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L'ultima fuga

Dunque, la poesia più matura dagli anni Novanta in poi appare fortemente impegnata nella costruzione di un discorso poetico fondato sul differenziale della interrogazione radicale. Un forte accento viene posto sulla restituzione di senso alla parola poetica. Tutti gli autori più significativi della «nuova poesia» si pongono il problema: è possibile il discorso poetico senza un forte investimento di senso? È possibile un discorso poetico slegato da un proprio mondo di esperienze significative? È possibile il discorso poetico slegato dall’«autenticità»? Gli autori della «nuova poesia» pongono, in maniera implicita o esplicita, il problema dell’«autenticità» collegandolo al problema di: quale poetica? Delle poetiche fondate sulla giustificazione del proposizionalismo come avveniva nel tardo Novecento? Si tratta di scegliere: quale proposizionalismo? Si tratta di scegliere un discorso poetico che si regga sulla semplice giustificazione estetica delle proposizioni che le incatena le une alle altre secondo la gerarchia stabilita dalla «funzione» poetica? O si tratta invece di fondare il discorso poetico non più sul giustificazionismo estetico e proposizionalistico di tipo novecentesco ma sulla interrogazione del «principiale»? E a questo punto è lecito che la «nuova poesia» si ponga la domanda: che cos’è il «principiale»?

Porre all’ordine del giorno la questione del «principiale» significa tradurre e ripiantare su nuove basi il concetto di «autenticità», è un modo strategico per introdurre «surrettiziamente» la questione di un nuovo statuto e di una nuova leggibilità della poesia intesa quale istituzione stilistica.

Se noi accettiamo e diamo per scontata la tesi secondo la quale la parola poetica nel corso del Novecento è stata sottoposta ad un autentico bombardamento, che si è verificato un autentico eccidio delle sue qualità denotative e rappresentative, dovremo accettare l’ipotesi della «nuova poesia» quale operazione indubbiamente complessa, costosa e altamente rischiosa. È ormai chiaro che la «nuova poesia» ha scelto, contemporaneamente, una strada centrale ed eccentrica.

È ormai chiaro che la «nuova poesia» degli anni Dieci sembra segnare il passo, sembra accentuare il ritorno al «privato» vulnerato quale entità «intima», «effabile», «inviolabile», ancorato alla fenomenologia dell’«io» lirico in un linguaggio che ha i connotati del cosmopolitismo dell’«io»; ci sono però anche frammenti nei quali la agudeza e il crudelismo della Quieti riesce a catturare il lettore. È un libro complesso che però sta ancora a mezzo del guado, a mio avviso.

Dunque, questa opera di Daniela Quieti sembra non discostarsi dal generale indirizzo di una poesia ben scritta, professionalmente inattaccabile, con degli esiti incoraggianti, che esce indenne dagli scogli di una navigazione (poetica) che, necessariamente, si svolge a «vista», che non si allontana mai dalla riva. Ma questa è una conseguenza, ovvia, direi che coinvolge noi tutti che siamo rimasti (oggettivamente) orfani del legato testamentario rappresentato dalla tradizione del Novecento.

Recensione
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