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Ritratto di Nevio Nigro


a cura di Dante Maffia










Polimnia, nr. 22, 2010

Poesia come pane

Maria Luisa Spaziani

Creare poesie con colon puri, ritmi semplici, metafore immediate, simboli impliciti, similitudini senza il "come" e sintassi abolita, è la meta di tanti poeti moderni, quelli che hanno dato l'addio alle grandi saghe, ai poemi del passato. Meta difficile, se è vero che la semplicità è una conquista dell'arte matura. Certo è che quella che si definisce "semplicità" e che può essere intesa in innumerevoli modi, in tante sfumature (di cuore, di lingua, di tessitura) corre più di un pericolo, quello soprattutto di farsi diafana fino all'inconsistenza, di escludere una dialettica umana, di restare nell'ambito del sentimentale e della sensazione. In tal caso la poesia non sarà una fanfara di guerra, ma milioni di violette dipinte o cantate dall'Arcadia in poi, che possano far rimpiangere i tempi in cui le parole della Marsigliese elettrizzavano i popoli, e continuano a farlo.

Questa premessa alla raccolta Il sale dei baci di Nevio Nigro era forse necessaria. Al primo impatto il lettore può avere la sensazione di trovarsi di fronte a un naïf, la cui visione liliale del mondo – solo qua e là solcata di malinconia (e spunta persino una volta la parola "dolore") – sia paragonabile a un acquerello naturalistico dove mai s'inserisca una riconoscibile figura. Se poi non fosse il lettore in carne e ossa a trovarsi di fronte a queste poesie, ma fosse la spietatezza statistica di un computer, eccoci servita una lista di parole emergenti, ricorrenti e come tali sostitutive di più ragionate connotazioni: luna, amore, pioggia, ombra, penombra, mare, stella, notte, occhi, fiori, vento, silenzio, tempo, gabbiani, sogni. Certo, parole del genere sono universali, è difficile che un poeta non ne usi almeno due terzi, sono i frammenti di un caleidoscopio che a ogni piccolo movimento sposta o rivoluziona il precedente disegno. E' vero, colme è vero che mille visioni di bottiglie non faranno nemmeno per caso un Morandi.

Resta tuttavia, inequivocabile, un giudizio di genere: questa e poesia sentimentale molto vicina al genere "poesia d'amore", un insieme di quadretti pieni di grazia non sottratti a calchi illustri ("E io non so / se sono / o sono stato") che si riscattano, nell'insieme, per la forza persuasiva del dettato, per una sincerità certo non soltanto di ordine psicologico. Poesia come pane, diretta, abbandonata ai margini del sogno, che tuttavia trova i suoi lampi di originalità, le sue moderne parentele postpascoliane: "E la felicità / è una finestra sola odorosa di fiume". Un flash di forte effetto in "Funerale contadino": "Adesso lo seguivano. Scarpe della festa / Fiori alle mani". O ancora in "Lenta luna": "La chioma bruna / e l'anima a colori".

Vorrei chiudere questa prefazione a Nevio Nigro citando per esteso (non con le mortificanti barrette) i primi otto versi, quattro distici, di "La luna del mattino":

Mi e rimasta nel cuore
la luna del mattino.

Quella di quel mattino
di quel giorno lontano.

E il rumore dell'onda.
E l'odore del sale.

La sera non fu triste.
La notte non fu sola.

Perché la scelgo? Perché qui non si tratta tanto di un quadretto di genere quanto di una visione sintetica, di un telegrafico romanzo in nuce che in poche parole ci porta con la sua vicenda all'alba della notte.


La poesia rara e misurata di Nevio Nigro

Giorgio Bárberi Squarotti

La poesia rara, misurata, molto rattenuta e discreta di Nevio Nigro ha il tono di un colloquio limpido e, al tempo stesso, dolente con la vita e con la vicenda e le esperienze che essa via via ha proposto e che la parola poetica interroga, cerca di spiegare e di illuminare, e in ogni caso intende conservare nel tempo, per ripensarci e ritrovarne il sapore, ma anche riconoscerne il significato. C'è una grazia sottile e malinconica in questi versi: ma nel fondo si annida sempre un'inquietudine segreta, che si concreta in sogni di premonizione, in prese di coscienza del trascorrere del tempo e dell'impossibilità di ripeterne le vicende, e se anche la primavera ritorna, non per questo e possibile ricominciare l'esistenza davvero. Si leggano i tre componimenti che s'intitolano "Pensieri di primavera", e si può verificare subito come la limpidezza del discorso sia continuamente increspata dalla meditazione della precarietà di ogni sussulto della vita, di ogni visione o fantasia di fiori, di verde, di nuovi cieli, quasi che fosse così facile, poi, vivere davvero in tale rinascita della stagione, e non ci fosse, invece, uno iato incolmabile fra natura e uomo, proprio per questa presenza della riflessione e della meditazione che impedisce il pieno abbandono al flusso vitale della stagione. Questo fondo meditativo del senso dolente della vita, pur nello scenario di alberi e fiori, si fa più evidente là dove il senso della morte si fa più netto, cioè ne "Le madri", dove Nigro, con il tono sommesso e discreto che è tipicamente suo, ricupera anche la classica memoria del vano abbraccio di Ulisse alla madre, nella "Nekya" dell'"Odissea", il disperato gesto di stringere l'ombra, per un omaggio d'affetto che non può, invece, andare oltre la morte. L'altra faccia, allora, e la lucida e desolata meditazione, sempre intorno alla vecchiaia e alla morte, di "Disamore". E' un motivo che si ripete in "Ricordo del padre", sempre con quel modo pacato e triste che è di tutta questa poesia. C'è uno sguardo disincantato, un poco rassegnato di fronte anche alle occasioni che pure la vita offre di reinventarne sentimenti e speranze. Il verso di Nigro è per lo pin breve, netto, lievemente musicale, poiché mai è portato a raccontare, quanto invece a evocare. La malinconia si concreta in situazioni simboliche di nebbie, di albe che sono simili a tramonti, e tramonti che danno l'illusione di albe di rinnovamento e di ripresa di vita, così come la primavera. Nascono di qui testi come "Sera", "Portovenere", "Notte", che costituiscono esempi significativi della linea saggiamente, mediana della poesia di Nigro: che, a tratti, si concentra vertiginosamente nella sentenza, nella battuta conclusiva, nel compendio definitivo di tutte le emozioni, i pen­sieri, le situazioni, le esperienze. E il caso degli ultimi due componimenti del libro: i due versi di "Ti adoro" ("Ti adoro / perche si muore"), che raccolgono il significato del rapporto di fondo, che nel libro e descritto, fra i casi dell'esistenza e il pensiero che li considera e li giudica; e la ripetizione, scandita con sempre pin profonda consapevolezza del tragico quotidiano che deriva dal pensiero della morte e allora acquista una religiosità spoglia, esemplare: "Ma non sono capace di altro, / non sono capace / di altro, / non sono capace di altro... / che di chiedere perdono". Davvero non potrebbe esserci "commiato" più adeguato del libro e più adeguato per renderne l'intento e il messaggio.


