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100 anni di storia italiana.
Prima guerra mondiale: Antonio Toffanin, una
storia minima
La
Famiglia Toffanin ci fa dono dell’ennesima testimonianza preziosa, contribuendo
ad arricchire il filone memorialistico del centenario del primo conflitto
mondiale con 79 lettere, che aprono uno spiraglio sulla realtà di quegli anni in
cui la terra veneta, considerata il “sud del nord”, devastata dalla fame, dalla
miseria, dalla pellagra, fu vittima anche di una colossale e più che decennale
emigrazione. Dopo “i ragazzi del ’99”, la classe arruolata nel 1918 e spedita al
fronte, molti ignorano che ce n’è stata un’altra, quella del 1900. Le 79
lettere scritte da aprile 1918 a marzo 1919 da Adelina Missaglia al fratellastro
Antonio Toffanin, durante il servizio militare, seguono le peripezie della
famiglia. La madre Angela Scapin era nata a Cittadella nel 1859, da Pasquale e
Domenica Severe, poveri contadini. Siamo durante la terza dominazione austriaca
e nel periodo antecedente l’annessione del Veneto all’Italia (1866), con segni
di crisi economiche, instabilità politiche e aspirazioni unitarie. Nel 1887 la
giovane è sposa di Giosafatte Missaglia. Da questa unione nasce il 19 agosto
1889, sempre a Cittadella, Adelina. L’immatura scomparsa del marito porta
Angela a trasferirsi con la figlia ad Arlesega di Mestrino, tra Padova e
Vicenza, dove trova un lavoro presso la tintoria dei fratelli Marco e Giuseppe
Toffanin, proprietari di un laboratorio artigiano. E con Giuseppe, nel 1895, si
risposa. Il 29 ottobre 1900, viene alla luce Antonio. E la vita trascorre
tranquilla per altri due anni fino a quando il 13 marzo 1902, muore anche il
secondo marito. Adelina intanto frequenta le scuole di Mestrino e la parrocchia
S. Michele di Arlesega e fortunatamente nel 1907, appena diciottenne, viene
assunta in qualità di gerente dell’uffcio delle regie poste di Villafranca
Padovana, dove la famiglia, disponendo di un reddito sicuro, si trasferisce in
una modesta casa, per la quale nel 1910 Angela stipula con la Società Cattolica
una polizza incendio. Il fabbricato a pianterreno è adibito ad uso uffcio
postale, con retrostante cucina, mentre il primo piano è costituito da un unico
locale trasformato in due stanze da letto, tramite un divisorio di legno.
Antonio, dopo aver frequentato i primi tre anni della scuola elementare a
Villafranca, prosegue gli studi nel Collegio vescovile di Thiene. L’Italia
dichiara guerra all’Austria il 24 maggio 1915 e Adelina viene trasferita alla
ricevitoria delle regie poste di Villabruna, una frazione di Feltre. Dopo quasi
un anno si scatena sull’altopiano di Asiago, a poca distanza da Villabruna, la
famosa Strafexpedition, che provocherà più di 100.000 profughi e tanti dopo la
disastrosa dodicesima battaglia dell’Isonzo, la disfatta di Caporetto, che
viene rievocata dall’autore nelle sue fasi tragiche, ma salienti: il nemico
entra in azione con i lanciamine e i lanciagas, il tentativo di frenare
l’avanzata del nemico con l’occupazione dei ponti sul Tagliamento, lo
sfondamento delle difese. Si ricorda che il 10 novembre viene fatta saltare la
centrale elettrica di Villabruna e tra il 13 e il 14 dello stesso mese si
rovescia nella zona una fiumana di soldati proveniente da Cesio con destinazione
Feltre. Si tratta di austriaci, tedeschi, ungheresi, serbi, croati e turchi, che
entrano nelle case, costringono alla fuga gli abitanti, distruggono e derubano.
Per comprenderne il dramma di quel periodo, chiamato l’anno della fame, che
durerà fino all’ottobre del 1918, l’autore riporta le lettere che due amici di
Antonio, Mariano Turrin di Fianema ed Egidio Pilotto di Villabruna, gli scrivono
agli inizi del 1919 con i ricordi ancora vivi della terribile esperienza
vissuta.
