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Continua a essere quello di sempre, il mondo: bambini al
lavoro, strappati all’infanzia e all’innocenza; dure partenze tra valige e addii
in stazioni affollate da solitudini anonime e desolate; madri di figli
lontani cupidamente falciati dal capitale; treni che scompaiono
all’orizzonte, senza promettere ritorni; città che crescono uomini per poi
subito espellerli; vedove bianche che attendono i mariti; corpi sulla strada del
ritorno, la sera, a nutrire speranze per figli sballottati a nord…
È questa la sostanza di cui si nutrono le liriche che
Filippo Giordano ha pubblicato nella raccolta Nebrodiversi, un libro
dedicato a un lembo aspro e selvaggio della sua Sicilia, solcato dai Nebrodi
selvosi, ricchi di bestiame e gorgoglianti di acque vogliose di riempire
le conche agli aranci. D’estate, la terra di cui parla il poeta è ben
lontana e diversa da quella raccontata, a luglio, nelle riviste che affollano
di vacanze le pagine; è terra di fatica, tormentata dal giogo pesante del
sole e abitata da frammenti d’eterno: uomini silenziosi, tra le zolle:
che nulla sanno di spiagge famose, mentre riposano le braccia,
all’ombra dell’ulivo, sordi, per abitudine, al continuo e
monotono frinire di cicale.
Filippo Giordano se lo sente scorrere nel sangue lo spirito
antico e schietto della terra in cui è radicato. Nel sangue e nella memoria
passano: il padre, col suo mezzo ettaro di terra seminato a grano e un poco
d’orto sotto la fontana; i covoni portati a spalla sull’aia; l’odore di provole
e ricotte per le strade; e ancora: freddo, inverni, rumori di topi; dolci
di pasqua, frutti di fichidindia, canestri di filastrocche, appesi vicino ai
bracieri…
Giordano sa che le
parole non bastano a restituire vita alle cose; ma sa pure che, grazie ad esse,
il poeta può rievocare la fragranza e la purezza del pane
dell’infanzia. Perciò continua a cantare. E lo fa con versi limpidi,
coinvolgenti e, soprattutto, tesi ad annunciare albe di speranza e di riscatto. | |
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Recensione |
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