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L’invasione degli storni
L’invasione degli storni
nasce da una suggestione del racconto Palomar
di Italo Calvino e si evolve in una scrittura poetica ricca di riferimenti
letterari e di spunti tesi ad approfondire la relazione tra testo poetico e
immagine.
Nell’affrontare questa nuova opera di Roberto Mosi non si può tuttavia
prescindere dalla conoscenza delle ultime due precedenti raccolte poetiche:
Luoghi del Mito (2010) e Nonluoghi (2009) in cui si analizzava la
condizione di un mondo ormai senza riferimenti, anestetizzato dal degrado e
incapace di risalire verso dimensioni umanamente più accettabili. La salvezza
potrebbe essere nell’uomo stesso, suggeriva Mosi, agganciandosi al ricordo di un
mitico, armonioso passato e nella sua capacità di ritrovare in sé un nuovo
equilibrio nei confronti della natura.
Quest’ultimo testo, preceduto da un’approfondita prefazione di Giuseppe Panella,
viaggio “dal mare dell’immondizia allo schermo traslucido della coscienza” ed
estremo tentativo di scendere a più armoniosi patti con la Natura, qui in
maggior misura presente con le sue voci, chiude il cerchio di questa non
annunciata ma evidente trilogia.
Il libro è suddiviso in tre parti: Valle dell’Inferno, Via del
Purgatorio e Nuovo Cinema Paradiso. L’architettura vagamente
dantesca, confermata dalla presenza di Gabriella, musa ispiratrice e novella
Beatrice e dalla toscana geografia, delinea inizialmente una campaniana radura
del Mugello (provincia fiorentina), luogo di Follia per eccellenza “[…]
Congestione di rifiuti urbani | nelle discariche a cielo aperto […]”, dove la
simbolica presenza dell’immondizia regna sovrana; pesante groviglio che tiene
lontani dall’Armonia. Il passaggio al Purgatorio, la Sala d’Attesa di un Reparto
ospedaliero “[…] Passi sulla sabbia tra miraggi | evanescenti, il Tumore
| tesse
il tempo dell’Attesa […]” , segna l’altra dolorosa tappa, la fatica di scuotersi
dalle spalle il male che, consapevolmente o inconsapevolmente, ci schiaccia.
Inevitabile per prendere coscienza del futuro, per giungere a quella salvifica
realtà sognata e finora negata, a una dimensione più autentica della vita. […]
L’ultimo chiarore scompare, | l’ombra sale dalle strade | sommerge le cupole,
| le
tegole dei tetti, | inghiotte il volo delle piume. | Nei nidi appesi alle gronde
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riposano i racconti del mondo, | la testa sotto le ali”.
L’autore, costantemente impegnato sul fronte della cultura (è stato dirigente
della Cultura alla Regione Toscana), anche in quest’opera dispiega la sua parola
poetica per confermare la volontà di non cedere, di non venire meno all’immenso
impegno cui ogni uomo è chiamato venendo al mondo. La poesia, ne è cosciente,
non potrà mai offrire certezze, risposte definitive; può tuttavia regalarci
l’esperienza di un sogno, di una ricerca, di un cammino. O, forse, di un
“volo”.
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Recensione |
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