L'immediata percezione dell'accadimento

Antonio Spagnuolo

"Tra funerali e sottane / nessun vizio e perduto. // Malgrado il lungo cammino / si confondono alba e tramonto" e ancora "Sui prati della notte / danza una donna oscura. // Viene da un golfo d'ombra / in cui scompare il tempo". Troppo facile sottolineare, con affettuosa compartecipazione, l'incalzare dell'incubo, il dire e non dire, con velata nostalgia, che l'orologio corre verso il tocco che prima o poi ci congelerà nell'infinito. Il particolare nesso rappresentativo traspare nel riferimento all'onirico, la sensazione di avere la coscienza ormai pronta alla rielaborazione del futuro, ove la successione in allineamento delle immagini diviene immediata percezione dell'accadimento. Il ripristino della totalità cozza allora nuovamente in questo sogno contro la coscienza, opportunamente calibrato dalla vivificazione dell'inconscio, così avvertibile nell'epoca contemporanea, anche se difficilmente impartito dall'uomo testuggine, ed il verso può accontentarsi di una parte minore dell'esistenza per sparir di scena con celata, pensosa pretesa idealistica, attento a cogliere gli scatti e le vicissitudini che il vissuto ancora offre quale estroso sopravvivere. Già il titolo della raccolta Il sale dei baci si trasforma con magistero in una specie di parafrasi alchimistica, ove la successione delle frasi e l'incalzare del verso, vaghe e mutevoli rappresentazioni della morte, siano il centro del non-io, capace di inseguire quel tesoro difficile da raggiungere, imprigionato nella esile verità non ascoltata. Simile a un vapore irreale, privo di ogni sostanzialità, ma sempre più ricca di una certa capacità di fascinazione, la donna oscura ci conduce al ballo finale sui prati della notte e il poeta, trasformando in contenuti consapevoli l'esperienza non ancora vissuta, fornisce gli strumenti di comprensione di quella rimozione che è impossibilitata a uscire dalla dimensione dell'attuale. Mai puro capriccio o giuoco dell'immaginazione, la coscienza narrativa si trova innanzi allo spazio oscuro dell'ignoto, come se nella non-luce si rispecchiasse il retroscena psichico dell'osservatore, ed egli scopre che nella materia e nelle qualità dei significati possibili può vedere o credere di riconoscere i dati del proprio inconscio ivi proiettato. "Scivola questo tempo / incerto di carezze / ed e ostile / anche a se stesso / il cuore. // Per me chiedo alla. sera / di ritagliare / una parte di notte / con la sua luna". Il dipanarsi di una accesa sensibilità contemplativa sfocia nella ben nascosta accettazione dell'ineluttabile, separato dalla riflessa solitudine e dall'inappagabile bisogno di amore, che accompagna il substrato autobiografico ricamato con prudenza tra le corresponsioni della metafora. Significativa la presenza ripetuta della "notte" nei componimenti di Nigro in contrapposizione alla assenza del "nulla", quasi a voler sottolineare che se "avanza il tempo – e non ricordo più / tutto il passato", la sua voce diviene una fedele rassegnazione alla speranza del "dopo". Nevio Nigro è credente di quelli che riescono a scorgere in ogni gesto, in ogni creatura, in ogni pensiero il segno dell'Onnipotente, la "violenza della fede", e le sue convinzioni non rimangono gelide forme di rappresentazione, ma tentano, come in "Parole alla Vergine", un approccio alla preghiera, ben riuscita, senza sfasamenti e fortunatamente senza pretese ecclesiastiche. Già altre volte abbiamo sottolineato la consapevolezza dell'ordito capace di produrre una musica scritta con piena ragione con scansioni e ritmi di inquieta levitazione in una maturità espressiva vivificata da scatti ed articolazioni personali.


Il dono dell'essenzialità e della dignità

Mariarosa Marchese

Il Novecento letterario italiano è stato ricco di molte esperienze poetiche e non sono stati pochi i poeti di rilievo capaci di interpretare il nostro tempo, le sue bellezze e le sue bruttezze, le disfunzioni, gli approdi, le perdite. Però negli ultimi decessi qualcosa si è inceppato e il caos è entrato massicciamente a dettare legge, al punto che ormai non ci sono punti di riferimento, traguardi visibili in cui credere e sperare.

Un dato però è sempre rimasto chiaro: chi fa poesia che nasca dalla piena del sentimento e la sa portare a esiti di chiarezza, avrà sempre un posto di privilegio nonostante i ribaltamenti, le guerre fratricide e le trovate delle avanguardie. Insomma, la misura greca, che un tempo seppe dare all'umanità il senso dell'essere, del divenire e del perire, quando è saputa magistralmente somministrarsi, riesce a coagulare momenti perenni. Non è casuale che Pier Paolo Pasolini vide in Sandro Penna il maggiore poeta del Novecento (a torto o a ragione) o altri che vedono in Vincenzo Cardarelli o in Umberto Saba le punte acuminate e preziose della nostra recente poesia. Non è neanche casuale, dunque, che un poeta come Nevio Nigro, che si muove nella scia della lezione penniana, susciti tanto interesse.

Però è bene chiarire immediatamente che Nigro non è per nulla un "allievo" di Penna, prima perché ha una sua voce inconfondibile e poi perché semmai egli ha attinto movenze, ritmi e suono nel mondo antico, nei lirici greci, nell'"Antologia Palatina".

Credo che ci sia anche un'altra ragione che ha contribuito alla chiarezza della poesia di Nigro: la sua professione di medico pediatra. Avere a che fare con i bambini dà, per forza di cose, uno sguardo pulito nei riguardi del mondo. La tenerezza affiora e si trasforma in annotazioni molto belle che a un certo punto prendono forma di canto. Nigro ha saputo conservare lo sguardo netto ed è per questo che riesce ad acciuffare le sensazioni con uno spirito quasi magico, con quella leggerezza necessaria che serve a non appesantire mai il puro dato etico o estetico. I suoi versi sono tocchi appena percettibili di corde di violino, cadenze di meraviglie, scoperte di un'apparente marginalità della realtà che invece si fa subito essenza e centralità.

Sia che egli descriva il paesaggio, che parli dell'amore, di Dio, degli affetti familiari, della morte, sempre trova la parola esatta per dire, con brevi sillabe, tutto ciò che si muove dentro la sua anima, tutto ciò che "serve" per poter capire chi siamo e dove andiamo. In questo senso la sua religiosità ci spiega gli atteggiamenti che spesso diventano di preghiera, ci spiega certe annotazioni spirituali perentorie.

La poesia di Nigro non ha un solo fronzolo, un orpello, un minimo peso esornativo. Come se nel suo dna il poeta avesse il dono dell'essenzialità e della dignità. Si provi a leggere l'intero suo canzoniere (non uso a sproposito la parola che richiama Petrarca e Saba) e ci si renderà conto di come ogni parola si muove dentro un cerchio magico che punta a estrarre la polpa del significato.

Le ombre e le accensioni di Nigro potremmo misurarle da come egli "atteggia" i versi, da come adopera certi aggettivi, da come ci porge certe immagini o da come fa scintillare le metafore. Il tutto con aria d'innocenza, dietro la quale è in agguato un forte pensiero, delle radicate convinzioni. Non inganni quella sua aria sorniona e pacifica, nelle atmosfere liriche di Nigro si sente la tempra battagliera di chi ha saputo distillare suoni e sensi e ne ha saputo trarre le adeguate conseguenze. Ecco perché sentiamo un palpito nel leggerlo, una passione che sa far muovere le necessità dell'anima e portarle a momenti di alta tensione. Nigro vive dentro un sogno, si ha l'impressione che egli si creda spesso il sogno di se stesso e del mondo, oppure una particella del cosmo sperdutasi nell'universo, eppure non si è smarrito, ha portato avanti un suo discorso anche "teologico" difendendo le posizioni in cui crede. E la sua poesia se n'è giovata parecchio, perché ha potuto essere pensosa e priva di quelle vaghezze che spesso sono appannaggio di poeti confusionari.

