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Il Canto stonato della Sirena. Racconti di una città smarrita
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Napoli si racconta attraverso la voce velata di
Monica Florio, che con l’occhio tipico del giornalismo, unito ad una profonda
sensibilità per la realtà sociale e per il non-detto, fa emergere dal fondo, che
poi tanto fondo non è, l’essenza di una città nella quale, oltre alla dimensione
superficiale popolata di feste, piazze e Pulcinella, si nasconde il volto di chi
non urla ma c’è. A Napoli per sopravvivere bisogna urlare, gridare e sgridare,
fare a gomitate, correre, imporsi, fare finta di saper comandare, prima che
siano loro a comandare te. E con loro intendo la gente, il popolo, noi stessi,
quelli con cui conviviamo e respiriamo l’aria piena di fumo e polvere che sale
dalla terra partenopea, fatta di vento e fuoco. Ma non dimentichiamo che c’è
anche il mare e i racconti del Canto stonato della Sirena, basati
sull’emarginazione e sulla diversità, sotto tutti i punti di vista, psicologico,
sociale e sessuale, non fanno altro che intonare perfettamente quello strano
canto della nostra tanto amata terra madre: la Sirena Partenope.
E’ un canto stonato perché stonate sono le vite
dei protagonisti persi e dispersi in oasi cittadine, alla deriva in acque nere
da cui essi risalgono, fradici e sporchi senza mai però annegare. Non urlano,
non si dimenano, eppure sono lì, nel lento fluire della vita così rumorosa e
piena di sberleffi e risate ironiche che ad essi sono riservate: perché i
diversi diventano marionette nelle mani di chi si crede migliore di loro. In un
clima narrativo, dove è la presunta normalità a scontrarsi continuamente con la
diversità in tutte le sue forme, la marionetta diventa il simbolo della potenza
del volere altrui e dell’incapacità di essere normali.
“Se c’era un po’ di genio in lui, allora era
rimasto ingabbiato nel corpo di una ridicola marionetta, incapace di esprimersi
se non attraverso suoni disarticolati e incomprensibili.”
Queste parole presenti nel racconto “La
marionetta impazzita” mettono in evidenza l’incapacità del protagonista di
essere come chi lo circonda, perché con delle diversità fisiche innegabili, che
denunciano l’egoismo e la superficialità con cui gli altri s’impongono, a
cominciare dalla madre che sembra sorda e instupidita da una volontà cieca che
pretende una normalità dal figlio che non può esistere. I diversi, o quelli che
vengono a volte considerati tali, vivono in mondi che appartengono solo a loro,
si nutrono e si cibano dei loro stessi sogni e speranze, e quando per obbligo o
per necessità, si affacciano timidamente, dietro il muro del loro rifugio, ciò
ci di cui hanno bisogno è soltanto di non perdere la loro dignità.
Sullo sfondo s’impone la Napoli eterna,
imprigionata nei suoi colori, odori e sapori incastrati nei vicoli e nelle
strade di ogni dove, mentre si spoglia e si strucca, mostrando, attraverso la
mano sottile e delicata di chi la guarda con attenzione senza voler giudicare,
il suo volto più nascosto, quello che gli altri fingono di non vedere. Ciò che
emerge in tutti i racconti è la consapevolezza dello smarrimento in cui i
personaggi, uomini e donne, sono intrappolati proprio perché soli. La signora
solitudine s’impone padrona delle loro esistenze quotidiane e sociali rendendoli
certi di non poter essere compresi, almeno fino a quando un barlume di speranza
non fa capolino anche nella notte più nera.
La scrittrice dimostra di aver guardato e di
averlo saputo fare, un po’ come fa la fotografia dei grandi geni dell’arte. Ha
saputo cogliere i tratti della vita seppur perduta e spezzata, e li ha resi
umani perché li ha compresi nella sua non facile totalità. Mi auguro che anche
voi facciate altrettanto: io almeno ci ho provato.
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Recensione |
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