Da
Lettera di Egidio Pilotto, Villabruna, 19.2.1919: “…Gli austriaci non hanno
lasciato alla popolazione altro che gli occhi per piangere. Non parliamo dei
germanici, nuovi Vitelli, entrati a Villabruna il 14 novembre, che ci han
lasciato un ricordo permanente della loro cattiveria e voracità, galline e
maiali erano il loro pasto preferito, l’abbondante deposito d’uova di Guadagnin
gli ha serviti di frittate per tre giorni e, non bastando le nostre pentole, si
sono serviti dei vasi da notte. I Germanici almeno han sfogato il loro appetito
e non essendo punto lor favorevole il Grappa, se ne sono andati, ma gli
austriaci si son resi odiosi per le loro continue vessazioni e requisizioni, ci
han portato via tutto, persino le camicine e i calzoni da bambini, tutte tre le
campane,[ … ]le posate, i piatti; non parliamo poi degli oggetti preziosi, del
rame, che per sottrarlo alle loro perquisizioni, si ha dovuto sotterrarlo a
rischio,[…]al giorno seminavamo le patate, ed essi di notte le dissotterravano.
Tutti i prati erano a lor disposizione, da per tutto era pascolo, in luglio han
cominciato a rubar teghe, le pannocchie immature erano lor cibo quotidiano, ed
intanto la povera popolazione si cibava d’erbe, dimagriva e moriva ogni giorno
sempre più; la mortalità è stata enorme: otto volte maggiore […]."
Dal
7 novembre i funzionari e gli impiegati governativi della zona feltrina erano
stati trasferiti in sedi lontane. Anche Adelina, consegnati i valori a Vicenza,
abbandona non solo l’uffcio, ma anche la casa con tutte le cose più care. Con la
madre, il fratello Antonio e i pochi effetti personali, in treno da Feltre via
Padova raggiunge la nuova sede assegnata: l’uffcio postale di Spilamberto,
piccolo paese in provincia di Modena.
Si
calcola che siano stati circa 400.000 i civili veneti in fuga e sparpagliati in
ogni parte d’Italia, come scrive Adelina ad Antonio, soldato a Mantova nella
lettera del 27 giugno 1918.
Già
nel 1916 e 1917 la leva delle classi 1897, 1898, 1899 era stata anticipata. E
viene di poi chiamata alle armi nel marzo 1918 anche la classe 1900 a cui
appartiene Antonio che deve presentarsi al distretto di Modena il 20 marzo e
viene assegnato al 3° reggimento Genio Telegrafisti, quale soldato di 1a
categoria, con addestramento presso una caserma di Mantova, poi di Gonzaga. Sarà
in zona di guerra a Limone del Garda e quindi a Vobarno.
Comincia da marzo 1918 la ricca corrispondenza con la sorella Adelina, la madre
Angela, i famosi amici di Villabruna e compagni dell’Istituto commerciale di
Feltre, costituita da 79 lettere fino al suo congedo avvenuto nel marzo del
1919. Di questo carteggio, sono giunte solamente le lettere ricevute da Antonio
e non quelle da lui spedite.
L’autore con grande sensibilità coglie ed evidenzia tra le righe le ansie del
piccolo nucleo familiare come le angosce di chi all’improvviso vede distrutto il
raccolto o deve difendere a costo della vita oggetti e ricordi .Riporta alla
memoria con foto e testimonianze d’archivio anche il libretto personale di
Antonio, con il numero di matricola 18790 e le notizie relative alle
vaccinazioni antivaiolosa, antitifica e anticolerica e al materiale a lui
assegnato: il moschetto mod. 1891 con la baionetta, la giberna da genio, lo
scovolino, l’elmetto metallico, un pacchetto di medicinali, la piastrina di
riconoscimento e tutto il corredo militare necessario con fregi e stellette.
Ricompone la fase di addestramento e il fatidico giuramento: il 2 giugno 1918,
festa del Plebiscito con la solenne cerimonia in Piazza Sordello a Mantova alla
presenza di una numerosa folla, autorità, rappresentanze di associazioni,
attorno al monumento dei Martiri di Belfiore, con tanto di articolo della
manifestazione in prima pagina ne “La Gazzetta di Mantova” del 3 giugno 1918.
