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In limine alla rosa

L’ultima raccolta di Raffaele Piazza, In limine alla rosa (2020), si apre con un lettera ai poeti «senza nome», intitolata Lettera di primavera. La marginalità di essi è speculare alla marginalità della poesia nella società di oggi.

Non è questa la sede per considerazioni sociologiche o per dati, ad esempio, sulla circolazione tra i lettori dei libri di poeti in Italia. Riferendoci al libro, in questa breve recensione, c’è da dire che Piazza conserva una sua speranza implicita già nel titolo. Per lui la primavera della poesia non è mai finita, come l’archetipo delle stagioni ritornerà circolarmente nella purezza del «paesaggio di chiarità» e il paesaggio letterario sarà segnato da una «strada bianca» dove questi poeti passeranno. I «salici» sono sempre verdi, mai nessun poeta vi appenderà le cetre. Una perenne primavera quindi, in cui chi scrive, di fronte agli orrori del mondo, concepisce la scrittura come tradizionale rifugio.

L’opposto di una poesia della contraddizione che si immerge in quell’orrore e ne trae elementi corrosi e tizzoni ardenti, un magma di frammenti di realtà che incutono timore trasposti sul piano della sperimentazione linguistica. Al fondo quella di Piazza è una poesia lirica, che nasce tra le pareti di casa: «la casa tiene e anche la mente», che ripete ritualmente le forme di un cattolicesimo domestico («con il bambino che ci fa bere la sua gioia / a mutare il nostro sangue») in cui l’eros non è trasgressivo ma mistico, benedizione e immersione, nell’ambito della famiglia, con un tu femminile e salvifico in quella perenne primavera: «Una metafora vegetale ti fa donna / pervasa dal tuo vivere serale: / io leggo proteso al tuo seno». Le altre figure femminili che ritornano nella sua produzione, come Alessia e Mirta, appartengono al ricordo e non mettono in discussione il fondamento del discorso, semmai costituiscono una variazione sul tema. L’«ozio di fragola feriale», che si ripete da un libro all’altro di Piazza, è rito di vita «duale», in cui il poeta e la donna vivono separati dalla cronaca degli avvenimenti, guardano soltanto «da finestre grandi» aperte «sul delta del mondo», ma i giornali sono «annudati dal tempo», i fatti e gli eventi trascorrono ma non sembrano intaccare, pur nella loro tragicità che talvolta riaffiora, la dimensione della lettura nella casa, con i libri appoggiati sulle mensole, elementi dell’«ozio» celebrato nel poemetto:

nell’undici settembre non venuto
a caso le impiegate della Microsoft
hanno dato l’ultimo
volatile respiro leggendo e lavorando e

Il flusso poetico e la narrazione, come in altri componimenti, si interrompono con la congiunzione, la e, qui provvidenziale. Gli «universi d’aria», le metafore vegetali, le metamoforsi secondo una topica dannunziana («entriamo in piante / di altri mondi») ed ermetica, permettono all’io lirico di sfuggire a ciò che raccontano quegli stessi giornali. Egli cerca ossessivamente uno spazio altro in rapporto con un tu femminile che lo salvi e lo rinnovi attraverso l’amore: «Vengo fuori da te come una cosa nuova».

Se il mondo non è abitabile o non lo è più, lo spazio privilegiato che l’io lirico si concede è quello domestico o del parco di verde vicino, dei «platani condominiali». E’ questa l’unità che forma una «monade» in cui sono racchiusi l’io lirico e il tu: «è un giocare al rifugio per noi / ad amarci nella tana domestica». L’«edera» (p. 19) entra nella casa come foglia da segnalibro, la natura e la poesia convivono senza muoversi dal proprio luogo. L’equazione non sembra avere eccezioni: «Amore, parola pari a casa o luogo / abitabile». Quando ci si trasferisce nello spazio accessorio o transeunte, cittadino o vacanziero come la spiaggia di Paestum o Capri, viene rievocata sempre la casa: «sta inevitabilmente / il nostro guscio familiare». La «casa rosafiorevole» esiste come certezza granitica, vera sostanza; di fronte o sopra di essa, se c’è l’abisso, esso deve restar nascosto al lettore, coperto da rose, per usare le parole del grande Saba. Il rito della scrittura è quello una preghiera quotidiana che serve a se stessi. La ripetizione ossessiva è salvezza, un esorcismo contro la morte nel ritorno, che si vorrebbe perenne, dell’«uguale» (p. 17):

