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Semi di senape - Racconti dal vero
Primo premio
al III Premio Franz Kafka Italia
Il titolo della raccolta di
racconti di Angela Ambrosini
Semi di senape rivela di per sé il
tenore degli stessi: si tratta di racconti che condividono con la
senape il gusto piccante, la sua natura di spezia dal sapore pur gradevole, tuttavia pungente. In aggiunta
non siamo di fronte alla crema di senape, bensì ai semi di senape, quindi si è in presenza di una
possibile semina di singoli momenti speziati ed in effetti i racconti sono tutti speziati sia in
senso propriamente satirico sia sul piano di immagini anche estreme prodotte dalla fantasia dell’Autrice.
Accenniamo qui ad Andante con
brio
nel quale la satira raggiunge picchi di non piccola portata. Il
racconto inizia con la descrizione di due caratteristiche psicofisiche della protagonista: il collo
tozzo e lo sguardo bovino (30).
Si tratta di una virago, un termine che qualifica una donna spesso poco
femminile, comunque sgradevole, negativa. Tale donna è anche grassa, anzi obesa, ossia, come è
implicito a tale stato in mancanza di altre cause espresse o inferibili nel testo, ha grossi problemi
nell’equilibrio suo personale, pur spacciandosi per persona equilibratissima, capace, superiore a
tutti gli altri tipi di donna in ambito di realizzazione di sé e mostrando così in aggiunta di non
essere in grado di fare una benché minima comunque onesta e razionale autocritica. Ha i capelli alla
maschietta, perfettamente lisci, scuri, ossia cura l’aspetto esteriore, non quello interiore su cui
grava tra l’altro l’indice inquietante dell’obesità. La satira e l’ironia coinvolgono massicciamente la
personalità di una tale donna: tra le finzioni che la contraddistinguono c’è quella relativa alla
socievolezza visto che l’essere socievole e sociale, come narra la Ambrosini con totale chiarezza
concettuale, viene inteso dai più e dalle mode psicologiche (31) come segno di intelligenza, ovviamente al
contrario della verità data la presenza della satira e dell’ironia – e noi qui aggiungiamo che il
filosofo Schopenhauer, per quanto può valere come tale, tuttavia almeno, tra le altre possibili, una
cosa spesso, anche se non sempre, esatta l’ha detta: si va in cerca del gruppo quando non si sta stare
con se stessi e non si sa stare con se stessi quando si ha il vuoto di intelligenza e sensibilità. Alla
fine del breve racconto la Ambrosini mette in guardia da una tale donna. Il motivo del rifiuto di una
tale donna da parte della Ambrosini è profondo e non può non trovare l’approvazione del lettore capace
di accettare le cose come stanno: si tratta di un modello falso, non corrispondente a quanto
promette con il suo aspetto tranquillizzante, didattico per così dire.
Che cosa può mai
insegnare una tale donna socievole pare in senso schopenhaueriano, invidiosa di chi ha qualità che lei
vorrebbe avere e che non ha né può avere, presuntuosa, esteriore e, come l’obesità può indurre a
ritenere, probabilmente carente di equilibrio interiore? Poco o niente di buono, così dice
l’Autrice che non si trattiene dall’esprimere la sua opinione contro questi, secondo il suo giudizio, falsi
modelli femminili che tuttavia hanno preso piede nella società apportandovi note negative in aggiunta.
Proseguendo nella breve presentazione dei racconti della Ambrosini molto densi emozionalmente e
concettualmente, non pochi di essi respirano un’atmosfera che definirei alla Edgar Allan Poe, non
nei contenuti, ma appunto in qualche aspetto dell’atmosfera portata da una narrazione lenta come nei
ritmi tipici di Poe e adatta al racconto del terrore come ce n’è molto finemente sparso qui e là
nella raccolta della Ambrosini.