Nevio Nigro ha dato alle stampe parecchi volumi, a volte esili, con quei suoi versi brevi ed eleganti, con quell'atteggiamento nobile che viene profuso anche nelle parole. Dono ed educazione, lavorio continuo su se stesso. Si sa, senza un costante lavoro, senza assiduità non si raggiungono traguardi eccellenti. In ogni campo. Nevio infatti non si è risparmiato, ha messo tutto se stesso nei suoi versi, ha profuso i suoi sentimenti a piene mani, si è esaltato ed acceso, ha sentito vibrare le corde dell'Assoluto e ha cercato di abbeverarsi alla bellezza. Non è questo che deve fare un poeta? Che dovrebbe fare ogni poeta? Forse grazie alla sua umiltà e al suo candore, ha saputo trovare lo scintillio del mistero, dei segreti del cuore e ha saputo donarceli senza sottrarsi a nulla. Non è stato facile, perché la sua poesia è andata controcorrente, incurante delle mode, indifferente agli imperativi e ai diktat del potere editoriale. Alla fine ha vinto, perché alcuni suoi versi restano indelebili nell'animo, suscitano emozioni, pensieri, accendono, danno la certezza che nulla si perderà mai e che la resa dei conti si farà con il tempo, questo galantuomo molto speciale che permette anche a chi non muove le sfere delle case editrici maggiori di restare a testimoniare un tempo di amore, di speranza, di fede.


Quel passo di danza

Dante Maffia

Sono rari i poeti che hanno saputo restare fedeli alla loro ispirazione, al loro passo, senza farsi prendere la mano dalle mode e senza rincorrere astratti furori, per lo più frutto di teorie. Tra questi c'è Nevio Nigro, che distilla sentimenti e pensieri sempre più accorto a non sprecare parole, sempre teso a cogliere l'essenza lirica di questo mondo ormai, sembra, avviato a un grigiore pesante e privo di speranze. Maria Luisa Spaziani nella Prefazione si domanda se l'armonia dei versi di Nigro sia il risultato di una vena facile e avverte: "Guardiamoci dalla patetica reazione del custode del museo Picasso che tutto il giorno si trova sotto gli occhi quadri che avrebbe saputo fare anche lui", proprio per sottolineare che dietro l'arietta di lontane ascendenze metastasiane o digiacomiane c'è un lavoro assiduo di ricerca, la rincorsa affannosa per trovare di volta in volta la giusta misura espressiva.

Quel passo di danza, dunque, è facile soltanto apparentemente; in realtà Nigro (e lo ha dimostrato in più d'una occasione) arriva alle sue sintesi liriche attraverso un labirinto di sensazioni da cui trae, poi, la scheggia ritenuta necessaria per dire fino in fondo la sua gioia o la sua angoscia, le sue esaltazioni, i suoi incanti. E direi che sono gli incanti a fare da sottofondo a tutto questo volume. Nigro ha "bisogno / di sogni", di " occhi / trasparenti" che gli facciano vedere l'amore e lo portino "nel tempo dell'incanto".

Meraviglia che molti critici e molti lettori parlino con entusiasmo di Sandro Penna o di Giorgio Caproni e poi non si soffermano neppure un istante su testi come questo di Nigro. Vi troverebbero la continuazione ideale di quel che potremmo definire "minimalismo lirico" (per contrapporlo al minimalismo tout-court che recita la quotidianità come un ripetitivo e spento ricettario) così ricco di accensioni e fortemente arroccato alla descrizione delle emozioni. Nevio Nigro non si preoccupa di obiettivare ciò che prova, ciò che sente. Annota le sue vibrazioni, i suoi sussulti, mette se stesso dentro ogni componimento, è il suo io che si commuove e si accende di coriandoli e di arcobaleni e noi lo sentiamo davvero "fraterno", come ha detto Maia, e ci lasciamo prendere "per mano con dolcezza" e guidare "nei percorsi lineari di sentimenti semplici ed intensi". La sua poesia, mi piace ripeterlo, ha la freschezza di una sorgente d'acqua che sgorga tra le rocce: non si ammanta di complicazioni intellettualistiche, non si arrocca sull'arroganza dei significanti. Cosi e sicuro che arriva dritta al cuore di ognuno.

I temi di Quel passo di danza appartengono alla grande tradizione (l'amore, le rose, la luna, il mare , le lucciole, la nostalgia, lo stupore degli incontri, gli affetti familiari, i ricordi), ma Nevio Nigro vi aggiunge quel sottile pathos che rinvergina il rapporto con ogni cosa e lo rende una continua scoperta: "Nel mio pensiero / l'ombra del tuo viso. // Invisibile vento / il tuo ricordo. // Muta e la voce. / Le parole antiche. // Sulla morbida pelle / non splende più / la luna". Ecco, il poeta si lascia trascinare da accordi lontani, riassapora il senso delle cose perdute e ritrovate sul filo quasi impercettibile della memoria e s'abbandona al canto, anzi al sussurro di voci misteriose e ammalianti.


Il poeta delle piccole grandi cose

Giuseppe Pedota

Lo so, quando si parla delle piccole grandi cose si pensa a Giovanni Pascoli, che ha fatto scuola in tutto il Novecento letterario italiano a cominciare dal Crepuscolarismo e a finire al minimalismo, ma le piccole grandi cose di Nevio Nigro si distinguono da quelle citate per una serie di motivi fondamentali. Proviamo a metterne in evidenza qualcuno. Innanzi tutto Nevio Nigro non elenca e non si piange addosso, non vede il mondo andare alla deriva, non lo descrive nelle sue fattezze fisiche. Le sue "cose" hanno il fiato, sono ninnoli graziosi di spifferi sentimentali che vogliono cogliere le cadenze interiori dell'anima, andare a frugare nelle pieghe nascoste di situazioni che altrimenti si perderanno nel vuoto. Il sale dei baci, Gli incontri, Le donne oscure, i passi di danza, i "funerali e le sottane" e i "Se" non sono mai pretesti per esercitazioni letterarie e linguistiche che vogliono dare dimostrazione di qualità filologiche o di perizia, al contrario vogliono semplicemente dare testimonianza di una fedeltà alla poesia che si estrinseca con parole dolci e composte mai allusive, mai fuorvianti, mai portate alla vaghezza e alla inessenzialità, ma alla ragione profonda dello spirito. Se dovessi sintetizzare in un rapido giudizio la produzione di Nigro mi verrebbe da dire che si tratta di un lavoro sostanzialmente indirizzato a portare alla luce le parole che sono incastrate nel suo cuore e che hanno bisogno di farsi vedere per dare ai lettori una possibilità di salvezza.

Tutta la poesia di Nigro brilla di religiosità, nella vita, innanzi tutto, nell'amore, nelle fede, nei valori preziosi e antichi dell'uomo. Davvero "Tutto e nel sole / e nell'ombra" e "Il cuore / fuggendo dall'ombra / vuol tingere d'oro / il suo sole / al tramonto. // E nella luce / insegue l'illusione: / ancora tanto cielo / e la maschera lieta / azzurromare".

Non c'è soluzione di continuità tra gli esordi di Nevio Nigro e le sue nuovissime poesie: egli nasce già compiuto e prosegue nella sua strada senza scossoni, senza tentennamenti, senza distrazioni, convinto che chi possiede un mondo interiore lo deve difendere e rendere visibile a tutti in modo da condividerne le dolcezze e le paure, i palpiti e i traguardi.. Potrei fare lunghe citazioni da ognuna delle sue pubblicazioni e potrei addirittura spostare la data delle composizioni e nessuno si accorgerebbe di nulla, perché si tratta di una poesia senza tempo, libera da implicazioni cronachistiche, lontana da toni retorici che coinvolgono i problemi della società odierna. Per carità, egli sente le vibrazioni del brutto mondo che ci è stato apparecchiato, ma sa andare oltre, verso l'invisibile, a caccia di sensazioni inedite che possano squarciare il velo dell'impossibile e fargli intendere appieno la sostanza del suo essere. Nigro non ha paura di sognare, le sue piccole cose quotidiane sono rivoli di una stessa ragione che lo porta a sentirsi parte integrante di quel vento sottile che accende di lumi e di chimere il mondo.


