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Una volta spentasi l'aggressività ideologico-linguistica delle neoavanguardie è subentrato nella nostra poesia (ma più latamente: nella nostra letteratura) un riflusso quasi vendicativo. L'aura e il sublime, così maltrattati dalle esperienze di punta degli anni Sessanta/Settanta, sono tornati con nuova arroganza a tenere il campo (vecchia musica, vecchie tonalità metriche, vecchi ritmi sdilinquiti, pulsioni dell'io squadernate con la sacralità un po' sciocca e un po' volgare di ciò che dovrebbe risultare ab aeterno e per sempre intoccabile: non materia di discussione, ma di fede).

Ecco, vorrei dire che una sorta di assai equivoco spìrito religioso (e comunque, di nuovo spiritualismo, di nuova/decrepita Mistica della Poesia come puro afflato d'assoluto) ha invaso a partire dagli anni Ottanta il panorama della scrittura nazionale: in versi: e il sospiro ha avuto la meglio sul fare; il pathos ha avuto la meglio sul produrre. L'autore come produttore di benjaminiana memoria è stato battuto dall'autore come portatore di un nuovo evangelo: quello del soggetto lirico che mette il proprio ombelico ferito al centro del mondo.

Sono stati, e sono ancora, un riflusso e un regresso manieristici (e manierati) che tuttora investono con ondate di neoromanticismo senza gran lume di ragione anche la musica, il teatro, le arti visive, il cinema: in una corsa palpitante verso la semplificazione espressiva dei sentimenti primari: e in ciò consiste, credo, la vera pornografia, quella pratica ideo-figurale di cui la TV ci offre senza tregua le prove più alte, e il cui perno per così dire "filosofico" consiste appunto nell'occultare i nessi e i rapporti del discorso e dell'opsìa complessa, fingendo che la realtà non abbia ancora scoperto, nel suo funzionamento caotico, quelle sciocchezze che si chiamano principio di non contraddizione e dialettica, tanto per dire.

Pochi autori, in questa magna palus pornocràtica, resistono e continuano a lavorare in controtendenza, pagando ovviamente tutti i dazi imposti dai Doganieri al potere. Sanno che lui, Monsieur Le Langage, non può essere ulteriormente umiliato dalla sostituzione piuttosto truffaldina del labirinto sentimentale e dei salottini intimistici al gioco strategico delle strutture, dei ritmi, dello sguardo giudicante sul mondo nella sua dura irripetibilità. La Retorica, insomma, è stanca di essere umiliata dalla Patetica.

Anche Gemma Forti lo sa. E' questa consapevolezza che le ha permesso in pochi anni una crescita decisamente interessante proprio sul piano della dilatazione dello sguardo, connesso (com'è ovvio) con un'intensificazione sempre più precisa dell'espressività. I famosi contenuti, com'è noto, sono nient'altro che i punti nevralgici della scrittura di ogni poeta. Tutt'al più è lecito, allora, parlare di temi, di zone d'interesse. Partita dall'intonazione lirica di un libro come Zeffiro cortese (1996), è con Finestra in alto (1997), magistralmente illustrato da Sergio Ceccotti, che - specialmente nella misura del poemetto narrativo -, lo sguardo inquieto di Gemma ha cercato altre proiezioni, ha preso a misurarsi con altre oscurità.

Oggi, questo libro dal titolo così fuorviante, e forse sottilmente paròdico, che si avvale di una penetrante prefazione di Donato Di Stasi, affronta apertamente una duplice sfida: quella di tematiche fortemente centrate sui destini generali e quella dell'aspirazione a un linguaggio che - lontano da tentazioni tardo-simboliste e da celebrazioni micro-narcisistiche - non esclude nulla dal proprio campo di osservazione. Da qui, dunque, una forte tensione fra il polo del soggetto e il polo del collettivo; e uno spirito polemico che non nasconde - politicamente - la spinta accesa verso l'utopia.

Probabilmente il reale è complicato, più che complesso. Gli elementi che agiscono a contrasto sono in realtà lampanti, ma continuamente truccati dalle centrali dei poteri dominanti. A tutto ciò il poeta cosciente di essere nel mondo e non in un assoluto astratto oppone la propria responsabilità, che nella fattispecie si esplica nella lingua nella sua energia, nel suo scatto innovativo. Perfino nel suo disordine cosciente.

Gemma Forti opta generosamente per questa soluzione. Perciò, Candidi Asfodeli (con tutto il suo profumo di pallida morte, secondo l'arcaico mito ultra terreno) è un libro plurale, un'operazione che elabora il sogno senza chiudere gli occhi, e anzi chiamando a raccolta tutte le facoltà (materiali e intellettuali) di un'autrice che non cessa di rafforzare, su una acuta sensibilità nativa, le proprie risorse di cultura e di confronto.

La mente di Gemma, quindi la sua scrittura, sono fatte di slancio e di controllo: sono questi i due dati essenziali della sua curiosità inesausta, del suo spirito ballerino. La presenza del corpo, che diventa peso specifico del dettato; la sensualità; il caleidoscopio confuso dell'oggi: questi, sostanzialmente, gli elementi che invadono senza tregua la lingua crudele e sbarazzina di Candidi Asfodeli: insieme ad alcune ingenuità e ad alcune cadute di tensione. Ma un libro vitale, si sa, vive anche di questo, ed è forse il prezzo che più frequentemente si paga quando si vuole sperimentare senza rete, lo credo che il rischio più forte che a questo punto del suo esuberante percorso possa correre la poetessa romana è l'insorgenza dell'enfasi, che pure nei tratti più forti del suo dettato è tenuta energicamente a freno. Questo, perché credo che la necessità di dire sia in lei ben più pressante e decisiva di qualsiasi bisogno di appoggiarsi a stampelle oratorie. Lo dimostra il fatto che i momenti più intensi del suo libro sono quelli in cui maggiore è la distanza (anche autocritica) dalla materia, in una giusta misura di raffreddamento dell'emozione, ottenuta anche mediante certi cauti dosagi ironici, certe leggerezze, certe lievi pennellate di humour (“Signori”; “La scommessa”; “La tenda bianca”; “Il mare;” “Alberi”; “Quest’epoca”).

Recensione
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