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Segreti casentini e oltre a primavera
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Florilegi femminili controvento
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Conoscevo Maria Luisa Toffanin di fama, perché il
suo nome ricorreva spesso nella rivista La Nuova Tribuna Letteraria, o
quale vincitrice di concorsi, o quale autrice di libri recensiti nella rivista
medesima, ma conoscerla di persona al Premio “L’anfora di Calliope” di Erice è
stata per me una emozionante scoperta. Non pensavo, né speravo che da un
semplice incontro ad una cena, potesse nascere una sincera amicizia, legata
anche alla stima di Maria Luisa per Veniero Scarselli, mio marito, da poco
deceduto, per il quale avevo ricevuto un premio “alla memoria”.
Sì, la disponibilità all’ascolto, alla ricerca e
alla scoperta dei sottili legami che potrebbero unire la poetessa ai cuori
delle persone che incontra, mi pare proprio questo il suo connotato più
significativo e alla luce di questa scoperta mi sono accinta a leggere i suoi
libri. Dapprima mi ha incuriosito il poemetto “Segreti casentini e oltre a
primavera“ e sorpreso la riduzione dell’aggettivo casentinesi al più poetico
casentini, licenza poetica che si perdona scoprendo le “trame di armonia” che la
poetessa ha intessuto con il solido ordito della foresta millenaria di Camaldoli,
delle pievi romaniche, dei castelli, dei borghi, de li ruscelletti che dai
verdi colli / del Casentino scendon giuso in Arno di dantesca memoria. Il
Casentino, la terra che ben conosco perché ci abito, l’ho ritrovata tutta nel
poemetto, trasfigurata da lei in dimòra dello spirito, quasi il realizzarsi di
un disegno divino, come lei scrive: docile curvarsi di terra / a disegni
celati nei cieli. Questo libro, meglio di una guida turistica, invita a
visitare il Casentino, per poi poter dire con la poetessa: noi da magia
confusi / da mistico stupore accesi / a posare sulle nuvole / nostre trame esili
di terra / e offrirle umili al Cielo.
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Che dire
poi dell’ultima pluripremiata opera di Maria Luisa, Florilegi femminili
controvento? Meglio di me lo ha fatto Giuseppe Manitta, il prefatore, ed a
me resta ben poco da dire che non sia una ripetizione di quanto già osservato;
posso però testimoniare la consonanza con l’autrice nel delineare i personaggi
femminili, defunti e viventi, che fanno parte della sua vita e nel libro
richiamati nei loro tratti salienti, ritrovando in ognuno di loro un po’ di me
stessa: come figlia, come sposa, come madre, come zia, come nonna e come amica.
E’ questo, infatti, il miracolo della poesia: renderci non solo partecipi, ma
protagonisti delle storie narrate. Ho detto storie, in quanto la poesia, fin
dai poemi omerici, è una narrazione. Infatti la poesia avvince il lettore solo
se ha questa caratteristica, e la poesia di Maria Luisa la possiede appieno.
Il volume
si apre con una riflessione sulla vecchiaia, ultima tappa del nostro “migrare”
terrestre, quando la minore prestanza del fisico mortifica il desiderio di
mobilità, necessario per soddisfare le curiosità accumulate nel tempo dei più
impellenti impegni di famiglia e di lavoro. Ora purtroppo, scrive la poetessa,
il corpo è diventato valigia di carne ingombrante, magari senza più una
propria autonomia, come una valigia, appunto, ma questa racchiude
un’anima, che sopperisce alle limitazioni della vecchiaia migrando oltre
eterei strati / pascoli di nuvole slarghi di sole, dove nessuna
prestanza fisica è necessaria. La poetessa si sofferma a valorizzare la
condizione del vecchio, che, nonostante la sua scarsa mobilità fisica, ed anzi,
grazie a questa, può rifocillare lo spirito alla sua origine prima
succhiando sostanza-essenza / estinta sulla terra / da una fame d’immagine.
La poetessa insiste sul verbo migrare, che interpreta efficacemente la nostra
condizione di “esuli” sulla terra e richiamato ben tre volte nella lirica, E’
l’anima che migra oltre il proprio stato / libera da corporale gabbia [ … ]
verbo che chiude anche la lirica in cui, per bocca della poetessa, l’anima
diventa un tutt’uno con il viaggio stesso: Il corpo è valigia di carne
ingombrante / ma l’anima che leggera migra / è il viaggio infinito.
Già il
titolo del poemetto annuncia la celebrazione di figure femminili appartenenti ai
differenti ambiti affettivi: la famiglia, la cerchia amicale, le donne celebri
più ammirate. Tra tutte troneggia la madre, per la poetessa fuoco eterno di
memoria e diventata nei suoi ultimi giorni come una figlia da proteggere e
accudire: E madre, ti cerco / in questa grande assenza / non più da me
protetta / in tardo tempo / come tu fossi figlia; poi c’è la nuora, erede
spirituale e custode del patrimonio culturale e affettivo della famiglia,
affinché non si inaridisca tra figli e padri / la sorgente delle prime
sillabe e con lei a condividere la femminile / essenza che lieve da noi
svapora; c’è la nipotina quale stella augurale del mattino / nel
domestico cosmo; ci sono le zie, una più riflessiva: indagavi come il tuo
fiume / sarebbe sortito nel mare, l’altra più giocosa … tramavi la
favola–incanto d’infanzia; entrambe arricchiscono di ricordi familiari i
nipoti con il fabulare di dolci memorie, concorrendo così alla loro
educazione.
La
poetessa offre un omaggio floreale anche ad alcune donne che hanno
contrassegnato la storia femminile degli ultimi anni, chi in campo scientifico
come Rita Levi-Montalcini, chi in campo assistenziale come Madre Teresa di
Calcutta, entrambe vivificate dalla loro sostanza affettiva, la prima
nella gioia stupore di scoprire / il sacro del creato e di ogni
creatura, la seconda ne la gioia del vivere in offerta di sé.
Concludo sostenendo che la missione del
poeta si può riassumere in questo verso di Maria Luisa: Per trasformare il
vivere in parola ed io aggiungo: “in cui ognuno si possa empaticamente
riconoscere”.
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Recensione |
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