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Non ci sono equivoci di
prospettiva quando l’orecchio dell’animo, aperto al quotidiano lacerato e
lacerante, non ascolta che drammatiche negatività: il punto focale, in cui tutto
confluisce, perde il suo motivo d’essere per cui ogni cosa va alla deriva,
naufraga nel nulla dell’alienazione, della frantumazione. La sensibilità del
poeta patisce metafisicamente questa situazione, questa vertigine che è della
società e dell’uomo, e ne reagisce con le fibre della propria parola, che è
succo dell’intimo.
Di Lucio Zinna è
il volumetto La casarca, una raccolta di poesie dove la parola non è mai grido
né magma di lamentazioni ma è dignitosa nella propria «pena indicibile», nella
profonda amarezza. La sezione «La campana del coprifuoco» è rappresentazione
dello stato interiore della sospensione, «né in cielo né in terra avverto |
distante la casa», della separazione, «un atomo | costantemente attentato
nell’integrità», della frattura (Scilla e Cariddi), dell’incertezza (N’abbucco).
Le poesie della sezione «La casarca» visualizzano, invece, la reazione, la
ricerca del nuovo e del vero, della sicurezza, dell’intero, della terraferma
interiore. L’arca si fa, così, metafora di ogni possibilità positiva,
prospettiva in cui tutto ritrova il centro senza frammentazioni, un centro in
cui si riflette il tutto, l’intero. Casarca, però, non è luogo geografico, non
ha configurazione materica, non è esterna all’uomo. Casarca siamo noi stessi, in
noi il possibile destino di salvezza, noi pittori di un arcobaleno che renda
l’uomo all’uomo: «Siamo nelle nostre mani...». È questa umanissima dignità,
questa forza senza cedimenti, che veicola i versi dinamici di Lucio Zinna. | |
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Recensione |
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