Un poeta che non spreca parole

Ilaria Goffis Contini

La prima cosa che appare chiara al lettore della poesia di Nevio Nigro è che non c'è spreco di parole inutili, di parole che affollano i pensieri. Eppure nulla si perde del drammatico e del tragico che si annida in questa poesia cosi apparentemente esile e invece al palato robusta, forte, resistente. Come se il poeta avesse la nostalgia di un mondo che è stato vissuto ed è rimasto a dondolare nell'aria e non vuole disperdersi. Infatti si intrecciano malinconia e nostalgia, ma senza fare troppo rumore, senza scontrarsi, anzi spesso abbracciandosi e riuscendo a trovare un'armonia che s'impone e sussurra indicazioni importanti.

Se si guarda bene, ci si accorge che Nevio Nigro, che è stato professore di pediatria nell'Università, sembra dire le cose con accenti dolci, in realtà egli affronta i problemi cruciali dell'uomo e ne tesse le paure e i patemi, le incertezze e le angosce.

Il dettato è lieve, in punta di piedi, non c'è quasi mai un grido, una indignazione plateale, eppure sembra che le parole arrivino allo stomaco e lascino uno strascico indelebile. Si tratta di una poesia che nasce da un vissuto lungo e personalissimo, ma che non sosta al proprio davanzale, anzi dolcemente entra in casa d'altri e si ferma a oziare, fino a che non trova ascolto, fino a che non trova il giusto riscontro. Nigro oscilla dall'acquerello alla puntasecca. Non credo che arriverà mai a dipingere ad olio magari "en plain aire", come ha intravisto la poetessa torinese, perché le parole per il Nostro hanno un peso specifico molto essenziale e temono di scendere a patti con le oscurità e le molteplicità delle accezioni. Non si dimentichi che Nigro è, in qualche modo, un classico, uno che sente fortemente il peso del mondo antico a cui guarda, tuttavia, con assoluta libertà. Però del mondo antico conserva il gesto e la determinazione che non accettano le sfumature delle ambiguità espressive. Egli dà a ciò che scrive una valenza che si limita a sfiorare allegorie a simbologie e resta ancorata alla realtà di un sogno, mi si consenta l'ossimoro, dentro cui scioglie l'estasi del suo andare dubbioso verso l'estremo traguardo. Spesso le sue pagine sono popolate di "fantasmi", piccoli elfi notturni che danzano nel suo cuore portando desideri e rimpianti. Leggiamo almeno "Quel viso", in cui possiamo riscontrare quanto ho affermato: "Voci della sera / sul viso di colomba / della ragazza del mare. // Carezze portate dal vento / oltre il verde riarso. // Respirare sommesso / aspettando il silenzio. // Che cancelli il passato / la stanchezza e la sera. // E quel viso. // E le voci. // Desiderio di notte".

Il frasario è quello della grande tradizione lirica che ha radici lontane e affonda nella poesia provenzale e nel "Dolce stil novo", le "cose" di cui si parla sono gli elementi della quotidianità, eppure Nevio Nigro riesce a portarvi dentro una sorta di languore nuovo, qualcosa di sfuggente e di accorato che ci coinvolge e ci pone accanto a lui. E noi ne siamo presi come dalle confessioni di un amico che durante una passeggiata rievoca il suo passato e nel farlo rievoca anche il nostro. Questa sorta di magia collettiva che si sprigiona dai suoi versi e contagiosa, e apre scenari inusitati, ci fa entrare nei luoghi di un'anima che è stata sempre lieta di non essersi contaminate, con le sozzure della vita non vera.

In questo senso Nigro ci dà anche una grande lezione di stile e di estetica, e di umanità aperta, quella che servirebbe oggi per dare dignità alle cose che accadono senza più freni inibitori. Insomma, non sprecare parole vorrà pure dire qualcosa e infatti nel cielo limpido di Nigro c'è come un bagliore di vita che viene inseguito e dietro il quale andiamo tutti per cercare di saperne di più della condizione di noi uomini perduti nel labirinto di innumerevoli sensazioni.

Un poeta così è una benedizione del Cielo, concilia con il mondo e con Dio, e fa sentire in pace con noi stessi, oltre a portarci in un'aura di musica celestiale.


Medicina e poesia

Serena Maffia

Sono sempre stata convinta che i medici dovrebbero avere una maggiore sensibilità degli altri per via della loro professione, una credenza che mi è stata indotta pensando che essi hanno una quotidiana dimestichezza con i mali, con il dolore, con le disgrazie. In tutti i modi sono comunque perennemente a contatto con la gente, ne conoscono le difficoltà, gli stenti, i momenti orribili e anche i momenti, a volte, della ripresa, del cominciamento. I pediatri, per esempio, sono certamente i medici che frequentano i bambini e quindi hanno la possibilità di entrare nel loro mondo, di carpirne i sogni, di vederli andare avanti nella vita come creature innocenti.

Nevio Nigro ha lavorato tutta la vita, come primario, in un ospedale pediatrico. Ha potuto rendersi conto che negli occhi dei piccoli c'è una scintilla così bella da incantare, e si è fatto lui stesso bambino, facendosi adottare. Un po' come Giovanni Pascoli, che ribadì di volere restare sempre adolescente per poter cogliere la naturalezza dei fenomeni e degli incontri, la dolcezza della semplicità.

Ormai i suoi libri di poesia sono parecchi, il suo percorso è diventato visibile e, nonostante la confusione odierna e la protervia dei più, egli ha raggiunto il cuore di molti lettori. E' apprezzato, stimato, riconosciuto e anche amato, soprattutto per il suo modo di porsi, per le sue capacità di poeta che non nasconde nulla nella parola, e anzi svela il più possibile in modo che ogni immagine, ogni scatto lirico, ogni annotazione e ogni pensiero diventino subito praticabili. Non ama le astruserie, mi verrebbe di dire che anche in poesia un uomo pratico, nel senso che punta decisamente al nucleo dei discorsi eliminando antefatti e commenti che sono molto spesso farragginose divagazioni inutili.

Ricordo il suo primo volumetto edito a Pisa nell'ottobre del 1976 e in particolare la poesia che dette il titolo all'intera raccolta, Se. Partendo da una suggestione di Rudyard Kipling il nostro poeta riuscì a realizzare due pagine che ancora restano importanti per il suo ormai lungo percorso e importanti, credo, soprattutto per renderci conto come egli abbia saputo restare fedele a un se stesso autentico, mai tentato di fare il salto improprio.

Mi sono domandata: "Se Nevio Nigro facesse un cambiamento di rotta e tentasse il canto pieno, a tutto fiato, potrebbe dare risultati convincenti come quelli finora ottenuti? Se si abbandonasse alla sfrenata fioritura della sua anima non cercando di spilluccare gli acini sani e belli ma mettendo tutto a cuocere, sarebbe quello che è adesso?". Mi pare che la risposta sia lampante: "No, sarebbe un poeta che va lontano dalla sua natura, che segue la sirena delle mode e non quella della sua vocazione".

Ed è per lo meno eccezionale che nel tempo non si sia scardinato dal proprio asse, ma abbia lavorato in profondità, variando spesso, accendendo lumi nuovi attorno a quelli già accesi, servendosi delle sue qualità umane per mettere in evidenza la portata di una sua "eternità". Sembra che egli abbia seguito il suggerimento di Giuseppe Ungaretti restando fedele all'assunto che "la poesia è il mondo l'umanità fioriti nella parola, la limpida meraviglia di un delirante fermento.