Il
3 novembre gli italiani conquistano Trento e Trieste e il 4 viene annunciata la
firma dell’armistizio di Villa Giusti a Padova e una lettera di Adelina datata
primo ci riporta la “commozione indicibile”: “Sia breve quindi questo
periodo di trepidazione e i frutti che ne conseguono siano pari all’immenso
sacrificio compiuto”. Ironia della sorte Antonio Toffanin è assegnato alla 3a
categoria, un anno dopo cioè il congedo avvenuto il 5 marzo 1919.
Nella corrispondenza anche i riferimenti all’ epidemia del 1918/1919, detta
“spagnola”, che colpisce dal maggio 1918 a febbraio 1919 in due fasi, con esito
diverso. Nella prima del maggio-agosto 1918 si registrano un limitato numero di
complicanze bronco-polmonari e scarsa mortalità, ma nella seconda metà di
dicembre e nel gennaio 1919 un nuovo picco. L ’Italia nel 1919 conta 36 milioni
di abitanti e la “spagnola” ne colpisce tra i 5 e i 25 milioni, con circa 600.000
morti. L’autore mette in risalto la preoccupazione di Adelina per la drammatica
situazione, che la porta in settembre a chiedere ad Antonio di avere tanta cura
e specialmente di non bere mai acqua gelata e semplice, di “correggila con un
po’ di limone...” e ancora in ottobre ... “Purtroppo a Parma abbiamo
avuto un periodo in cui la famosa malattia “spagnola” ha fatto non poche
vittime”. Parma era stata dichiarata zona infetta e i soldati che in
quell’epoca erano in licenza non potevano tornare alla sede del loro reggimento
senza aver prima fatto la così detta quarantena in un luogo di isolamento.
Situazione che in questo periodo di emergenza covid-19 molti hanno ricordato.
Adelina precisa: “Noi ci siamo sempre tenute riguardate, disinfettata
giornalmente la stanza ed abbiamo fatto gran uso di pastiglie valda. Figurati
che dove abitavamo prima ci fu un caso seguito da morte proprio nella nostra
stessa casa, ma al secondo piano, e la disinfezione la vennero a fare tre giorni
dopo la sepoltura. Grazie al Cielo noi siamo sempre state bene ed ora puoi star
tranquillo poiché il male ha fatto il suo corso e da parecchi giorni i casi si
limitano a qualche caso in forma leggera.” Altra testimonianza ce la dà
l’autore riportando notizie dell’amico e compagno di scuola di Antonio, Giovanni
Trotto che, dopo l’invasione del feltrino, in ottobre del 1917, è andato
profugo a Milano dove ha trovato lavoro alla Carlo Erba e poi alla Pirelli e
in ottobre scrive: “Scuserai se sono stato tanto tempo senza scrivere, ma
ciò fu per diverse cause, fra le quali la mia scappata a Cortelà dove ho trovato
tutti in buona salute, ed anche per l’epidemia di febbri spagnole, che nel
nostro uffcio ha colpito quasi tutte le signorine, ed i pochi rimasti dovevano
lavorare anche per gli assenti.”
Finalmente il 6 dicembre Adelina scrive ad Antonio: “... ho avuto le febbri
spagnole con bronco polmonite, con complicazioni di tifo e atonia intestinale...”
e prosegue dando notizie sulle conseguenze della spagnola tra gli amici di
Villabruna “... al parroco è morto il fratello di febbre spagnola. E’ morta
la Nina… il bambino più piccolo ... alla famiglia Pellin, povere creature, oltre
a Giosuè, è morta la Gelmina, cioè la bimba più grande, rimane Ruggero in
pessime condizioni. Ad Annetta Pellin è morto il marito e tutti e due i bambini
più piccoli, alla Maria Pellin sono morti tre figli ... Di febbre spagnola è
morto anche don Antonio Tiziani di S. Giustina...”
La
malattia di Adelina però si dimostra assai più seria del previsto tanto che deve
rimanere a casa dal lavoro per più di 40 giorni e raggiungerà Villabruna per
riprendere il lavoro solo il 18 febbraio 1919 dove resterà fino al 4 giugno,
giorno in cui si sposa inaspettatamente a Feltre con Dante Rossi, suo direttore
alle reali poste di Parma, e anch’egli in missione a Belluno.
