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Il fine del mondo
Il fine del mondo di Giancarlo Micheli appare essere il canto del cigno del
romanzo italiano e del post-moderno, in realtà pone un nuovo inizio, un inizio
che narra la fine, un’eterna fine mai a finire; il fine è una fine che mai
giungerà, un tendere a zero, che vuol dire tendere all’infinito senza mai
raggiungerlo. Per questo ho deciso di recensire tale libro, poiché ritengo che
l’arte oramai possa descrivere la sua tensione alla fine, che diviene tensione
anagogica. La cifra stilistica che mette in campo Micheli è la stessa che si
metterebbe per vergare un testamento, ma, come detto, è un testamento di fine ed
inizio di narrazione della fine.
La ricercatezza, quasi gaddiana, del lessico e
la strutturazione complessa e, nel medesimo istante, sfumata dei personaggi
rendono il romanzo non di semplice lettura e interpretazione. Questo non è un di
meno, ma è una forza, poiché costringe il lettore a una lentezza, la quale, come
insegna Calvino, esiste contrapposta alla rapidità: la celerità della società ha
come contraltare positivo l’arte che obbliga a rallentare; il romanzo di Micheli
così si pone fortemente contro la rapidità della società contemporanea. Lo stile
richiama a tratti la poesia, le descrizioni della natura son strutturate su una
forma poetica che accelera il piacere della lentezza. Il lettore del romanzo
moderno sta troppo attento a ricercare storie avvincenti, senza badare a ciò che
già affermava Pavese: un romanzo diviene arte non nelle vicende narrate, ogni
esistenza è molto più affascinante rispetto a quella d’un personaggio, bensì
nella forma.
Ecco che il romanzo di Micheli è un romanzo per intenditori. È un
romanzo che esplora il dissidio umano tra il desiderio di felicità e
l’impossibilità di raggiungerlo, all’interno della storia dell’umanità d’uno
Stato forse africano che s’elegge per tutti gli Stati del mondo. I personaggi si
ritrovano inconsapevolmente gettati in vicende più grosse di loro, tanto da
apparire degli esuli all’interno della loro nazione e del loro popolo e
risultare così al di fuori del mondo circostante: vivono la condizione
dell’ebreo errante e la situazione di esseri, la cui loro piccola storia viene
travolta dalla grande storia. Essi son descritti quasi asetticamente,
caratterizzati da una disaffezione nei confronti del mondo, il tutto espresso
con un periodare ricco, concettoso e ipotattico, che esprime però una
frammentarietà dovuta al disfacimento incombente, a quale si può assistere
soltanto con rassegnazione.
La cifra stilistica di Micheli s’avvale d’uno
slancio più apollineo che dionisiaco, un razionalismo scettico, tanto da essere
anaffettivo, privo del sentimentalismo che permea molta prosa italiana d’oggi,
incerato a quelle mitigazioni sarcastiche che contraddistinguono anche la grande
prosa statunitense. Non si consideri ciò una critica, poiché il romanzare di
Micheli si fonda s’un’imperturbabilità del narratore, insegnato da un maestro
come Zola. Se si riducesse ad un solo lemma l’intero romanzo, sarebbe
“assottigliamento”. Si potrebbe valutare Il fine del mondo come la
documentazione chirurgica del timore del vivere. Micheli incede nella prosa,
esprimendo le tesi della sua teoria, rendendo i personaggi guidati da un’etica
eteronoma, costantemente decisa da agenti esterni alla loro volontà.
Le figure
popolanti il romanzo non posseggono libertà di giudizio, ne appaiono privati
dalla valanga degli eventi. Impossibile pare scansare il disordine, di cui la
vita è un limite tendente a infinito e contemporaneamente a zero. Il mistero del
vivere diviene superflua variabile, impossibile da decifrare. In questo scenario
si staglia, come sfondo e protagonista, la natura, la quale sembra trattenere
ancora il segreto della stimmung, dell’armonia del mondo, evidente nella
descrizione iniziale, ma si sta deteriorando sotto i colpi dell’incombenza della
guerra. Una guerra che ha i caratteri di tutte le guerre combattute durante la
storia dell’umanità, ma è anche metafora della guerra dei sessi, altra
dimostrazione della perduta armonia. Gli incontri amorosi possono essere
descritti come l’incontro di mani che non collimano mai: le dita della mano
destra non combaciano con quelle della mano destra del partner e nel caso
coincidano, sono la mano destra di uno e la mano sinistra dell’altro.
L’impossibilità d’armonia è il tema di fondo de Il fine del mondo e
nessuna pulsione superomistica può recuperarla.
La disarmonia sembra frutto d’un
preoccupante sincretismo tra filosofia zen (richiamato dal nome Zenobia), guerra
e culto per il progresso, provocando una definitiva disumanizzazione. Alla fine
la solitudine domina le desertiche radure rigogliose di questo romanzo.
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Recensione |
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