Ecco, il mondo, l'umanità, parole che "esistono / nel tempo dell'incanto". Credo che la sua fonte primigenia sia proprio l'incanto, perché ogni volta che si legge una sua composizione ci si accorge che nasce da una improvvisa caduta nel sogno. Come se Nigro pescasse da un serbatoio invisibile, noto a lui soltanto, e lo facesse però in un modo inconscio, spinto da una folata di vento caldo che gli fa acciuffare a volo l'essenza di qualcosa che aleggiava nell'aria: "Sentieri di sogno / parlano di giorni perduti. // Nuvole vanno al tramonto / sospinte da un vento di piume. // Assomigliano al tempo. // Il sogno chino su me / non muta i miei passi di terra. // E non c'è chi li oda. // Solo poche parole / sfiorano il volto. // Non hanno peso".

E' soltanto un esempio preso a caso da Incontri, un testo edito da Crocetti nel 2008. Ma essendo una poesia circolare si può aprire qualsiasi pagina di qualsiasi suo libro per verificare che tutto si muove dentro un'aura magica di luci ed ombre, di pacati accordi che da paradisiaci diventano infernali e però si fermano sulla soglia del baratro appena in tempo per trasformarsi in suggerimento di preghiera.

Sarebbe interessante leggere i versi di Nevio Nigro con l'occhio rivolto all'Assoluto e vedere come egli tenda a portare il tutto verso il dato spirituale. Basti leggere soltanto una delle tante liriche, come "Esperienza": " Quando il mondo / per me si oscurò / ed il mio sentiero / si coprì di neve // cercai un aiuto / che mi facesse da guida / attraverso l'oscurità, / mentre inseguivo me stesso. // // Adesso il vento gioca / dentro il mio cuore / come con le foglie del bosco. / Facendo solo meno rumore".

Certo, quando le immagini si susseguono così rapide e così pervase da un tono quasi fiabesco, c'è il rischio che tutto possa risolversi in annotazioni in superficie, ma Nigro sa dosare gli scatti, sa dare senso alle sue metafore e sa essere opportuno nel non travalicare se stesso. Ed ecco quindi la certezza della semplicità che scorre fluida e non si inceppa in artifici, Egli canta le cose che vede e sente e lo fa privilegiando il se stesso fecondo di sogni, fedele al motto di William Shakespeare: "Noi siamo fatti della stessa sostanza del sogno".


Parole d'ombra e di lamento

Plinio Perilli

C'è un saggio molto bello di Alberto Savinio sulla severa agilità e quasi gaiezza letteraria che più e meglio, in realtà, accompagna l'idea e il giudizio sulla vera profondità, sulla sincera, effettiva consistenza degli autori riconoscibili, e dunque meritori: "Diversamente da come credono gli ingenui, l'ironia 'non e ironica'. L'ironia è seria. Profondamente seria. E pia".

Ebbene, anche Nevio Nigro, originale poeta elogiato e consolidato, classe 1930, con all'attivo svariate raccolte a partire dal 1976 (fra i suoi titoli, Non tutte d'amore, Il colore del vento, Lune d'amore, Ore brevi, Le donne oscure, Il sale dei baci, Quel passo di danza) gioca e rivela una densa, smagata leggerezza che incanta, una trasparenza insieme radicata e iridescente, che arresa all'impulso e alla volizione esorcistica della poesia, si tinge e si erge, quasi di scatto, disperatamente sensuale e plasticamente armoniosa:

Come una gonna rossa
in un flamenco
quando scopre le gambe
e il tacco batte

così dovresti essere
vita
per farti amare.

Una gonna rossa
che allontani il tempo
ballandomi davanti.

Una poesia danzatrice, seducente e vivace, irresistibilmente melanconica eppure rasserenata all'esistere. Quasi un rapito balletto, ed un baluginante rituale onirico, di Sogni sospesi.

Il suo frutto poetico fiorisce, si dispiega e poi s'addensa dunque come polpa felice, nutriente e nutrita. Un verseggiare incalzante e dolce, effuso e meditato, persuasivo e lirico...

Non è buio il tuo bacio.

Si dona ad occhi chiusi
e non chiede chi sono.

Poi si immerge nell'onda
e vive tra nuvole chiare.

Finalmente si torna a poetare senza paura dei sentimenti; per approdare a un "incantamento" che onori, proclami Natura e insieme, chiarascurata, ci specchi l'anima:

Vestita di ombra.
Non vista.

Amica
del tempo che passa.

Nevio Nigro ha coraggio e stile – Luce sofferta, riacciuffata, risanata da dentro:

Sui prati della notte
danza una donna oscura.
Viene da un golfo d'ombra
in cui scompare il tempo....

L'ombra non vista che pure ci guida nell'intimità più sentita, e decisiva, di ogni sguardo:

Nel mio pensiero
l'ombra del tuo viso.

E dunque il disincanto che più e meglio ci affabula, cura e prolunga il sogno... Ci risana romantici:

Adesso le labbra
sono ignote
ed il cuore sospeso.

Così questa poesia che continuamente, compiutamente parla dell'ombra, ne risulta invece, e come per incanto, esorcizzata, illuminata, prolungata in amore dall'alba all'occaso:

Tutto e nel sole
e nell'ombra.
Anche l'amore.
E il sogno
con l'umile imbrunire della sera:
stuporosi silenzi
e futili parole.

C'è una bellissima descrizione della Torino del dopoguerra, in una lettera di Carlo Levi a Linuccia Saba (la figlia del poeta), che ci è venuta bellamente in cuore leggendo quest'ultimo libro di Nevio.

Torino, mercoledi 16 ottobre 1948

Carissima,
A Milano avrei voluto fermarmi, ma ero così stanco che sono subito ripartito per 'Torino, in pullman. Calata la sera, su quella autostrada nebbiosa e umida, faceva un gran freddo: era il primo assaggio di Torino, questa straordinaria città fantasma, così esotica, così differente da ogni altra al mondo. Questa è la patria della solitudine, di una solitudine ordinata, familiare, piena di sentimento e di nebbie mattutine. Si spazia per i corsi sterminati, senza incontrare nessuno, liberamente in compagnia dei nostri pensieri, nell'aria fresca e boreale che viene dalle montagne, sotto un cielo tenero, vago, velato di ombre grigie, azzurrine, gialle, violette; in un silenzio che avvolge; e la sera, in una semioscurità silenziosa. Sotto a tutto questo, ci sono le fabbriche, le grandi fabbriche, e la vita operaia.....

Anche Nevio Nigro, che pur ha girato mezzo mondo, da Tripoli, dov'è nato, ad Addis Abeba, e poi a Cecina, Roma, Bologna, dove si laureò in medicina, ed in tanti altri luoghi e continenti (per turismo, per cultura, per fede), vive da molti anni nella Torino che diede i natali al narratore / medico / pittore del Cristo si e fermato a Eboli; certamente cambiata, modernizzata, complicata, espansa a dismisura, ma non mutata nella qualità della luce – nell'occasione dello sguardo.

E anche lui scrive del sole degli affetti e del tepore della poesia dopo essere sempre puntualmente riemerso da un paesaggio di grigiume quotidiano, quasi schiacciato, asfissiato dal peso inevitabile, diffuso e trasfuso della realtà. Ma in questo cupo e insondabile "male di vivere", in questa quotidiana e irredenta "rissa cristiana che non ha / se non parole d'ombra e di lamento", come intonava Montale, gli affetti più grandi e la fede vengono davvero a visitarlo, ad esempio, il poemetto in "Ricordo del Padre":

Un libro chiuso
nella mano bianca,
col dito dentro
per tenere il segno,
una giacca celeste di pigiama,
un fazzoletto nella tasca destra:
'Nevio sei tu?'
chiedeva premuroso,
richiudeva la piccola finestra.