Uno dei temi molto particolari di questi racconti è quello dello
sbocco nella follia più o meno dolce e acuta da parte di alcuni protagonisti, anche nella morte. Nel
racconto La ragazza con il
cagnolino
la giovinetta si lascia consumare dal suo spirito inquieto e
dalla sua ipersensibilità, dall’istinto estetico per così dire, artistico, dalla tensione di tutto il
suo essere verso una conoscenza ed una corrispondente bellezza che come sottile veleno a poco a poco la
seducono fino ad indurla a mangiare il fiore bellissimo e profumatissimo ma velenoso
dell’oleandro, in una eco lontana, tra l’altro, del pur molto diverso racconto
Il Ritratto Ovale
di Edgar Allan Poe, dove la sensibilità estetica dell’artista debilita la vitalità della donna fino alla
morte di questa per la lunga esposizione alla modellazione del marito, ciò in un estetismo che vede,
detto qui molto in breve, la languidezza indotta dall’ipersensibilità estetica andare a detrimento
dell’istinto vitale, delle necessità vitali fino a causare la morte di chi tanto si lascia coinvolgere. Anche il
castello dell’omonimo racconto
Il castello della
Ambrosini respira una lontana, molto lontana eco di Poe come nel racconto
La Maschera della Morte Rossa,
dove il castello fortificato e autosufficiente del principe Prospero, che doveva essere un’oasi di pace e serenità illesa da qualsiasi
negatività, dalla morte stessa, assomiglia un po’ a quello dell’Autrice, appunto nei toni e nei ritmi della
descrizione intrisa di mistero.
In particolare il fatto che le mura non servano allo scopo prefisso
si rivela un tratto poiano: la morte rossa entra comunque a dispetto di tutte le possibili
fortificazioni e i castellani ambrosiniani si vogliono sbarazzare di mura che secondo loro non servono a
molto. Anche ciò che rimane del castello dopo la distruzione delle mura, ossia una sagoma
evanescente nelle notti di luna sotto una sepoltura di sabbia, riecheggia qualcosa di Edgar Allan Poe,
ossia The Haunted Palace,
Il palazzo infestato (Mascialino
1999: 46-113), la poesia inserita nel racconto
The Fall of the House of Usher, anch’esso con un finale di dissoluzione della materia, del
passato concreto e pieno di colori e di fiori fatto ormai solo di ombre, di forme fantastiche, di forme
della fantasia. A parte l’alone di mistero che avvolge tale castello, non kafkiano e dalle
prospettive buzzatiane come dalla citazione dell’Autrice in epigrafe, il contenuto che ha dato Angela
Ambrosini alla sua narrazione si differenzia totalmente dagli echi possibili quali che siano: i
fiori con cui vengono rivestite le mura del castello in questione, i quali vorrebbero nascondere appunto
la durezza delle stesse, alla fine sono essi stessi che come in uno spaventoso incubo o film
dell’orrore fanno crollare la cinta che prima reggeva a tutte le intemperie e scoraggiava eventuali
assalti.
A volte, sembra suggerire Angela Ambrosini, la medicina fa più danni della malattia, se non è la
medicina giusta, se non è una medicina distribuita dopo attenta diagnosi del male. In altri
termini, sempre sul piano simbolico: finché le cose erano chiare per tutti, ossia finché le idee
avevano il rivestimento adatto alle stesse e adatto anche a reggere sul piano del valore delle stesse, finché
la lotta si combatteva all’aperto, in una arena, tutti potevano cimentarsi e il nemico era il nemico
contro cui combattere, mentre l’aver voluto ammorbidire la realtà, averla voluta nascondere sotto
concetti meno chiari e tondi, ha snaturato quella specifica realtà e fatto naufragare i concetti
stessi, le mura solide, così che il nemico ha trovato per così dire i metaforici castellani con armi
spuntate ed il crollo delle mura è stato facile, autogenerato per così dire. Occorre dunque per la
Ambrosini, secondo questo bel racconto, avere il coraggio delle proprie idee, combattere
onestamente la propria battaglia, senza fingere, senza dare retta a chi cercasse più o meno subdolamente
di indebolire le idee rendendole altro da ciò che sono con la meta apparente e dichiarata di
renderle più accettabili. Sarebbe interessante trattare ogni singolo racconto in profondità, ma in
una recensione si può toccare solo qualche aspetto presente nella raccolta degli stessi .”
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