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Elegia provinciale
Alleo discovering contemporary
cultures (Giugno 2008)
Tra gennaio e l’aprile di quest’anno ho dovuto leggere quasi cento romanzi
pubblicati tra il gennaio 2006 e il dicembre 2007, per un premio letterario.
Non so se definire l’esperienza sconvolgente o desolante. L’unica luce
pierofrancescana (per intenderci quella che nasce da ogni particella di
colore e sembra respirata da tutto il dipinto) me l’ha regalata Elegia
provinciale, la bellissima opera di Giancarlo Micheli, uno scrittore, fino
ad oggi, per me sconosciuto.
I personaggi, tutti raccontati con una attenzione dialettica tra il romanzo
di tradizione e quello innovativo introdotto dai rondisti ed ex vociani nel
primo Novecento, sono Giacomo Puccini, sua moglie Elvira, Doria Manfredi,
una ragazza al servizio nella villa del Maestro, Torre del Lago (che è sì il
luogo della scena, ma è carezzata e sentita come un corpo vivo) la sensuale
Fosca, figlia di primo letto di Elvira, e Mario Crespi presentato come uno
spiritello viaggiatore quasi sempre sui treni o in prossimità delle
stazioni.
La fluida geometria della narrazione ha come centro la
disperazione e, poi, il suicidio di Doria, accusata da un’Elvira, devastata
dalla gelosia e ridotta a pura elettricità istintuale, di essere l’amante di
suo marito e, in seguito, gradualmente emarginata dal paese e abbandonata
persino dalla parrocchia nella persona di un prete impegnato a camminare
dentro se stesso e lungo le strade fangose del luogo, perché perseguitato da
due bravi collocati nella sua coscienza morale.
La cosa, però, davvero innovativa è la tecnica utilizzata da Micheli per
raccontare i fatti. Siamo di fronte a un fenomeno di anaglittica lessicale,
a scelte di finissimo intaglio espressivo: l’autore, prima, descrive la
scena, dando l’impressione al lettore che le vicende non sarebbero state
plausibili se non inserite in quel preciso contesto, quindi, introduce la
sua musica, aprendosi al vento travolgente della poesia e della creatività
totale. Tutta la storia è raccontata attraverso una scrittura polifonica che
non ha niente a che vedere né con la bigiotteria linguaiola, né con
l’esibizione acrobatica propria di quei personaggi che fanno venire in mente
lo sprezzante giudizio di Cocteau sul narcisismo letterario di Flaubert
“sempre con il fucile in spalla, ma incapace di colpire il bersaglio”.
Micheli si è reso conto che il “romanzo è una malattia del linguaggio”, che
la capacità di raccontare si è pietrificata, che la lingua deve tornare a
produrre coinvolgimento e sogno. Da qui il mosaico fatto di descrizioni
rapite dove ogni situazione sembra essere partorita da quella che la
precede, dove ogni lemma è l’eco, l’ombra dell’idea sulla cosa. Da qui i
passaggi da un codice all’altro e l’inserimento nel pentagramma
dell’italiano colto, di gioielli che possono implicare espressioni legate a
superlingue classiche (il latino e il greco) o contemporanee (l’inglese, il
tedesco) e al dialetto versiliese
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Recensione |
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