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Al di là del tempo
Lo spazio espressivo integrale della poesia di
Graziella Minotti Beretta è il campo in cui «nome», «icone», «tempo»,
«spazio» vengono ridefiniti in uno stile letterario composto e maturo.
Al di là del tempo,
raccolta del 2019, di Graziella Minotti Beretta, è una ipostasi, una idea
assoluta, una utopia, una nostalgia, se si vuole. È una esperienza del vuoto. Il
pensiero che si fa «vuoto». Ipostasi di un’isola che sta nel mare. Il mare è un
pieno che contiene un altro corpo solido che è l’isola. Ma l’isola (metafora e
metonimia del corpo) è assimilabile all’esperienza del bicchiere, un bicchiere
che galleggia nel mare. Il bicchiere è vuoto, o è pieno rispetto a punti di
vista diversi. Per Graziella Minotti Beretta l’io è un contenente mezzo pieno e
mezzo vuoto, pieno di una brulicante varietà di passioni, di emozioni, di
ricordi. L’autrice ci dice che per comprendere questa dimensione dobbiamo noi
stessi farci «vuoto», diventare «vuoti» per poterci riempire di voci, di rumori,
di esperienze, di reminiscenze. Andare al di là del tempo è nient’altro che
andare al di là dell’io. Quell’io siamo noi. Ecco il segreto di questa
molteplicità di cose di cui è piena la poesia della Beretta, la molteplicità che
si ha dopo aver svuotato il vaso dell’io. L’arché. Il principio da cui tutto si
diparte.
In Sinfonie d’amore,
raccolta del 2020, c’è un’ aura mistica che l’avvicina al Parsifal di
Wagner e ad un’altra sinfonia, la Terza di Bruckner (in re minore).
L’amore per la comunità emerge dovunque, giacché vi si notano delle reminiscenze
di impressioni tratte dal lockdown dovuto al Covid, è il racconto della speranza
di un nuovo arché, di un nuovo Inizio. Il racconto di una forza
tranquilla che si sprigiona dalla madre terra e si innalza verso il cielo. È il
racconto non di un approdo, ma di una partenza dall’isola. Non dunque un
racconto della fine, ma quello di un inizio:
la città è morta…
in un silenzio sovrano
rotto dalle sirene d’ambulanze
dai passaggi di autobus vuoti…
la città è morta!
In questo incipit che ha
del solenne e del maestoso, si avverte, ma come in sottofondo, la presenza di
una orchestra sinfonica, il suono dolce dei violini che incedono e accompagnano
la narrazione, c’è un sentimento mistico unito ad un sentore panteistico. Si
inizia con un andante largo, che non dovrebbe farci pensare di essere di fronte
a una composizione di spirito esclusivamente nietzschiano, ma prevalentemente
schopenhaueriano. Un andante di marca squisitamente sinfonica, un procedere del
verso lungo, avvolgente e sinuoso che ricorda il tranquillo scorrere d’un fiume;
un ritmo maestoso e tranquillo tonalizzato da appena un tocco di antichizzazione
del lessico tale da fare apparire tutta la composizione come opera di un sogno
che proviene dal passato ed è rivolto al futuro di un altro sogno. Una atmosfera
da tranquillo incubo.
La «struttura a polittico» della poesia di
Graziella Minotti Beretta è una struttura circolare ad entanglement. Tutto
rientra e tutto fuoriesce, interno ed esterno convivono e collidono, e non
poteva essere diverso poiché l’autrice a tre anni resta orfana del padre
partigiano mitragliato dai nazifascisti il 7 aprile 1945, e a cinque della
madre, nel luglio del 1947 e affidata ad una famiglia che in seguito la adotterà
aggiungendo al suo cognome quello dei Beretta. È dal cumulo di orrori di ciò che
è stato il secondo conflitto mondiale che proviene il canto di Graziella.
L’andante maestoso di molti suoi versi si apre in modo
gagliardo e solenne, sembra un tema suonato da tutti i corni dell’orchestra, si
vuole dare da subito un’impressione di grandiosità e di tranquilla potenza. La
potenza tranquilla del «destino» e della «volizione». La natura viene qui
evocata, con quegli spunti sul paesaggio che rimandano ad un tempo mitico
simbolico. C’è il sapore del sacro in questa poesia.
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Recensione |
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