Esistiamo pari agli alberi sempreverdi,
rinasciamo ogni giorno nel letto
del risveglio duale […]

La «forma verde del giardino» dell’infanzia, del parco dove si assaggiavano i frutti «a cinque anni», è quella dove la «sposa» è entrata per una unione mistica. Il chiostro o la «rosa mistica» che contornano lessicalmente questo spazio ne confermano la natura sacrale; il tempo è sospeso, immobile, esclusa la sofferenza del divenire quando si è protetti dalla donna-Madre: «ti disponi con il figlio a tessere le tele delle ore». La luce può quindi inondare la casa essendo le sue porte «tutte aperte», la «casa consacrata» con il «bambino» e il «pane» completano lo spazio del sacro che consente di non vedere il «cadavere del tempo» (p. 27). La sposa è celebrata come divinità, una madonna, nel luogo di nascita, montuoso, che è avvolto da una «luce soprannaturale», dove gli animali vanno, come in un presepe, nel loro «sacro abbeverarsi»; i morti come presenze larvali salgono «in cima» con le loro vesti.

Ma la morte è per l’io e la sposa soltanto un addormentarsi come nelle fiabe in «bare di vetro», in attesa del risveglio. Il «sagrato della vita» è il luogo infatti dove avvengono «mille resurrezioni». Si sviluppa, quindi, in una ossessiva iterazione come in un rosario, il «sinuoso senso del rito quotidiano e duale», il rito cristiano per cui «acqua e vino» devono «trasformarsi in sangue» (p. 32). Il tempo della vacanza, in altri testi del libro, non è nella sostanza che attesa del ritorno alla «domenicale domestica ripetizione / ad angolo con la vita nei libri», così come si attende il ritorno della sposa quando è lontana, ha abbandonato temporaneamente la casa e fi lei si contemplano i «segnali / che [ha] lasciato».

Anche i libri scritti sono ciò che si dà in cambio del sacro dono, il bene familiare ricevuto. Un inno di grazie che si estende al creato: «volano Angeli e rondini sotto il cielo», per cui l’azzurro diventa l’unico colore al cui confronto il nero dell’inchiostro, della scrittura, non può vedersi, si rimane turbati nel corpo, che si vorrebbe totalmente spiritualizzato, dalla meraviglia che rigenera.

Nella seconda sezione del libro, intitolata «Alessia e Mirta», ritornano le figure femminili complementari della vita e della morte di altre raccolte. Alessia è simbolo dell’adolescenza nel passaggio alla prima maturità (nei testi di Piazza precedenti ha sedici anni, oppure qui «diciotto anni contati come semi»), della giovinezza che vince la morte nel suo splendore, mentre Mirta vi si sottomette per scelta, per «libero arbitrio» (p. 52). Un suicidio, quindi, un frammento doloroso del reale se in altra sede il poeta ha evocato i dettagli del caso, che rimandano ad articoli di cronaca, al caso di un’amica. Ma il rito, di cui il libro di poesia è parte fondamentale come la preghiera, serve ad esorcizzare il baratro. La «fiorevole Alessia sulla via della vita» rappresenta l’anima che affonda le radici nella psiche del poeta, il quale non può non celebrare la vitalità e l’amore come «via maestra» (p. 60), cammino solido che tiene lontani dal filo del baratro, che è una vittoria nel segno della «gioia» sull’istinto di morte che è prevalso in Mirta:

sta infinitamente il flusso buono
dagli occhi di Alessia,
fino ai verdi prati della vittoria
della gioia […]

In questa fede che si rinnova nella vita e in dio (p. 66), il grembo di Alessia raccoglie la «pioggia amniotica» come una gran Madre, perché è sempre la donna a garantire la sostanza di questa fede e di questa salvezza che da individuale si fa nel finale del libro collettiva.

Recensione
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