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Le mille e mille sillabe
politicamente scorrette
del mantra antipreghiera di Rossano Onano
Quella che Pedro
Almadovar chiama “la dittatura del politicamente corretto” non è di casa
presso Rossano Onano. Non è facile non
è difficile decrittare i geroglifici, fra lo ieratico e il demotico, dell'autore
di “Preghiera a Manitou di Cane Pazzo”, pennellati su frammenti di papiro
che ci dicono cose che nessuno osa pronunciare p perché lo si ritiene banale
(e ciò che è banale non può avere l'onore della poesia) o perché l'ironia in
poesia è, per i soloni del sapere cattedratico, un'arte minore, oppure perché
non sono (appunto!) politically correct. E ciò in particolare sul “ruolo”
della donna, dove questa primeggia o ultimeggia (fare il verso al
magico affabulare di Onano diventa, qui, automatico) e dove, comunque, l'autore
disegna un intenso primo piano di donna nonangelicata che di lui riscatta il
(presunto) maschilismo.
C'è chi dà regole alla poesia
e perfino chi la misura in versi, metri, sillabe e rime. Ma c'è anche chi, come
Rossano Onano, la misura in corpomenteritmoparola. La sua poesia è un mantra che
fa rivivere il cadavere della storia, dopo averlo straziato ben bene. Della
Storia con la “S” maiuscola e delle storie, di tutte le storie personali,
individuali, addirittura molecolari. (Anche quelle atomiche?)
Il linguaggio di questo
straordinario poeta è semplice e complesso nello stesso tempo. Lontano e nel
contempo immediato, è una specie d'indagine della parola e, subito dopo, della
poesia. E', così, prima indizio labiale, poi indizio fondante, infine prova
inconfutabile di poesia. “l'ordine d'arrivo fu molto controverso, tutti / i
concorrenti pervennero compatti, la salita / fu poco selettiva: così, i
sopravvenuti / svilupparono come un'ariosa coscienza / sindacale...” (L'ordine
d'arrivo fu molto controverso, tutti” capitolo “La trasmigrazione
atlantica degli schiavi”, 1994). Una costruzione simmetrica logica,
geometrica, perfino cinetica, che però è anche il suo stesso contrario perché la
sua simmetria finisce, in alcune composizioni, per deformarsi in modo
asimmetrico, la sua geometria non si comprende più (si comprende troppo?) se
finisce per divergere o convergere (o ambedue le cose), il momento cinetico
dell'opera assume, in alcuni momenti, un'immobilità assordante, quasi
raffreddante, come si legge in “4.X” (capitolo “La maternale terra di
ponente”): “Hai spalancato l'orrida caverna / luna amorosa improvvisa e
cupida”.
Rossano Onano provoca con
sapienti smorfie enfatizzate. In “18” (capitolo “Homo non dice”,
1998): “Tu chiedi troppo, ha cuore di sussurrare l'anima / sbigottita ma
vigile della sacerdotessa / d'amore, peripatetica, spalanca la gonna /
cerimoniale, cala sugli occhi la mascherina / nera...”. E quando la
provocazione può sembrare non dovuta ed oscura, non si limita a poetare, ma
anche, qualche volta, a spiegare, come a voler forzare la (libera?)
interpretazione del lettore. E qui c'è, forse, anche la deformazione
professionale dell'autore (psichiatra). Onano sente infatti la necessità di
spiegare alcune sue scelte, alcuni suoi sviluppi tematici in “4”
(capitolo “Il senso romanico della misura”, 1996) annota a fine poesia: “Le
possessioni sono sempre reciproche: quindi, per ogni essere umano indemoniato,
esiste un demonio che viene umanizzato. Questa osservazione ha implicazioni
speculative che vengono spesso trascurate”.
E ancora: “Quando fummo
entrati nella sala del regno, ci divideva / un diaframma opaco la vista
dell'irriconoscibile, egli / si nascondeva alle spalle del vetro smerigliato.
Prendete / le provvigioni rimaste, ordinava, seguiranno sette / lunghi anni di
carestia prima della successiva gara / culinaria. Infatti ci sentivamo digiuni,
fosse stato / il cibo scarso, oppure così saporoso, che anche mangiando / a
lungo, non avremmo potuto saziarcene mai.” (“10”, capitolo “Il
senso romanico della misura”, 1996).