Medico, Nigro continua, a suo modo e tono, una tradizione "letteraria", ed in ispecie "poetica" che di frequente vede gli adepti di Esculapio, i sodali giurati di Ippocrate, raccontare, depurare la vita con la rigorosa anamnesi delle parole. Cechov e Benn, W. C. Wil­liams e Nelo Risi, Antonio Spagnuolo e Armando Patti, solo per fare pochi nomi, degli illustrissimi o meno, lo hanno bravamente preceduto. Ma Nevio ricomincia daccapo, con orgoglio e ispirazione, disincanto e fervore (nella vera arte, l'ossimoro, la "coincidenza oppositorum" è di prammatica!).

Un'arte in cui, come nei sonetti di Shakespeare, o nelle liriche di John Donne, è sempre il Sogno che cura e vaccina il risveglio; la primavera che scalda e ripaga ogni trascorso e futuro inverno; e l'amore soavemente febbrile, severa corona di ogni gioia, onere e onore che salva il compunto ritmo anaffettivo, il frigido, convulso, fastidioso caos egocentrico che ci circonda e ci danna al Moderno... Immedicabile, trasparente ferita di ogni Bellezza:

La bellezza appassita
è mansueta.,
Non disfa la notte.
Ma crea
una pioggia di lune.

Ma Nevio i critici, i consensi teorici già ce li ha, e li ha avuti; così come gli esimii editori di versi (Il sale di baci, tanto per dire, è uscito nel 2002 da Crocetti). "...Il sogno permea tutto", – gli scrive Maria Luisa Spaziani – "l'amore sempre presente con l'energia simbolica dell'assenza"... E Giuseppe Conte gli elogia questa valenza quasi musicale, "l'intensa energia ritmica"... Insomma "il tocco fatato, la movenza elegante": si unisce Paolo Ruffilli; così anche Dante Maffia e Giovanni Tesio ed Andrea Maia, che già fece una dottissima postfazione al suo libro Quel passo di danza.

Ora gli interessano, gli spettano solo i comuni lettori fratelli, gli amanti usuali della poesia, i felici giardinieri di fiori, i cultori di quest'eterna e "in progress" Vita Nuova...

La lotta – oltreché con l'Angelo, si sa – qui è anche col Tempo ( "Il tempo è in fondo agli occhi / il tempo fa più male"), con la vita che passa, le ansie che a fiume scorrono fino a un delta consacrante e anelato: il Mare del Mare di ogni Mare, che io chiamo Dio.

Dio Padre di Bellezza – una Bellezza che è in ogni cosa, in ogni gesto o persona che finalmente se ne renda degna:

La bellezza delle rose
non muove a ritroso.

La bellezza appassita
è mansueta.

Non disfa la notte.
Ma crea
una pioggia di lune.

Prestiti e debiti aleggiano e spuntano, come fiori crepuscolari, gelsomini notturni (un certo Pascoli, certo, ma più ancora forse la nudità cristiana di un Betocchi, e la "Serena disperazione" di un Saba, il coraggio d'umiltà del miglior Govoni, intervallati dal quotidiano (favola sviolinata da Gatto), per una lirica effusa e affettuosa, nobilmente pacificata, redenta per dono suo proprio, e la Grazia di una verità consentita e intrisa, "fervorosa" e pacata, armonioso giardino per viali di parole:

C'e soltanto una sera
prima che passi
questa primavera
e questo po' di amore
che mi consola.

Anche la Modernità, insomma, esige un suo adeguato, volitivo stilnovo; o un petrachismo duttile e inesausto, adeguato all'ombra, per rischiararla dalle sue turbe, ma anche far riparo dal troppo sole, dalle sue abbacinanti, sedotte illusions...

"Bisogna così anzitutto disciplinare le nostre capacità, cioè metterci in grado di essere semplici, per poter vivere veramente, secondo quello spirito che è via alla verità della Vita" asseriva, nel 1921, Clemente Rebora (anche Nevio cerca sempre la fede) in uno dei suoi saggi più persuasivi, un lungo commento a "Colui che ci esaudisce o Gianardana, 'novella religiosa uscita anonima in Londra nel 1905, dovuta alla penna di uno scrittore volteggiante nell'atmosfera spirituale indiana, ma dentro il sole di Cristo' - Quasi statua dal blocco, ciascuno deve imparare a modellar la propria realtà buona, dall'esterno verso l'interno, ma con mano guidata dall'intima perfezione, alla quale noi siamo liberi di aspirare appunto perché imperfetti. Allora la nostra azione diventa coerenza di pensiero, e quindi purezza, la quale è quasi un pudore della Verità".

"Senza pensieri d'ombra / passa la luna..." intona Nevio.

E lo stimiamo specchiandoci, perché coi suoi inesauribili e consolanti "Sogni sospesi" gli è (spesso) riuscito di vivere "tra nuvole chiare", dondolando e ammaestrando l'anima a rispettare il sole senza mai supplicarlo ("dall'esterno verso l'interno... quasi un pudore della Verità"...) - e poi a cercare, ad accettare la quiete, concreta e metaforica, e per ciò stesso sublime, ma non mai malinconica, degli "Orti senza sole" che "restano soli / e sembrano segreti". Segreti di un segreto che a tutti, o a nessuno, e concesso.

Perché, "Nel suo segreto / ognuno / ha una traccia / d'azzurro....".


Riflessioni anche tecniche sulla poesia di Nevio Nigro

Andrea Maia

Ci sono alcuni poeti che subito si riconoscono: uno di essi è certamente Nevio Nigro, perché la sua "voce" appare originale ed insieme fraterna. Ogni poeta autentico ha una sua fisionomia, una sigla inconfondibile, la "sfraghis", come la chiamavano i greci: un timbro di fondo cui rimane, in modo calcolato o più spesso inconsapevole, sempre legato. Quando basta sentire o leggere pochi versi per dire: "E' lui!" e questa è una prova di autenticità.

Ho letto ormai numerose raccolte del poeta, da Non tutte d'amore del 1992 • al Colore del vento del 94, a Senza sentir parole fino a Le donne oscure ed al recente Il sale dei baci ed ho sempre ritrovato in esse una sostanziale coerenza di tematiche e di stile ed una evoluzione di approfondimento su una linea di fedeltà a se stesso ed alla propria sigla poetica.

Ma "quello che a mio parere caratterizza la poesia" di Nigro è la capacita di "unire leggerezza e profondità", di mantenere una tonalità equilibrata, di impostare un pianissimo in cui le parole appena sussurrate prendono risalto dal silenzio che le circonda e le isola, trasfigurandole e conferendo loro l'aureola della genuinità, quasi esse siano pronunciate la prima volta, in un mondo incontaminato, in un eden primigenio ritrovato. E' una poesia che non alza mai la voce, lontanissima dalle tonalità eloquenti del vate, e mi fa pensare piuttosto all'idea del poeta, pronto a scoprire un segreto al di là della realtà apparente delle cose. Nigro ha la capacità, con i suoi esili versi essenziali, allo stesso tempo leggeri e profondi, di farci entrare senza sforzo nel suo mondo di sentimenti, ci guida nel regno di un casto erotismo con pudica leggerezza, ci fa avvertire in modo nuovo il soffio di una brezza notturna, il rumore di sfondo del mare, la tenera presenza di un corpo di donna sfiorato dalla luce lunare. "Poesia lirica, dunque? Certo, nel senso romantico dell'espressione, come produzione artistica assolutamente individuale, soggettiva, personale". Una poesia analoga, per certi aspetti, a quella del primo Novecento, precedente all'avvento sia della scuola ermetica, sia dell'impegno. "Non è infatti poesia impegnata sul piano politico e sociale, quella di Nigro"; se c'è in lui un impegno, è quello della dedizione alla poesia stessa. Maestro del "sottovoce" e del pianissimo, sa creare istintivamente "un'atmosfera sospesa tra la realtà ed il sogno...". Ma vediamo insieme alcune significative tematiche da lui sviluppate, e che ritroverete nei testi: il paesaggio, la figura femminile, il notturno e la musica.

