miracolo, nelle pagine di un diario immaginario? reale? finto? quasi
reale? - Ruffilli è un maestro oltre che dei plot narrativi anche del
passo breve: l’«io» e il «tu» mettono in atto una danza apotropaica, celebrano
una ipotiposi, un duetto, una sfida, una contesa dove non si sa se la rivalità
valga meno della affinità in amore, se il serio e il faceto, il dramma e la
commedia si mescolano e si intricano. L’autentico e l’inautentico, il leggero
con il frivolo, il serioso con il pensoso sono irresistibilmente compenetrati
l’uno nell’altro come fratelli siamesi, irregolarità e frasari sincopati
intervallano la «storia» dei protagonisti: affetti, umori, intemperanze e
inclinazioni, ne esce un paesaggio umano terremotato, alterno, instabile,
sospeso come sul vuoto, un enorme vuoto, sul quale c’è un ponte di corda,
sottile e slabbrato, dove si pavoneggiano i trapezisti della leggerezza e
dell’istrionismo amoroso del volume. Il libro di Ruffilli è dunque una vera e
propria messa in scena del teatro dell’«io» e del «tu», una messa in opera
delle vicende d’amor perdute e ritrovate, lasciate e ripescate, una tenzone
perpetua, che non conosce vincitori né vinti, tutto immerso nel quotidiano
rievocato e riprodotto tra la rievocazione e la scepsi del ricordo evocato con
un passo da «canzonetta», con un ritmo da jazz dove il verso breve
consente improvvise accelerazioni e subitanee frenate, come nella pista di un
autoscontro di un luna-park o la scacchiera di un flipper dove le palline (leggi
gli amanti) si scontrano e rimbalzano l’uno contro l’altra, tra sgambetti
d’amore e tranelli di disamore.
È ovvio che non c’è nulla di più serio che
trattare poeticamente una materia tanto friabile, leggera e faceta, intessuta di
equilibrismi tra tradimenti e trasalimenti...
A questa inedita coniugazione poetologica dei
«tensori» innici ed elegiaci, corrisponde, a livello del linguaggio poetico, una
sorprendente economia di retorizzazioni, tranne quelle richieste dalla struttura
stessa del linguaggio e legate all’uso calibrato e sincopato dell’ipotassi e
della paratassi.
Quel lungo percorso iniziato con Piccola
colazione, edita da Garzanti nel 1987 e proseguita con Camera oscura
del 1992 trova qui un degno epilogo, uno dei migliori libri di poesia di questi
ultimi anni, appartenente a quel genere «leggero», di apparente intrattenimento
quali le storie di erotismo e di passione della coppia instabile che si svolgono
tra un «campo di battaglia» e un «corpo a corpo»; l’amore borghese che si
consuma tra la camera da letto e la cucina, nei sentieri borghesi delle
abitudini borghesi dell’epoca della leggerezza dell’essere e degli stili da
stagnazione. Libro brillante, non c’è che dire, tenuto insieme da quei rettili
del giurassico che sono la coscienza dell’io, la sfera istintuale e il bon
ton dei sentimenti bene educati e finalizzati della nostra società
telematica dove anche l’eros è diventato qualcosa a metà tra il telematico e il
virtuale.
È più
forte di te: | mi guardi giù le scarpe, | ti piace l’accordo | delle tinte sui
vestiti... | Fino a che punto | della
posa | pretendi o inviti | che io sia tenuto | a questa lista | dei dettagli? |
Dici che l’una | dà valore | all’altra cosa. | Era destino | che mi piacesse
|
un’arrivista | un po’ borghese, | però ogni volta | nel rendermene conto
|| per
me è dolore | che ti dimentichi | del contenuto | per il contenitore.
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Recensione |
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