In “14” (“Il senso
romanico della misura”, 1996) il “colore” della composizione è a
tinte forti, ma stabile, e così la “tessitura”, la “grana”, la “trama”,
la “puntinatura” dei versi. L'opera è un solido quadro (un Segantini
moderno?) su una solida tela sulla quale un graduale mutamento delle
caratteristiche visive è dato dalla luce (“...Uno di noi / ruppe finalmente
l'anabasi, paonazzo, versò / più volte un distillato di prugne infuocato...”
e dalla prospettiva (“...nella / bottiglia rimase al fondo un cespo d'erba
montana / umida...”.
E la parola. La parola, in
Onano, ha sempre un senso oltre il suo senso, così come nella nostra e nelle
altrui lingue i significati di oggi vanno oltre o addirittura rovesciano i
significati originari o gli etimi. Qualche esempio: i “deva”
(sanscrito), sono “dèi” (benefici) in India (per gl'induisti) e dèmoni
(malefici) in Iran (per i mazdeisti); cretino e cristiano
hanno la stessa origine etimologica (i primi cristiani, infatti, rispetto alle
culture dominanti, venivano tacciati per “stupidi” e “ignoranti”;
immondizia vuol dire “non-pulizia” (“mundus” in latino,
significa puro, pulito), mentre “mondezza”, “monnezza”
nei gerghi dialettali laziali significa immondizia, spazzatura,
ma etimologicamente (senza il prefisso privativo) vorrebbe invece dire
purezza, pulizia. Per Rossano Onano vale una legge analoga, o, meglio, una
proposta di legge: variare con una logica tutta sua. E', questo, un
esempio della sua logica illogica di cui dicevo in apertura di quest'analisi.
Così ecco parole in libertà
come “patteggiatura”, “accomodazione”, “confortazione”, “contattazione
fisica”, “significazione giudiziale”, “dubitazione”, “aspettazione”,
“solidale inquietanza”, “trafittivi”, “scomparì”, “appetizione”,
“pullulazione”. Parole inventate, caricaturate, obsolete, in realtà un
tentativo di dare indegnità alla preghiera. Il libro, oltre che un grande mantra
dalle mille e mille sillabe, vuol forse anche essere, infatti, una nonpreghiera,
di più (di peggio / di meglio?): un'antipreghiera.
Lo scempio (voluto) del
vocabolario (non della sintassi, non dell'ortografia) vuole essere un atto
sacrale, una sorta di rito iconoclasta. Le parole che egli crea non sono né
vogliono essere neologismi. I neologismi hanno una loro logica estetica ed
eufonica ed entrano nel linguaggio diventandone via via stabili fino a
conquistare un posto nei dizionari.
Le parole costruite o
caricaturate di Onano sono invece biodegradabili, in quanto intendono affrontare
uno o due o comunque un numero limitatissimo di momenti espressivi ed evocativi,
e poi sciogliersi nel fiume della poesia che scorre. Il lettore può meglio
comprendere quanto dico leggendo questi versi tratti da “51.” (capitolo “Il
senso romanico della misura”, 1996): “...preconizzano una appetizione
primitiva / di meduse, gelatinose vegetazioni marine, mele / cotogne...”.
E' evidente come quest'opera
sia anche una parafrasi del mondo borghese, certo non sempre (ma quasi)
sviluppata in modo critico. Ed è anche il racconto, la spiegazione di un
desiderio del poeta: la volontà di essere, di continuare ad essere, che lo
costringe alla poesia, come, forse meglio che in altri “luoghi”
dell'opera, si può meglio recepire leggendo “19.” (“Il senso romanico
della misura”, 1996): “...cercavo / una vena pulita di acqua, da una
qualsiasi / mammella un rivo di latte, il desiderio mi costringeva”.
In ogni momento, in ogni
verso, in ogni metro volutamente smetrato, Rossano Onano usa la logica
(semplice) del paradosso. Una sorta di libro bianco del sapere alternativo con
autocritica incorporata.