Nelle vicende della famiglia Toffanin nomi rimandano ad altre vicende, si
intrecciano e si incrociano vicissitudini ed ecco riemergere la figura di Giosuè
Pellin, uno dei tanti che ha perso la vita in guerra, uno di quelli che come
padre di famiglia non doveva stare al fronte, contadino al servizio del conte
Giorgio De Mezzan, richiamato alle armi, anche se riformato e di terza
categoria. L’autore fa luce su quest’uomo. Il 13 luglio del 1916 viene infatti
assegnato al 119° reggimento di fanteria della Brigata Emilia e spedito nella
zona di Caporetto, è testimone e partecipa dalla sesta a tutte le battaglie
dell’Isonzo, ma agli inizi del 1917 Pellin viene spostato nella zona di Gorizia
dove il suo 119° reggimento alterna periodi di trincea in prima linea a giorni
di riposo riparati in una galleria ferroviaria. La lettera indirizzata al suo
padrone è uno spaccato di umanità: “….. Le dirò che Gorizia è una bella
città, ma ora è tutta rovinata, qui tutto distrutto, case vigne e alberi insomma
tutto ha sofferto, qui è sempre un rombo notte e giorno che pare un inferno
specialmente cinque giorni che ero in trincea la mia vita non gli facevo più
calcolo che minuto per minuto perché arriva di tutte le sorte di proiettili ma
per fortuna terra ne presi diverse volte e dopo una scheggia nemmeno una mi
toccò, ma le dico la verità che sono tanto e tanto stanco e stufo che perdo il
coraggio sempre si spera che abbia finire, ma invece viene sempre peggio”.Pellin,
ha ricostruito l’autore, nei pressi di Fossalta, ferito da arma da fuoco al
fianco sinistro e trasportato dietro le linee nell’ambulanza chirurgica di
armata n.6 muore per complicanze il 17 giugno 1918. Il 20 luglio 1922 viene
assegnata alla sua memoria la Croce al merito di Guerra. Solo il 17 marzo 1933
sarà noto il luogo di sepoltura, nel cimitero di Roncade. E’ ricordato nel
monumento ai caduti di Villabruna.
Antonio Toffanin è congedato il 5 marzo 1919. La famiglia si riunisce a Parma.
Il periodo però non è dei più facili: si registrano i conflitti sociali tra i
sostenitori della sinistra e il nascente fascismo. Antonio nell’agosto del 1922
è testimone delle famose 5 giornate antifasciste di Parma quando i rioni
popolari della città, erigendo barricate con mobili, carri e lastre stradali di
marmo, si difendono dalle incursioni delle camicie nere di Italo Balbo.
Sindacalisti, confederali, anarchici, comunisti, popolari, repubblicani e
socialisti combattono, fianco a fianco e nella notte tra il 5 e il 6 agosto le
squadre fasciste che assediano Parma smobilitano e lasciano la città senza
essere riuscite a penetrare nelle zone di resistenza antifascista. Il 6 agosto
nei borghi e nelle piazze la popolazione esulta: solo cinque le vittime. Un
significativo corredo fotografico di Antonio testimonia tutta la vicenda e
arricchisce il volume. Antonio e la madre, dopo questa ennesima esperienza
decidono di tornare a Padova. Qui, Antonio viene assunto in qualità di impiegato
dalla Società Veneta fuori Porta Venezia e alla fine del 1922 vince il concorso
alla Cassa di risparmio di Padova nella quale rimarrà fino al 1959. In qualità
di funzionario passerà a dirigere diverse agenzie e filiali della Cassa di
risparmio nella zona di Rovigo prima e di Padova poi. Sposerà Elsa Minozzi nel
1930 e da lei avrà cinque figli.
Il 6
gennaio 1930 Adelina, invece, rimane vedova e pochi anni dopo entrerà
nell’ordine monastico di clausura nel Monastero della Visitazione di Salò, con
il nome di suor Maria Eugenia. Ne sarà Superiora fino al 25 dicembre1963, data
della sua morte.
Una
storia minima la definisce l’autore, una storia questa che è emblema della
rivincita morale e sociale, segno che dalle ferite rimarginate, ma mai da
dimenticare si può costruire un avvenire prospero e ai posteri il compito di
continuare a difendere i valori, perché la civiltà non incontri ancora la
barbarie.
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Recensione |
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