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Natura morta
La silloge Natura morta di Paolo Ruffilli è la
trasfigurazione poetica di una visione filosofica della vita. Proprio perché
tale, la parola si veste di musica e risponde con modalità espressive nuove
alla ricerca di senso della vita.
Il sintagma Natura morta, se al lettore
“sprovveduto, che non ha un gusto proprio, ma bisogni indotti” ( in Appunti per
una ipotesi di poetica, appendice al testo), può far venire in mente la stasi
di certa pittura di genere, di fatto induce il lettore eletto, “che ha
avvertito l’input rispetto al quale provvederà lui stesso a realizzare
l’empatia” (idem), a cogliervi il nesso inscindibile che collega vita e morte,
essere e non essere, principio e fine,visto che la morte è la fonte dell’essere
e la natura trova in essa la sua primigenia origine, l’essenza nascosta che
l’anima e la caratterizza. Le due parole presentano anche un’affinità fonica ( nATuRA moRTA; n,m: nasali; u,o suoni chiusi) e pertanto avvalorano
ulteriormente il legame inscindibile che collega i due apparentemente opposti
concetti a cui l’ossimorico sintagma rimanda.
La cosmogonia proposta pertanto è materialista: tutto
nasce e tutto muore e dalla morte, dalla materia nasce la vita, secondo un
processo meccanico, necessario ed eterno a cui niente e nessuno sfugge,
incomprensibile in sé, nelle sue ragioni profonde e, proprio per questo,”ci
lascia più interdetti | nell’atto di capire | di quanta morte | necessita la vita
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per fiorire (Vita, pag.9). Tale visione di antica matrice indiana (Charvaka) e
soprattutto greca (Naturalismo, Atomismo) attraversa tutta la cultura
occidentale in ambito filosofico, scientifico, letterario, ma in sé non ha mai
acquietato l’animo umano,semmai ha creato degli alibi di sopravvivenza (ad es.
Foscolo, I Sepolcri: E tu onore di pianti, Ettore, avrai | ......finché il sole
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Risplenderà sulle sciagure umane.), anch’essi limitati e limitanti l’esigenza
di assoluto che caratterizza l’animo
umano.
Il pessimismo che ne deriva,anche da Paolo Ruffilli viene alleviato da una
gnoseologia che si affida alla nominazione delle cose per sostanziare
l’esistenza e all’immaginazione come possibilità esplicativa di categorie che
si caratterizzano insieme per la loro estrema astrazione concettuale e per la
loro estrema concretezza nella vita di ogni essere. Così la parola “ha filamenti
lunghi | ......che pescano | nell’utero del tempo | .....ha dato | soffio e corpo
musicale | alle cose sconosciute | richiamandole | ..... | come fuori da se
stesse | dentro il ritmo cadenzato | di quel tutto tuttità. E′ inutile dire come
questi versi richiamino molto alla memoria
alcune delle famose degnità del libro I della Scienza nuova (XXXVII,L), dove
G.B. Vico pone nell’infanzia dell’umanità contemporaneamente la nascita del
linguaggio e la sua natura poetica, ma Ruffilli va oltre perché egli non è solo
“avvertendo con animo pertubato e commosso”, ma anche riflettendo “con mente
pura” (D. LIII) che afferma che le cose non hanno una esistenza in sé, ma
esistono perché chiamate e la loro nominazione genera poesia che per
imitazione dà “pronuncia all’invisibile (il nome della cosa immaginato)”,
con l’espressione consente “per segni manifesti | ..... | dall’indistinto
balzare fuori” e attraverso la rappresentazione, “al liquido pensiero
| dar solidi confini | in forme organizzate | partiture-stili” (Ipotesi di
lavoro, pag. 28). Le parole però non possono essere canonizzate secondo una
rigidità immutabile, infatti la lingua, sostiene il poeta nei suoi citati
Appunti di poetica, è come “ un flusso energetico”, è “metamorfosi” e il suo
verso, per far “parlare la condizione sbriciolata dell’uomo moderno, si è
progressivamente sbriciolato”.
Ma la parola in qualunque modo essa venga usata, ha
realmente funzione “cicatrizzante”, risanatrice della “propria salute profonda”?
L’avrebbe se soddisfacesse il desiderio di assoluto,se riuscisse a svelare il
mistero del tempo all’uomo che vorrebbe viverlo non solo come durata (Bergson),
per cui ognuno di noi è insieme il suo passato e il suo presente, ma come
eterno presente, contenitore anche di desiderio e di sogni. Da qui lo scacco:
l’intero non ha dove: | dal nome si protende | ciò che non ha nome | ....Di non
essere | è impastata ogni cosa | e la sostanza del mondo | scivola sul vuoto” (Del nome I, pag. 61) ed ogni tentativo di sapere si risolve in un ariostesco
percosso circolare che, come è ovvio in una spazialità orizzontale, trova il
sublime nella stasi, nel sapere e non sapere. Non resta che un piccolo
inventario di cose notevoli, legate alla corporeità (lavarsi,
pettinarsi,mangiare....) e trovare nella parola lo strumento attraverso il qual
svelare la coincidenza del vuoto con il pieno, dell’assoluto con il relativo,
della vita con la morte, insomma la natura morta, “senza, però, una
regola | precisa, che non | coincida se non | col desiderio, | la voglia di
schizzare | a un tratto fuori dal cerchio | in cui si è chiusi e
prigionieri”(Del pieno e del vuoto, pag 93).
Lo stile ben si addice all’argomentazione filosofica,
infatti la sintassi è essenziale,”sbriciolata”, tesa a scolpire la parola
appropriata e pregnante che, nello stesso tempo però, come si è già rilevato,
riesce a sciogliersi in musica nella strutturazione armonica dei versi.
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Recensione |
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