C'è, ovunque, la
rivalutazione del minimo, del quotidiano, perfino la sua sacralizzazione, in una
poesia costruita con un procedimento di lavoro inventivo non fondato sulla
routine.
In Onano la parola, il verso
non sono un medium ibrido, in quanto vantano, fra le proprie caratteristiche
specifiche, quella di essere tracce e, dunque, documenti, della realtà
rappresentata descritta narrata deformata, ma di essere anche segni, e, cioè,
frammenti carichi d'implicazioni (come il ritmo che si frammenta all'improvviso
concludendosi nel verso successivo), ideologiche, filosofiche...
Le citazioni a sproposito,
infine, sono sempre a proposito, in quanto sono a un tempo
testimonianze di approcci storicamente determinati e punti cruciali d'un
percorso, quello dell'essere umano che riflette su se stesso e sull'ambiente che
lo circonda , in continua trasformazione. L'autore lo analizza, lo interpreta e
lo realizza come in una serie di quadri, in un polittico in continua
trasformazione. Impermanente.
“Tu prendi il fucile,
intanto, punta l'orca marina / evoluta in ragione di ali rapaci, quasi /
onnivora piratessa compulsa su logiche / razzie, così bianca.” … “Vedi
(glossa infine mentre / leva l'ancora e colloca al vento la velatura / minima),
la carne orrida non ha mercato. Non / come di alici di mare medio in questa
prossima / notte priva di luna, o le sarde nane, raccolte / attorno all'unica
luce lasca della lampara.” (“6.”, capitolo “Homo non dice”,
1998). Da questi versi (ma anche dall'intera opera) traspare con evidenza come
quello di Onano sia un parlare a occhi chiusi, un poetare nello
stridor di denti, uno sciogliersi i capelli sul pube in crociere
godute su un'obesa nave sospirosa... E, poi, in “1.” (capitolo “Le
ancora chiuse figlie marinaie”, 1994) sono ancor più palesi l'indecisione,
il gioco della vita (“...quanto / mi dài questa volta per questa di
madreperla istoriata lima / d'unghie, eh?...). E in “14.” (“Viaggio
a Terranova con neri cani d'acqua”, 1992) è descritto, per simboli, il
tradimento dell'uomo sull'uomo, e, di più, il tradimento dell'uomo verso se
stesso, verso i propri principi: gli “...uomini che hanno le mani / legate”
… “disperatamente dicono da sotto il cappuccio / nero “Non era questa la
disposizione allora concordata, la / promessa...”.
La spiegazione di
questo insolito poetare di Onano è, a mio parere, che egli riesce a soddisfare
in modo sapiente la ricerca poetica nella descrizione deformata della realtà,
non perché egli intenda veramente deformare fatti e immagini, ma perché ritiene
che siamo noi a ridare, con la mente, apparente ironia a un mondo deforme e
mostruoso. La poesia di Onano sarebbe quindi come un rimettere le cose a
posto così come effettivamente sono. La sua è una descrizione (una delle
descrizioni possibili) di un paesaggio dell'anima che, in determinati momenti,
può anche essere guardato e, quindi, descritto, da un'altra prospettiva. E' un
po' la visione dei binari che, in lontananza, convergono.
C'è un momento in cui il
poeta non permette loro di convergere, ma, anzi, di andare avanti all'infinito
verso sogni e conquiste di spazi e fantasie. E concreti silenzi.
Questi binari, poi, possono
qualche volta divergere, e magari perdersi. Ed ecco, allora, ricomparire, nel
bel mezzo di un'opera “libera”, anche “momenti” stilistici
espressi in metrica tradizionale e in rima. E' un vezzo di molti poeti
contemporanei, che vogliono ogni tanto riallacciarsi al cordone ombelicale della
propria cultura d'origine; un vezzo cui appunto Onano non sfugge, tant'è vero
che in “14.” (“Homo non dice, 1998) egli si esibisce in un sonetto
di ottima fattura che si confà perfettamente al paesaggio in versi dell'intera
opera.
Beh, se un poeta sente questa
necessità, il poeta, che è re, può tranquillamente soddisfarla.
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