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Arcorass Rincuorarsi
                    Amarcord poetico: quando il dialetto fa sangue

Questo libro pare un approdo, forse una cima della poesia di Maria Lenti. D’in su la vetta si può pensare a un’altra àncora, si può contemplare l’aria che magari brilla, ci si può pure rinfrancare con sé stessi, i luoghi, le parole che aggiustano le questioni. Questa sembra l’intenzione di siffatto trattato sentimentale che si fa scoperta. E da dove si può riparare se non dalla lingua madre? Che è anche o soprattutto il dialetto? Quando diamo fiato alla bocca la parlata resta impressa nella cavità orale, perché è alimento vitale come Dante insegna.

La filastrocca ad esempio le cantilene hanno in comune la semplicità del rimare e accompagnano chi nei natali fa esperienza dell’abbraccio materno. Maria, anche insieme all’ironia e al sarcasmo, compie questo percorso fin dai primi libri, per proseguire con Versi alfabetici (2004), sorta di iniziazione alla parola compresa quella dialettale, con il perseverare nelle litanie, nel cadenzare, nel dar di conto, nel far contare le parole: “ravaston / rapascet / ravell / ratatuia / spolvaricc / sprocchj” (“Disordine”). Nell’idioma trovi tutto, tanto, lo scompiglio, lo sconvolgimento vitale come quello dei bimbi, canta Lenti.

La scrittura dell’autrice in questo ultimo passaggio editoriale infila un sogno, a inizio libro, ricorrente, che sorprende come cadere dal pero. La stesura precede la veglia, flusso inconscio che prepara la strada verso casa (un accesso è dagli occhi alla mano, ad esempio), quella del gergo appunto ché “è bel da bestia el mi dialett” (sezione eponima), è cullevole (non esiste il termine ma vorrei ch’arrivasse da qualche parte). È descrizione accurata per niente accorata il rincuorarsi (stavo per dire rincorrersi): in quel punto l’organo batte la vita, l’esperienza. Insegna la mano a ingaggiare una disputa con la penna.

È un argomento fondante decifrare l’esistenza, comprendere i segni che traversano il corpo. A Maria la pensano la parlata urbinate (piena di pensate) e l’italiano, poi la poesia fa il resto. Tradizione e traduzione si ristorano sulla pagina, mettono proprio l’acquolina in bocca, conciliano il colloquio, con sé, con chi la legge, con la gente del posto. (Gozzano si sente passato a venticinque anni: Maria Lenti qui sogna di quando era una figliola, che andava di fretta a scuola “epur un po’ de strada o molt n’ho fatta / da un pess i settanta j ho pasat”, “Ai piedi del pero”). È più forte di quanto appaia la parola testimoniata.

La mano dell’autrice è molto libera, quasi del tutto priva di vincoli poetici intesi prettamente nell’ordine della lirica. Quello che mette nella traiettoria stilistica mescola autobiografia e storia contemporanea, prosa e sperimentalismo. Rimestano definizioni di cosa intende col titolo del libro con il suo passato/presente. Ogni elaborato appena steso è come se ritornasse con ciò ch’era già stato scritto in precedenza per approfondire la tematica e aggiungere un altro tassello epidermico alla struttura poetica, chiamata sempre più vita. Come qualcosa appunto che non è mai fuori moda.

Arcorass è sempre presente, lo deve appieno, è il corrente di chi gode la vita, è il passato che torna attuale. Così mi viene in mente il film di Fellini a titolo di questa mia nota. (Forte poi per Maria la passione cinematografica: “godere un film col corpo di una volta”, “un film al cinema ben bene”, “la Melancholia di Dürer, di Lav Diaz e Lars Von Trier” o i “film della Nouvelle Vague”; in precedenza ne ha fatto anche un’opera Amore del Cinema e della Resistenza). Anche in Amarcord si celebrano le vicende di un antico luogo e per mia fantasia, nel titolo, ci leggo sempre il cuore.

Composto da sezioni, stagioni direi, i titoli di ciascuna poesia in Arcorass condensano un’esistenza in un momento. Il libro resta una reminiscenza dopo la nascita e il piacere di essere persona grazie alla lingua. Ogni titolo interno è un appuntamento diaristico, ci si può trovare vicini (sezioni: “Scoperta del dialetto e del mondo”, “Vita”, “Intime”) e lontani perché gli ambienti possono esser diversi dai nostri così come l’uso del linguaggio, ma non per questo da non approfondire: il testo Formiche, per esempio (“Lasc’le ste, ste formich, / (…) / se c’en, se ved che c’han da essa”. - Lasciale stare (vivere), queste formiche, / se ci sono, (si vede che) ci devono essere -.), addentellata vicenda esistenziale.

Le Marche hanno dato dimora (e continuano a darla) a grandi autori e autrici che hanno fatto buon uso della lingua e del dialetto, uno addirittura ne ha fatto un suo gergo, mescolando (armuscinando) l’italiano e l’anconetano. È insito in chi è poeta un approccio alla lingua da guazzetto, quel formicolio che prende alla penna quando s’inizia veramente a scrivere. Tuttavia l’arte del comporre non sistema la biografia: ossia nelle parole che si susseguono si legge sì anche il mestiere (muratore o insegnante, guardia o pediatra), ma come le fragilità umane restano! Buona escursione, la più pura.

Bugia

Per cas artrov un fascicol ciclostilat

(Antologia di poeti strani degli anni Sessanta)

do’ c’era el mi ragass sa la su’ prima poesia
sa ’na dedica per me e ’na firma
ch’ pareva volè in alt fòra dla paggina
diceva ch’el su’ amor per me sarebbe stato
eterno
azzurro come il cielo.
Cla bugia m’ha fatt amè da subit la poesia.

Bugia

Per cas artrov un fascicol ciclostilat = Per caso ritrovo un fascicolo ciclostilato

do’ c’era el mi ragass sa la su’ prima poesia / sa ’na dedica e ’na firma / ch’ pareva volè in alt fòra dla paggina = dove c’era anche il mio ragazzo con la sua prima poesia / con una dedica per me e una firma / che pareva volare in alto fuori dalla pagina

ch’el su’ amor = che il suo amore

Cla = quella

m’ha fatt amè da subit = mi ha fatto amare da subito

Recensione
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