Una costante della produzione poetica di Nevio Nigro e certamente il rapporto uomo-natura. Importante e meritevole di essere analizzato è, in tutte le sue raccolte, il paesaggio strettamente connesso col tempo (stagioni dell'anno e momenti del giorno), "un singolare attingimento", come acutamente osserva Bárberi Squarotti, tra paesaggi, stagioni, sensazioni, contemplazioni, memoria". Infatti paesaggio e stato d'animo convergono e giungono ad identificarsi, in uno scambio in cui l'anima sembra assumere i colori del tempo ed i luoghi appaiono intrisi dalla voce dell'anima. Ci sono aspetti e momenti privilegiati: tra le stagioni hanno pin spazio l'autunno e la primavera, fasi di passaggio, trascoloranti e sfumate, preferite rispetto alla nettezza definitoria di inverno ed estate: secondo la lezione "dell'arte poetica di Verlaine", la "nuance" prevale sulla nettezza del quadro, la musica sul disegno. Tra le fasi della giornata, pur dando sempre importanza alla notte (Nigro è nato come poeta del notturno, ma spesso la notte è lunare e addirittura, fin da un titolo ossimorico, "notte bianca") mi sembra prevalere il momento della sera. Se noi esaminiamo il lessico neviano e osserviamo la frequenza nei suoi testi poetici (con poche variazioni nell'ordine da una raccolta all'altra) sono i seguenti: sera, mare, luna, vento, notte.

Già da questa scelta si comprende come il "paesaggio", e soprattutto quello crepuscolare e notturno, siano da lui privilegiati come oggetto di contemplazione poetica.

I titoli di due recenti sillogi di Nigro (Le donne oscure e Il sale dei baci) suggeriscono come il tema antropologico privilegiato della sua poesia sia la "figura femminile", connessa ovviamente con il tema amoroso e/o erotico. Fin dalle origini della tradizione lirica europea ed in particolare di quella romanza (tra provenzali e siciliani) il tema amoroso e stato centrale: poesia significava allora poesia d'amore. E di poesia d'amore sono composti sostanzialmente i libri di Nigro. Amore o erotismo? Tutti e due, anche se per il secondo "non si tratta mai di erotismo esplicito, dichiarato", ma sempre alluso, idealizzato, sublimato, quasi "fuori dei sensi". La tonalità di "pianissimo" che ho cercato di individuare come "specifico" di questo poeta, vale anche (forse anzi soprattutto) per questa tematica fondamentale. Sublimato, quasi sottoposto ad un intento di "rimozione" freudiana, l'erotismo riaffiora però continuamente: lo sguardo dell'amica, le "vesti corte, fresche" delle donne, i capelli neri e l'amore "stanco", l'attesa ed il "riamare, la morbida pelle, le carezze brune". Queste citazioni sono prese dalle prime poesie di Le donne oscure e non trovo quasi composizione – in questa silloge – che non contenga almeno un cenno, una allusione, un leggero brivido di erotismo. Cenni, allusioni, appunto: erotismo suggestivamente suggerito, fascinosamente sottinteso: ma sempre presente, centrale nella poesia del Nostro, tema a mio parere tra quelli fondamentali.

Altra tematica importante, strettamente connessa con quelle precedentemente esaminate, è quella che ha caratterizzato il Nostro "fin dagli esordi poetici", e che trova un apporto essenziale nella "tonalità musicale": una voce poetica che tende non alle tonalità eloquenti e vigorose, ma aspira ad un senso della misura, ad un suono morbido, insinuante, creando un delicato "sottovoce" che si adatta in modo particolarmente efficace ad introdurre e rappresentare il motivo "notturno", anch'esso un "topos" della poesia occidentale, da Alceo a Saffo,a Virgilio, a Tasso... fino a Leopardi e a Quasimodo.

Ma Nigro rinnova il tema, facendo del notturno non tanto lo sfondo di scene o accadimenti, ma creandolo come uno stato d'animo, atmosfera interiore ed interiorizzata, che serve, grazie allo sfondo attenuato dell'oscurità o del pallore lunare, a suggerire ed intensificare le valenze sentimentali. Il notturno viene usato e ricreato non come tradizionalmente accadeva, come semplice luogo di situazioni e azioni, ma come sentimento ed atmosfera interiore. A questo risultato Nigro perviene con una attenzione particolare alle tonalità ed ai suoni della poesia, che raramente vanno oltre il sottovoce, il pianissimo di cui si diceva. E l'aspetto "metrico-musicale" è importante nella visione che Nigro ha della poesia; si sa come ci siano, nella poesia italiana, due concezioni contrapposte: e quella – sostanzialmente "dantesca" della poesia come poesia rivolta alla razionalità del pubblico, e quella – che per intenderci possiamo definite petrarchesca – della poesia come "suono" rivolta ad uditori ("Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono...") ed il loro sentimento. Qui siamo nell'ambito della seconda concezione, che ha il suo lontano modello appunto nel Canzoniere e che attribuisce grande importanza all'aspetto fonico-musicale: l'estro poetico delle composizioni di Nigro è affidato alla scelta della parola non solo in funzione del senso, ma anche del suono, con l'attenzione concentrata, al di là del significato, sul significante: le parole, le sillabe sono come delle note ed i suoi versi liberi, per lo più brevi, sono distribuiti con grande accortezza ed attenzione all'aspetto fonico, come se si trattasse di frasi di una tessitura musicale. Il lettore, istintivamente, leggendo le poesie di Nigro, tende a pronunciarne le parole, a gustarle nel loro morbido suono, a trasformarsi cioè da lettore in ascoltatore.

All'inizio accennavo alla poesia occitanica ed allo stilnovo, e nella raccolta da me prediletta (Le donne oscure) trovo poesie che sembrano collegarsi, non so se per istinto, per scelta, o perché eternamente simile a sé è il sentimento amoroso, al motivo dell'amore da lontano, cioè all'assenza della donna ed al tema stilnovistico della donna-angelo, messaggera di luce. Qui troviamo la poesia intitolata "Seguimi".

Una poesia breve, apparentemente "semplice, sottovoce", in cui la malinconia iniziale della sera è ripresa dal senso dell'imminenza di un tramonto reale e metaforico nei versi conclusivi. Al centro di essa si collocano, in un isolamento che li pone in risalto, il verso "Insegnami la luce" (che sembra rimandare alle donne di Guinizzelli o alla Beata Beatrix di Dante), seguito immediatamente dall'altro "Possiedo la tua assenza", che sembra scritto da un moderno Jaufre Rudel. Ma quegli spunti antichi (ripresi mi ha detto l'autore per istinto) assumono immediatamente, nella brevità sussurrata dei versi, nella loro musica suasiva, una tonalità ed un colore poetico del tutto nuovi, personali ed originali.

