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Le cose del mondo

Con Le cose del mondo, pubblicato nella prestigiosa collezione Lo Specchio Mondadori, Paolo Ruffilli ha scritto un libro ambizioso e denso, frutto, egli dichiara, “di una elaborazione, di un lavoro più che quarantennale”, che ci consegna quindi il messaggio di una vita. Si tratta di una raccolta, articolata in capitoli, di brevi frammenti – dieci o quindici versi – di osservazioni, riflessioni e meditazioni concernenti i grandi temi della condizione umana e il mistero della vita.

Il discorso poetico è tormentato, franto, predilige le espressioni contraddittorie, l’accostamento dei contrari, l’ossimoro ad esprimere la complessità del reale e le difficoltà della ragione a comprenderlo, lo scarto fra desiderio e realtà, ed esige una lettura attenta, includente la ripresa ad alta voce per apprezzarne appieno le sonorità.

Ruffilli muove dal tema del viaggio nella pratica quotidiana. Egli ha viaggiato molto, ma non ama spostarsi da un luogo all’altro e, se fosse per lui, lo farebbe il meno possibile: “Che stato di piacere / quello in cui, da fermi, / si segue con lo sguardo / qualcuno in movimento / più lontano” scrive in exergo alla prima sezione. Naturalmente egli sa che “È il movimento a darci in dote la speranza / mettendo in relazione noi stessi con le cose / (…) ignote e le distanti” (p.14), ma si sottomette malvolentieri, controvoglia, a questa necessità e ai disagi del viaggio, spinto anche dalla consapevolezza paradossale “che bisogna intanto perdersi / per potersi davvero ritrovare” (p.16). Molte sono le notazioni sullo squallore della frequentazione dei mezzi e dei luoghi di viaggio e sul triste spettacolo di “quelli che lottano ogni giorno / per darsi (…) l’illusione” di mantenere la convinzione “ormai perduta / che la vita valga la pena / comunque di essere vissuta”. E il suo pensiero torna continuamente alle ragioni di questo disagio: la convinzione che “più si va e meno si trova / e non si arriva da nessuna parte” (p. 24). Insomma la prospettiva del vuoto: se il partire è l’”unica speranza vera / contro lo stallo e contro l’apatia” (p.38), “che desolazione di fronte alla visione / del vuoto secco in cui ti getti”.

La vita ha i suoi ritmi e snodi fondamentali e quello della paternità e delle sue responsabilità impegna il poeta in un dialogo meditato quotidiano con la figlia, le sue domande, le sue scoperte, i contrasti e le inevitabili ribellioni dell’adolescenza. Sono pagine di grande delicatezza in cui Ruffilli si muove con accortezza, preoccupato di dare l’abbraccio rassicurante che un genitore deve, ma attento a non proporsi come figura detentrice di ogni soluzione o verità: infatti si confessa “incerto di ogni verità” e ammette “in fondo al cuore conosco la paura”. Ma questo non lo esime dal dare suggerimenti, per quanto attento a non “rovesciarti addosso non gradita / chissà quale altra mia opinione / sulle cose del mondo e della vita” (p.47).

Così lo vediamo prodigo delle acquisizioni dell’esperienza: in relazione alla scoperta del sesso niente divieti, no al “freno propulsore / degli ambiti proibiti”, ma necessità della salvaguardia del “possesso di sé” a difesa dell’integrità della persona (p.60); sulle ipocrisie e i misfatti del mondo: “non venirci / a patti, non voglio ritrovarti / arresa già in partenza” (p.61); sul dovere di essere protagonisti della propria vita: attivare la testa “così che possa / liberarsi e fluttuare su dal niente / qualche pensiero o sogno che si desta / a sgominare il torpore con la fantasia” (p.68), perché ognuno “è l’autore della propria sorte / e (…), a chiamarle, arrivano le cose”; ma per non diventare “prigioniera / dei soldi e del successo”, dovrai “aprire le tue porte / sul mistero della vita e della morte” (p.69); sui sentimenti: “Finché pretenderai di dominare / con la ragione i sentimenti, / (…) non potrai affondare per davvero / le tue mani nella vita con l’ebrezza / e gustare la festa” (p,70); sugli abbagli dell’appariscenza: “sta nel segreto e nel nascosto, / mai a vista, la molla della vita, / la ricerca e la scoperta, la conquista” (p.71). Insomma un manuale per la vita consapevole.

