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Memorie dall'avvenire
Cronotipi nella prosa surrealista
in: Memoires, Limina Mentis, Monza 2014
a cura di Antonio Melillo
Per
il senso letterario assodato – il quale, nondimeno, pena la propria
autoestinzione, non potrà mai essere comune quanto la mediocrità degli
organismi economici e sociali, in ogni epoca, esige dalle forme della
coscienza relativa in guisa di prezzo di realizzo – l’esperienza delle
avanguardie novecentesche si compì entro i limiti di vincoli
costrittivi, nel recinto d’infanzia delimitato da un costituzionale
difetto di legittimità. Ciò si rivela in maniera evidente ad un esame,
anche sommario o tendenzioso, del ruolo svolto dal movimento surrealista
nell’ambito del sistema delle patrie lettere francesi. I testi
surrealisti che godettero di maggiore eco, e che tutt’oggi esercitano
malintesi fascino e richiamo dalle foreste al di sopra delle quali
volarono, pagine di romanzi incompiuti dalla vita e disattesi dalla
storia, ebbero respiro nell’ambito di generi quali il pamphlet e
il saggio tirtaico[1],
i quali, d’altronde, già al tempo della redazione dei manifesti
bretoniani[2]
o del Traité du style[3]
di Aragon, vantavano una loro propria e specifica tradizione.
Assunti,
pertanto, sin dalla nascita in ambiti contraddittorî e ambivalenti, essi
si dibatterono presso l’involutiva temperie contemporanea per strappare
ai sedimenti del passato, alle cripte della memoria fattasi canone e
prescrizione lungo secoli di assuefatto ottundimento, i residui di
avvenire che vi sono da sempre depositati, per riportare alla luce di un
nuovo mattino le vene auree che genealogie ipocrite e mendaci avevano
consegnate alle anodine tenebre di consuetudini e dogmi. Lo stesso
sviluppo che portò dalle esordienti intemperanze performative del
processo a Maurice Barrès del 1921 alle peculiari forme liriche della
scrittura automatica e, progressivamente, alle sperimentazioni sul tema
dell’essai cui si è fatto cenno, può, a buon diritto, essere
interpretato in senso almeno duplice: da un lato esso si configura quale
riassorbimento del discorso surrealista nell’alveo della legittimità
letteraria, laddove, dal lato opposto, traspare come tentativo di presa
di terreno ad ampio raggio sui molteplici dominî soggetti alla norma
consolidata.
Esiste, poi, una ulteriore serie di opere le quali hanno ricevuto
accoglienza meno ospitale nella terra che gli agrimensori delle belle
lettere non hanno smesso un solo giorno di rendere meno vergine dacché
una qualche decimazione di capostipiti ha dato la stura a stirpi di
epigoni sempre meno feconde man mano che i passi originari si
addentrarono, a ritroso, nelle canute nebbie della memoria, opere quali
Le paysan de Paris[4]
di Louis Aragon, Nadja[5]
e L’amour fou[6]
di André Breton.
Vi si trovano intrecciati il registro narrativo e
quello saggistico, mai però secondo il protocollo di cui il meglio
credibile tra i teorici moderni del romanzo, Michail Bachtin, estrasse
la giustificazione dalle miniere del realismo ottocentesco; racconto e
riflessione vi paiono, piuttosto, rifusi e amalgamati in una lingua
ambiziosa al di là della misura di designazione e significazione, luogo
degli affioramenti inconsci sulle superficie significanti nelle quali il
testo si tesse e si disfa; si potrebbe definirla una lingua
simmetrica, qualora si volesse far riferimento agli studi dello
psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco, che fu tra gli intimi
discepoli di Freud al tempo dell’esilio londinese e tentò una coraggiosa
descrizione del sistema inconscio alla luce dei concetti della logica
formale[7],
in base alla quale esso si esprimerebbe in relazioni simmetriche tra i
propri elementi, al contrario di quanto accade alla coscienza vigile,
razionalmente governata da relazioni asimmetriche e dal principio di non
contraddizione. In un sistema del primo tipo, dunque, se la proposizione
“Hegel è padre di Breton” è vera, allora è vera pure l’inversa, “Breton
è padre di Hegel”, cosicché non vi è possibile ordinamento temporale né
spaziale, ogni parola vi è provvista di ubiquità e di eternità.
