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Linguaggio schietto e comunicativo, quello di Duccio Castelli
che non ignora l'apporto della lezione ermetica del Novecento, nell'amara
constatazione della aridita' e del degrado etico del nostro tempo, della sua
inesorabilità, in raffronto alla cristallizzazione delle immagini suggestive
dell'autore, cariche di struggente malinconia.
Se varie sono le tematiche che Castelli affronta in questa
raccolta, l'amore, la famiglia, il lavoro, le descrizioni ambientali, alla base
dei suoi componenti c'è come un leitmotive, la memoria, che li collega con una
ricca gamma di emozioni e di sensazioni.
Nascono così atmosfere evocate dai vari Paesi visitati
("credevo viaggiare | in quel mio passato | ho riaperto gli occhi | nel mio Cile
| e ho visto | il futuro") che si alternano a riflessioni e a meditazioni sul
significato dell'esistenza: "Siamo piante legate | alla terra | ma l'inverno ci
mette in dubbio... | La notte è come la morte | ti dà riposo". Il quesito del
poeta assume talora connotazioni metafisiche, e trascende la dimensione
quotidiana delle cose: "Si chiude nell'onda del golfo | una vita trascorsa
| e
rivedo la tristezza infinita | di un giocattolo che lontano | si perdeva nel
mare". Persiste così – basta saper leggere nella stringatezza pudica di queste
composizioni, che conservono il se senso musicale della cadenza interiore – il
riscatto verso l'Assoluto, anche delle migrazioni e dei vagabondaggi del poeta
wanderer.
In tal senso Duccio Castelli, coniando felicemente il
termine "emigranza", ha saputo coglierne, quasi in trasparenza, il carattere
psicologico oltre la contingenza del reale: l'attesa ed il timore a un tempo
delle migrazioni interiori, delle mutazioni dei sentimenti, delle passioni
dell'animo umano.
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Recensione |
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