La poesia si presta a qualche osservazione oggettiva, anche se so che non è condivisa dall'autore, ma è verificabile da chiunque – sulla metrica. Se noi guardiamo la poesia come è scritta sulla pagina bianca, ci sembra in versi liberi, basata sulla tecnica del primo Ungaretti degli "enunciati fulminei". Ma se la sentiamo leggere, la ascoltiamo, ci accorgiamo che la metrica italiana tradizionale (specie il canto dell'endecasillabo) suona al di là delle interruzioni e delle fratture: Il primo distico è formato da due settenari; gli altri distici, se li ascoltiamo ad occhi chiusi, costruiscono ciascuno dei perfetti endecasillabi:

Ti aspetterò sul molo del mio mare.
Sai dove sono. Insegnami la luce.
Possiedo la tua assenza. Perciò vieni.
Poco si deve andare. Così poco.

Forse è qui uno dei segreti della musicalità neviana, negli "endecasillabi fantasma" (quelli non scritti come tali, ma ricostruiti dall'udito di un italiano, che fatalmente ha già quella musica nel cuore). Una controprova: il verso forse più celebre di Leopardi ("Due cose belle ha il mondo / amore e morte") è proprio un endecasillabo fantasma (in quanto non scritto come tale ma costruito sugli emistichi di due versi successivi), come gli endecasillabi neviani di "Seguimi" (sono endecasillabi involontari, ma sono lì), che donano alla pagina una suggestiva musicalità. E chiunque li può ascoltare.

Nella letteratura contemporanea raramente ho trovato un mondo poetico così coerente e insieme così "fraterno" al lettore, che quasi si sente preso per mano con dolcezza e guidato nei percorsi lineari di sentimenti semplici ed intensi, accompagnato ed avvinto di pagina in pagina dalla musica di un costante dolce "sottovoce", di un pianissimo che intona...

le canzoni del cuore,
che cantano forte e non fanno rumore.


I piccoli fuochi sacri di Nevio Nigro

Rosina Tucci

A parlare della sacralità della parola, di ciò che si concentra nelle sillabe dei poeti sono stati un po' tutti, e una verità assodata, altrimenti si tratterebbe di semplice comunicazione, di notizia che tradirebbe appieno l'affermazione di Platone: "Poesia è qualsiasi forza che porti una cosa dal non essere all'essere". Nevio Nigro lo fa con naturalezza: guarda la realtà, se ne appropria, poi la tiene a lungo dentro di sé e, a un certo punto, la trasforma in scintillio di parole appena sussurrate, garbate, dolci, rese con un tono musicale ammaliante. La sua forza è tutta concentrata negli accenni, ma sono, si guardi bene, accenni perentori, soffi improvvisi di saggezza, squarci che penetrano nel mistero.

Sapendo che Nigro ha fatto il medico tutta la vita mi sono ripetutamente chiesto se era possibile leggere i suoi versi come un diario delle illusioni e delle disillusioni della sua esistenza. Non ho saputo darmi una risposta precisa, sento che le sue parole hanno, a un tempo, una dolcezza infinita e anche una certa violenza che cova inesplosa. Come se egli volesse dirci che il mondo così come va non è giusto, non gli piace. Si tratta di sfumature, di piccoli avvisi, ma poi la natura integramente etica di Nigro ha sempre il sopravvento e quindi ciò che gli esce dalla penna è un distillato di situazioni che si stagliano per illuminarci e non buttarci nella danza dell'effimero, nel turbinio delle incongruenze.

Salvatore Quasimodo, nel famoso "Discorso sulla poesia" che tenne a Stoccolma in occasione del riconoscimento a lui dato del Premio Nobel, tra tante cose davvero strabilianti, affermò anche: "faremo un giorno una carta poetica del Sud; non importa se toccherà la magna Grecia ancora, il suo cielo sopra immagini imperturbabili d'innocenza e di sensi accecanti. Là, forse, sta nascendo la 'permanenza' della poesia" e mi è venuto spontaneo pensare alle radici di Nevio Nigro, a quella Calabria tra Sila e Jonio che ancora conserva intatto il calore umano e il timbro della grecità assoluta. Credo che la sua poesia nasca da quei cieli, dalle "lezioni" di vita e dai racconti della sua famiglia, altrimenti come spiegare il suo fiato cosi simile a quello di Ibico e di Nosside? A leggere con pacatezza e soffermandomi sull'intera produzione di Nevio Nigro mi sono resa conto che egli sa cogliere a volo le immagini che sembrano essersi cristallizzate nel cielo di Sibari e di Crotone. Certo, egli ha viaggiato molto per il mondo, ha fatto esperienze innumerevoli, ha immagazzinato parole, immagini, sospiri, cadenze, emozioni e sentimenti di vario genere, ma poi tutto è finito nel crogiuolo della sua anima diventando promessa di riscatto, ansia di qualcosa di imponderabile che doveva rendere visibile la verità. Non solo la verità del proprio essere e del ritorno (il nostos, per intenderci) ma una verità umana che anela al divino. I suoi versi sono intrisi di un affanno che si stempera per forza di ragioni poetiche, ma che insiste sull'amore e sulla morte non in maniera casuale.

Nigro ha dentro di sé un ribollire di venti contrari che dipanano man mano la sua indignazione e la rendono estrinsecazione di un viluppo che vuole essere enunciazione e piacere di esistere. Eppure non c'è soltanto quel tocco magico di egoismo che hanno tutti i poeti, c'è, come dice Anita Seppilli in Poesia e magia, un vecchio libro Einaudi sempre attuale, la visione di un mondo che tende alla rigenerazione, alla catarsi totale. Qui il cantore dell'amore e della morte, dei fiori e del mare, del cuore e degli affetti, dei piccoli quadri familiari e quotidiani alza il senso delle cose e lo rende dubbioso, creando attorno alle sue parole un alone sfuggente, un gioco sottile a nascondino tra senso e dissoluzione dello stesso.

Mi domando quanti poeti di oggi sono capaci di rendere così palesemente e così concretamente le situazioni del vissuto. Molti arrancano sui dissesti linguistici, sulle vaghezze, sulle contorsioni delle parole e fanno diventare strabici, affannati; Nigro no, egli intesse trame delicate che disegnano, quasi, nell'aria, una densità di piccole nuvole ballerine.

L'uso accorto del verso breve, spesso composto da una sola parola, ci porta a considerazioni importanti che adesso non è il caso di fare perché diventerebbe un discorso eccessivamente tecnico, filologico, ma almeno mi si lasci dire che ogni verso ha qualcosa di definitivo, che non può che essere com'è, ricco di evocazioni e di vibrazioni interiori. E che qualcuno abbia fatto il nome di Ungaretti lo trovo pertinente e veritiero soltanto se si chiarisce che la poesia di Nigro non "posa", non "imita", non si placa nell'aggettivazione e nel raggiungimento del traguardo.

Capisco che i cultori del kitch, della poesia visiva e di quella che chiamano genericamente d'avanguardia non possano amare Nigro. Egli diventa una cartina di tornasole che li spinge nel loro buio. E qui si aprirebbe un altro percorso critico da affrontare, ma credo che ciò che ho detto basti a focalizzare la storia di un poeta che non sa prendere in giro e prendersi in giro. Infatti, nonostante che egli viva a Torino, patria di Gozzano (anche se Gozzano era di Agliè Canavese) non ha toni intimistici così accorati da poter fare pensare a quella scuola così bene individuata da Giuseppe Antonio Borgese, e non ha toni di autironia. I versi di Nigro sono l'attesa per ricevere qualcosa dagli altri, non soltanto per sfogare la sua nevrosi, il suo strazio, la sua angoscia. Nigro sembra essere dentro una immensa stanza colorata ricca di echi che egli ascolta estasiato e preoccupato. Ogni tanto ruba agli echi una nota, la impasta al suo cuore e ne fa scaturire una parola. Una parola dietro l'altra, per comporre quei piccoli gioielli che poi ci offre sempre cinguettando e con la consapevolezza che anche se gli uccelli non seminano, comunque troveranno la soluzione alle loro giornate terrene.


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