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Sàgana
Sàgana,
può significare senza dubbio
una zona collinare del palermitano, fra Giacalone e Montelepre, che resiste il
meglio possibile all’impietosa avanzata del cemento: e che il poeta siciliano
Lucio Zinna, intitolando con questo trisillabo la sua nuova silloge di poesie (ediz.
«Il Punto», Palermo), dichiara d’aver assunta «a simbolo di una condizione di
serenità, geograficamente possibile ma socialmente difficoltosa» («noi siamo
quotidianamente presi da troppi ingranaggi e Sàgana, pur così vicina,
finisce, di fatto, per diventare inaccessibile o quasi... »). Ma può significare
altrettanto bene un bel nulla, ossia la scelta sorridente d’un titolo di bel
suono, e non è poco, ma di nessuna attinenza col contenuto del libro che fregia.
Non diversamente Pitigrilli (lo citiamo poiché oggi lo riabilitano) intitolava
un suo volume I vegetariani dell’amore o Dolicocefala
bionda (« Che vuol dire I vegetariani...?» «Niente: ma per
convincervene leggete»).
Sàgana è aereo asilo,
dolcezza bucolica: e vorremmo sapere che c’entra, con versi come questi, che
trascegliamo fra i più caratteristici dell’intera raccolta: « Rode lento il
tarlo ci avvizzisce | siamo legno destinato a marcire | siamo piante recise
fresca l’acqua | di ogni giorno ne posterga la fine ». O come quelli desolati
del « regista invisibile » (lesto a rappresentare l’ultimo attimo che ci
toccherà « coi soli strumenti scenici che trova – improvvisando »): « Tu |
sull’autostrada pensavi sto – arrivando – dai miei | (eri retorico e solo nella
tiepida sera | d’agosto). In quell’istante moristi e | pronta richiese la regia
che saltasse | la ruota. O più non tenesse il battistrada ». O anche col macabro
– sereno delle Catacombe dei cappuccini, che si scioglie in
tenerezza sopra la culla di vetro di una bimba imbalsamata.
La poesia di Zinna è forte
d’una costante limpidità e stringatezza: a volte scabra, tagliente, sa essere
altre volte calda aumentando di pulsazioni, non d’aggettivi. Zinna (del ‘38) è
certo uno dei poeti più interessanti della sua generazione: e se ci fosse
giustizia... Ma torniamo alla materia prima di Sàgana. La Sicilia di
questo libro è stranamente « un po’ Venezia e un po’ Tunisi », « ansia di
riscatto e ansia di affondare », colorata tristezza riso e urlo, montone e
scorpena, lupanare e minareto: vedete Terra d’esordio. E, meglio ancora,
seguite il fervido Corale degli emigranti, che comincia così: «L’ebreo
errante ci passò il fardello... Lo accolsero i padri | dicendo domani ma... »; e
termina così: « Oh i treni interminabili, | gl’impossibili treni i treni neri
|
che ti portano a Sud dormendo in piattaforma | e con la testa sopra la valigia.
| Cristalli
di lacrime agli occhi | mentre il traghetto va verso Messina. | Il nostro mare il sale la campagna
| il nostro
grano le donne vesti nere | i tonni le reti la trazzera. Qui | vogliamo la terra
la fabbrica | nascere qui morire vogliamo. || Il nostro cuore ha forma di
triangolo ».
E Sàgana, allora?
Lucus a non lucendo. Il massimo di vicinanza al verseggiare del
conterraneo Teocrito al quale il duro Zinna voglia giungere è in questa lirica
da antologia, Arcaica sera, che riportiamo tutta: « Era una sera
di ulivi e fiaccole | lontane. Di fienile i tuoi sguardi. | Tiepida mi
parlavi e sorridevi | dalla tua piccola veste. Era – vedi –
|
proprio di fiaccole una sera | assurda, di non più misteriosi | beatipaoli
vaganti in lontananza, | forse (e per di più campestri). | Un’arcaica sera di
rondini tardive | a fior di pozzo. Ti affidasti | a un ulivo dall’imparziale
tronco | e dalle foglie di troppo argento | (c’era anche la più morbida | terra
che mai d’intorno potesse | esistere) e pronta mi paresti | a piegare i
ginocchi. Ma d’un guizzo |anche tu con un’ala sfiorando | il pozzo fuggisti per
non peccare – | si direbbe – e il peccato fu questo. | Era una sera di ulivi e
fiaccole | assurda arcaica assai lontana sera ».
29 marzo 1977
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Recensione |
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