Ma a Paolo Ruffilli non basta cercare di vivere con pienezza e responsabilità, egli si pone anche i grandi interrogativi, che riemergono prepotenti nella terza parte, “La notte bianca”: l’elusione dell’“irresistibile bisogno” della natura umana “di levarsi / (…) per riprendere possesso / di qualcosa che le sia stato tolto, / (…) parte nobile della sua essenza stessa” (p.82); “le falsità dell’intelletto / gli oscuri mostri del pensiero” (p.84); lo spettacolo di; “Ogni minima singola creatura / (…) nel prodursi / vistoso di vita con la morte / tutto così labile e (…) / tanto più nobile e (…) grandioso / (…) nella luce oscura / dell’aperto insondabile mistero” (p.85); la critica della velleitaria scelta di autolimitazione e autoisolamento dell’Islandese nel dialogo con la Natura delle Operette morali.

E ancora altre meditazioni: su ciò che affligge e frena l’uomo nel suo slancio verso una vita degna di essere vissuta; il “piacere” sempre inseguito e mai goduto; la violenza “coltello del cupo sacrificio rituale”; l’illusione della ragione di separare il vero dal falso, il bene dal male quando – afferma il poeta – “la molla certa / è invece la contraddizione dentro l’unità” (p.98).

Tuttavia, in conclusione di capitolo, l’Autore, “mai arreso” ai propri limiti, dopo tante prove, con sorpresa si scopre capace di “trarre l’energia dal vuoto e dal dolore / (…e) via via più forte per la vita / avanzando e avvicinandomi alla morte” (p.102).

Il titolo del volume, Le cose del mondo, non rinvia solo a come vanno, secondo il Poeta, le cose del mondo, ma denota anche il suo rapporto particolare con gli oggetti: lo evidenzia in modo sorprendente il capitolo omonimo insieme a quello successivo. Le cose parlano di noi, delle nostre velleità, delle nostre debolezze e dei nostri desideri, ma hanno una loro consistenza e autonomia e ci sopravvivono a lungo, “solide e impassibili”. La nostra vita trascorre e si consuma in mezzo alle cose, che diventano “oggetto della mente”, “un fantasma / (…) pronto a sfuggire sempre” per il nostro istinto “famelico, oscuro e materiale” che non si accontenta mai (p.106). Ruffilli ne riunisce una trentina, cose disparate, senza legame evidente. Il poeta le “nomina” (“Il nome della cosa”) per evocarle a dare un po’ di consistenza alla nostra vita sospesa nel vuoto. Perché gli oggetti sembrano questo per lui: una momentanea soddisfazione del desiderio, lo sfogo di un impulso, un trampolino per il salto verso l’alto, un sostegno alla nostra precaria esistenza.

Così la barca che, “al ritmo delle onde”, solletica il nostro “eterno andare in fuga” e fa “oceano del poco mare attraversato / e transatlantico del piccolo natante” (p.114), l’umile bicchiere “fonte di pace e di ristoro, schermo e / diga al niente, tramite fermo intanto / al liquido scorrere del mondo”, le calze, “guaina e fodero / (…) della carne rosa”, minuziosamente indagate dal “rinforzo della punta” su fino al “labbro dell’intera cucitura” e l’enciclopedia, “l’ordito, eletto e costruito, / l’infinito ridotto a una misura”. E poi ancora un ventaglio di altre cose.

Se questo appaiono gli oggetti, ancora più importante è il corpo e Ruffilli ne è un raffinato estimatore e nel successivo e piacevole “Atlante anatomico” anche un fantasioso, intrigante esploratore. Festa del corpo (femminile in particolare), queste pagine lo sono anche dei sensi, vista e tatto in primo luogo. A cominciare dalla timida ascella che “avvolge e impasta / turgida polpa, crema e pasta frolla / che spande caldo afrore, umore/ giù dal groppo a galla che gorgoglia” (p.142), poi la caviglia, “il fuoco e il ghiaccio avvolti nella sciarpa, / un cielo che aspetta lo si tocchi. / Il corpo che esplode dalla scarpa” (p.145), le cosce, dove l’occhio indugia in un doppio movimento, su e giù, passando “per il busto / con l’effetto (…) di evocare / sotto la gonna la loro nuda stretta / dello scavarci felici da sepolti / lasciandosi chiudere avvinghiare” (p.148). Dunque il corpo come concretissimo oggetto del desiderio, ma anche motore della vita: il cervello, “la vera camera di combustione / che trae energia dal fuoco e fa / materia dell’idea creando l’opinione” (p.146), il cuore, “luogo di pene e felicità: / il cavo propulsore di sentimenti e volontà / l’impulso che ridà esca alla carne” (p.149). E così via con varietà di tocchi, dal comune modo di dire alla metafora vertiginosa, all’accenno malizioso.