È chiaro, pertanto, che non sia facile né immediato applicare agli
esemplari della prosa narrativa surrealista i criteri che Bachtin andava
elaborando proprio nei medesimi anni in cui vennero pubblicati Le
paysan de Paris (1926), Nadja (1928) e L’amour fou
(1937). Dopo aver assistito, nell’estate del 1925, ad una conferenza del
professor
Aleksej Alekseevič Uchtomskij sul cronotopo in biologia, lo studioso di
Orel intraprese la stesura del complesso trattato Le forme del tempo
e del cronotopo nel romanzo[8],
che poté portare a conclusione, nel sordo grigiore della cultura
ufficiale del capitalismo di Stato sovietico e tra innumerevoli
boicottaggi da parte del complesso burocratico, soltanto nel 1938.
La prima, in termini
cronologici, nella triade di opere su cui focalizzeremo l’attenzione
comparve sui numeri della Revue européenne, dal giugno 1924 al
giugno 1925, e fu pubblicata in volume nel corso dell’anno successivo,
per i tipi della Nouvelle Revue française del prestigioso editore
Gaston Gallimard. A capo del
Bureau des recherches surréalistes[9],
al numero 15 di rue de Grenelle, proprio dirimpetto alla redazione della
Nouvelle Revue française, l’accreditato periodico attraverso le
cui pagine alcuni surrealisti si affacciarono oltre la soglia
domiciliare delle lettere francesi non senza scalfire, in tal modo, la
solidità delle pulsioni eversive sulle quali il gruppo fondava la
propria collettiva intransigenza, a capo dell’eterodosso stato maggiore
surrealista stava allora Antonin Artaud, il quale, nella circostanza
dell’insediamento, aveva lanciato proclami incandescenti:
Considerata la falsa interpretazione
del nostro tentativo che è stata stupidamente divulgata in pubblico,
teniamo a dichiarare ciò che segue a tutta la farfugliante critica
letteraria, teatrale, filosofica, esegetica e anche teologica
contemporanea: noi non abbiamo niente a che vedere con la letteratura.
Il surrealismo non è un mezzo di espressione nuovo o più facile, neppure
una metafisica della poesia. È un mezzo di liberazione totale dello
spirito e di tutto ciò che gli somiglia. Il surrealismo non è una forma
poetica. È un grido dello spirito che ritorna verso se stesso ed è ben
deciso a schiacciare ciò che gli si oppone, alla bisogna con martelli
materiali.[10]
[...]
[1]
Dal poeta greco del VII sec. a.C. Tirteo; in ragione di ciò che
della sua opera si è tramandato, l’aggettivo tirtaico viene inteso a
designare testi che esortino alle virtù etiche e civiche.
[2]
André Breton, Manifesti del surrealismo, Milano, Einaudi,
2003.
[3]
Louis Aragon, Traité du style, Paris, Gallimard, 1928.
[4]
Louis Aragon, Il paesano di Parigi, Milano, il Saggiatore,
1996.
[5]
André Breton, Nadja, Torino, Einaudi, 1972.
[6]
André Breton, L’amour fou, Torino, Einaudi, 1974.
[7]
Ignacio Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti,
Torino, Einaudi, 1981.
[8]
Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979.
[9]
Ufficio aperto al pubblico ogni pomeriggio, dalle 16h30 alle 18h30,
al fine di “raccogliere attraverso tutti i mezzi appropriati le
comunicazioni relative alle diverse forme che è suscettibile di
prendere l’attività incosciente dello spirito” (André Breton, Entretiens, Bolsena, Erre emme, 1991). I suoi lavori si
protrassero dall’Ottobre 1924 al Marzo 1925, quando Breton ne decise
la chiusura a seguito delle divergenze intervenute con Artaud.
[10]
Henri Béhar & Michel Carassou, Le
Surréalisme, Paris,
Librairie Générale Française, 1982, p.19
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