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Ascesa all’ombelico di Dio

“Tutto quello che Dante non sapeva, ma che voi vorreste sapere”recita il sottotitolo dell’opera di V. Scarselli Ascesa all’ombelico di Dio. Esso sembra esplicare una funzione accattivante, volta ad incuriosire e a sollecitare la lettura; dunque induce a pensare ad un poema rivelatore che va oltre Dante, oltre la luminosa visione tridiatica che il sommo poeta rappresenta nella Divina commedia, ad un poema che finalmente apre ad una conoscenza in grado di saziare del tutto le eterne istanze esistenziali dell’uomo.

Ma se tale sottotitolo lo leggiamo come elemento chiarificatore del significato letterale del titolo, nel quale quindi significante e significato coincidono, allerta il lettore ad una considerazione parodica e non metaforico-allegorica di entrambi. Una parodia blasfema o semplicemente fallimentare, infatti a lettura ultimata, riporta negli angusti limiti della terrestrità: l’ultima conoscenza viene considerata irraggiungibile, coincide con il vuoto, con l’inconoscibile in sé e per sé. La parodia investe anche l’impianto strutturale del poema che trasforma il paradiso dantesco in una sorta di putrescente isola di Lilliput dei Viaggi di Gulliver, dove il poeta, divenuto un lillipuziano ”arrancava a fatica \ con le sue piccolissime gambette\ in un’incredibile boscaglia \ di arborei giganteschi fili d’erba”, fin quando va “ a sbattere col muso ”in una mela gigantesca, con un buco altrettanto grande che apre l’accesso ad un cunicolo scavato forse da un baco altrettanto gigantesco:un cunicolo oltretomba, un viscido cordone ombelicale , in cui larvali lumini, sempre restando nella parodia dantesca, sembrano segnare il passaggio nei vari cieli, la cui ascesa dovrebbe portare a Dio-madre, creatore-trice dell’universo e della cosiddetta anima, ”afflato, alito” che ci rende suoi figli, o razionalmente e scientificamente parlando, “umano assemblamento di molecole corporali e cerebro-razionali”.

Dovrebbe portare, ma di fatto, come si è già detto, non porta, è un percosso fallimentare: la razionalità, la scienza spiegano molto, ma non tutto, sfugge il quid, sfugge l’essenza, cosicché in questo viaggio nello stesso tempo favolistico e parodico, anche la scienza, a cui continuamente si ricorre, rivela nel suo lambiccare, la sua impotenza: al lettore, di fronte alla conoscenza inconoscibile non resta che il riso amaro, affine a quello che emettono i topi nell’oltretomba della Batracomiomachia leopardiana. Tra i personaggi ha un ruolo preminente “l’angelica creatura \ la Super-Gemma di cuore e di sapienza”, senhal, come sostiene anche il prefatore, della moglie, che, descritta secondo moduli stilnovistici, nuova salvifica Beatrice, diviene guida del poeta nel suo iter ultraterreno e suo pensiero poetante che, nell’intreccio scientifico-filosofico della sua ragione, finisce però con l’annullare il raggiungimento del Principio ultimo e perciò anche la funzione salvifica della poesia.

Recensione
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