Avviandosi verso la conclusione di questo percorso esperienziale, Ruffilli, grande artigiano del discorso poetico “pensato”, passa a celebrare la forza euristica della materia prima del suo lavoro, la “parola”, prodigioso elemento fondante la nostra umanità, ispiratrice del mondo, il cui soffio sgorga dalla “melma primordiale”, frutto gravido di idee al mondo / (…) a far riemergere nel loro pieno / nei vividi colori del pensiero / tutti quanti gli esseri viventi” (p.175). Siamo nel capitolo “Lingua di fuoco” introdotto dall’esondare della parola “a rompere il silenzio / e pronunciare netto al mondo / ciò che aspetta ancora nell’assenza / (…) e che di colpo (…) si fa vivo (…) / dentro il magico reticolo del nome”.

In questa concezione visionaria la parola affonda le radici “nell’utero del tempo / tra le melme di quel limo viscerale / che ha dato soffio e corpo musicale / alle cose ancora sconosciute / richiamandole” nel ritmo “di quel tutto tuttità che è strabordante / liquido eruttato dentro ognuna / riplasmata e singola entità” (p.176). Essa fa balenare “indizi e accenni / al grande vuoto (…,) / al grande buio che grava fondo / in pieno giorno sui palpiti del mondo” (p.177), “fino a indurre / la più inedita ardua comprensione” (p.178). Siamo quindi nell’ambito individuale: il rapporto con la parola è del singolo individuo, che così accede alla conoscenza: “l’enigma si disvela nel linguaggio: / le cose vive hanno radici lunghe / che pescano sempre nelle cose morte. / Ciò che rinasce puro si trasforma, / prolungandosi nella speranza del futuro” (p.179). Versi che potrebbero anche essere in sintonia con la affermazione di Lavoisier “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma", se non fosse che la conoscenza scientifica non ha spazio nella visione di Ruffilli, che invece probabilmente accoglie suggestioni del pensiero orientale. Non per nulla le parole, “assetate di libertà e arbitrio, / (…) emergono in un soffio / a rivelare (…) / il loro volto vero, il senso di ogni cosa” (p.182) e, liberando “la mente da ciò / che muta”, la immergono “nella più assoluta contemplazione” (p.183). A questo punto è chiaro che, per comprendere questo “tutto tuttità” e questa realtà contraddittoria “fatta di vuoto che si fa pieno, e / cuce ma per strappi (…) / la logica pura concettuale serve a poco” (p.184), così come i tentativi di “riorganizzare / negli insiemi dell’idea categoriale / il vasto ibrido mare più indifferenziato” (p.185).

Naturalmente il mistero rimane intatto e impenetrabile: quello “del vuoto del silenzio, del tutto / che è conficcato dentro al niente / e dell’incontro trascendente / con la totale alterità, la vera vita / assente, l’antimateria” (p.186). Da tale silenzio siamo interpellati, da lì viene la voce che “dando nome a ciò che è assente / riplasma in lettere l’essenza” (p.187), quel “valore indefinito, toccato e appena / percepito, mosso nel suo essere assoluto / (…) per ridare intanto fuoco all’energia vitale” (p.188).

Dalla “sete” di risposte nascono i nove “Interrogativi” finali su come andare oltre l’apparenza e l’inganno e “riconquistare (…) / l’archetipo matrice / l’anima del mondo”, su “una rotta che tira / all’indimenticato, / (…) per quello stato eterno / dentro la vita / disperso e frantumato” (p.191), su “da dove nasce” il mondo, e il “soffio” che ha animato “l’oscura traccia / verso la meta”. E infine un interrogativo su un essere superiore liberatore (“Chi è che / (…) l’attesa e la speranza / aspettano (…) che venga a liberarli / per rendere all’essente / ogni virtù dell’assoluto coincidente”? (p.196)).

I versi conclusivi in corsivo, commento del poeta al termine del suo percorso quarantennale, sanzionano la sua fiducia nella “parola”, nel “nome” e nell’atto di “nominare” come chiave di avvicinamento all’ “essenza” e alla “presenza” e questo grazie ad una “ragione” non riduttivamente intesa, ma “che si fa linguaggio / volto a spiegare perfino il sentimento” vincendo la resistenza materiale delle cose.

Recensione
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