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Pietre
Nei
terreni lì vicino, ormai da un po’, hanno persino rinunciato a raccogliere le
olive. Contrada La Recisa, nella campagna di Pisticci (MT), ospita
infatti una discarica comunale. Eppure per Giovanni Di Lena, in virtù della
percezione di quand’era ventisettenne, quel luogo rimarrà sempre bucolicamente e
sentimentalmente significativo: “L’aria fresca della primavera / profumava di
rinascita / ed invitava ad amarsi / quella sera” (pag.22).
Era la
primavera del 1985, ma in senso lato questo libello portico è percorso dalle
essenze di una onnipresente primavera politica. E’ vero, come scrive nella sua
Nota Pino Suriano, che Di Lena non ha fatto la rivoluzione, ma alla
rivoluzione sempre torna: la sua non a caso è definibile come una poetica
politica, quasi verrebbe da dire un’estetica politica.
Ecco la
decostruzione del Potere (la sua versione degenerata) e la figura del ‘ribelle’
che s’interroga sulla natura del nemico. Ecco la condanna del sistema violento
(la povertà “macchia invisibile” in Gradasso e la disperazione di
Precarietà operaia; le guerre, la Terra insanguinata e il mondo spezzato in
Mine vaganti, le bugiarde verità in Facce di bronzo e le ferite
civili in Nodi); ma ecco la denuncia di ogni oppressione tanto che
Pietre è dedicato “alle vittime celate nel mistero”.
Accanto
a questo, poi, c’è un Di Lena poeta della nostalgia (Suriano), né manca
qualche felice eco scotellariana. E allora torniamo all’incipit poetico di
questa raccolta di versi per chiederci chi sia il poeta: colui che non si lascia
lusingare dai “caramellati distintivi” e non cede alla prostituzione morale,
imparando anche a vivere in silenzio (Senza veli), complici i frantumi
del proprio sogno. Per arrivare poi (Apparenze) a sentirci un po’ tutti
clown di periferia.
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Recensione |
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