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È ancora innamorata, Maria Grazia Lenisa. di Arthur, dell'Arthur Rimbaud "lenisamente" inteso, corpo e verso carnalmente ineffabile, utopia, rivolta giocosa, rinascita dalla morte e dalla vita. E ancora innamorata. "Verdemente". E in questo avverbio coniato dall'autrice in omaggio ad Arthur, apposto come un bacio appassionato sulle labbra, sul respiro tenace strappato al tempo, si muove ampio e sinuoso un mondo di simboli, echi, giochi lievi e feroci, risa che accompagnano lacrime silenziose e lacrime che irrorano labbra dischiuse in un grido. Di dolore forse, o forse di piacere, o magari di entrambi. Ossimoro limpido ed inafferrabile dell'esistere.

"Sono una città di poeti che specchia Alessandria", scrive Maria Grazia Lenisa. E questo senso della pluralità, della frammentazione di sensi, organi, segni, disegni, significati e significanti, si riverbera come un riflesso sulle onde increspate di versi di questo suo Ombelico d'oro. Una città di poeti. Speranza, utopia, incubo, sogno, realtà? Di sicuro punto ideale di osservazione, visione, analisi attenta col sorriso tagliente di sentinella che passeggia avanti e indietro e scruta infiniti punti di fuga, vicinissimi ed eternamente separati. Passeggia sorridendo tra i due estremi di una linea retta: quello in cui si trova al riparo di un muro possente, e l'altro, l'opposto, quello con il corpo nudo, scoperto, soggetto allo sparo potenziale dello spietato cecchino.

Tra i due punti la marcia, il viaggio. Immutabile e sempre nuovo. Cantato e danzato. Con alati piedi di piombo. A ritmi dionisiaci che a tratti si fanno lenti, misurati, apollinei. Per poi riscoprire l'ebbrezza del riso, il saltello, la febbre, la libertà vorace della creazione. Sì perché, la Lenisa lo dice, lo urla, lo vive con i suoi versi, "non sempre la sofferenza è amore". È questo il verso, la direzione, il bagliore che l'autrice indica con sguardo dolce e tenace. È questo l'oro incastonato nell'ombelico di questo volume: "non sempre la sofferenza è amore".

Maria Grazia Lenisa lo sa. Lo sa e sa lottare per far sì che il confine tra poesia e vita si assottigli. Un millimetro alla volta. Un granello di calce che vola nell'aria ad ogni parola che si fa voce, senso, sensualità. Se la poesia si stringe alla vita con la foga di un amplesso, con la tenacia di una carezza su un corpo fremente, allora, comunque sia, comunque vada, la sofferenza, quella frigida, cieca, inesorabile, avrà meno spazio, meno tempo, meno potere distruttivo.

Essere una città di poeti, una città intera. Sospesa tra Oriente e Occidente, tra seta e plastica, templi e televisioni, canti mistici e canzoni pop, massime di Confucio e spot della Lavana Essere una città di poeti, ampia, caotica, brulicante. Aperta e segreta, intima e sfrontata. Essere un luogo dove nessuno si prende sul serio. Dove tutti sentono, godono, gridano, ridono, sussurrano, ma non si prendono sul serio. Allora, ci assicura la Lenisa, anche la sofferenza, spiazzata, smetterà di prendere sul serio se stessa. E magari, chissà, inizierà le pratiche per la richiesta della cittadinanza. Forse anche la sofferenza sarà abitante della città di poeti. Poesia, in fondo, anche lei.

Ben venga dunque l'ombelico d'oro, il pulsante magico per mutare perennemente luogo, forma, realtà. Una versione attuale dell'eliotiano "metodo mitico", l'accostamento deliberatamente stridente di antico e moderno, sublime e comune, elevato ed infimo. La Sibilla accanto ad una ciarlatana che vende oroscopi a buon mercato, Filomela violentata e trasformata in usignolo fianco a fianco ad una prostituta dei giorni nostri che torna a sera nel suo squallido monolocale. Anche Maria Grazia Lenisa sa essere polisemica, polimorfa, capace di inglobare in sé epoche ed atmosfere, il cielo più etereo e la sostanza aspra e dura della terra desolata. È netta, lacerante, la poesia della Lenisa. Come lo è ciò che è autentico, anche nell'invenzione, nel gioco, persino nel riso ammiccante. Non cerca facili simpatie l'autrice. Così come non cerca un verso imbellettato ma posticcio. misero nella sua linda pochezza.

La Lenisa al contrario sa guardare la realtà, il mondo. Sa farli apparire così come sono nello specchio dorato della sua Alessandria. Non cerca facili simpatie la Lenisa. Vuole essere amata e odiata in modo violento, totale. Non lascia spazio a sentimenti decenti ma dimezzati. Meglio i baroni rampanti dell'affetto e del disprezzo. Fa paura ed affascina la poesia di Maria Grazia Lenisa. Come tutto ciò che esula da ogni schema noto, calcato, pedissequamente percorso. Ma a volte è bello avere paura. Rinnova il sangue e rigenera la pelle.

Anche leggendo L'ombelico d'oro spesso si ha paura. Si vorrebbe a volte una gioia più lirica ed un dolore più elegiaco. Sarebbe comodo. Invece si trova il contrario. E il contrario di ogni contrario. Una gamma infinita di riflessi e prospettive. Uno sgorgare costante di parole nuove di zecca ed antiche. Alessandrine. Precise ed incontenibili. Buone per essere declamate nel salone più sfarzoso della Biblioteca di Alessandria davanti a statue policrome di dei e semidei ma anche per essere sbraitate in un autogrill dell'autostrada Savona-Alessandria davanti alle sedie di plastica di camionisti in cerca di prostitute nigeriane e del profumo libero dell'asfalto.

Poesia genuina come poche quella di Maria Grazia Lenisa. Pur nel lavorio attento, nella saldezza ritmica dell'incedere, nelle assonanze che si allacciano con sicura baldanza. Poesia che mette a nudo il mondo e lo rigenera facendosi fecondare. Poesia sincera che si lascia possedere dall'ironia, si fa stringere, avvinghiare, avviluppare, ma rimane se stessa. Lieve e intensa, malinconica e solare. E il lettore ne è gioiosamente sconvolto. Cullato e strapazzato da versi di cui coglie la bellezza ma rimane fervidamente incerto riguardo al profilo, all'inclinazione. Luce vivida di cui non riesci ad intercettare l'origine. Cerchi di sintonizzarti con l'ampio sorriso che la produce, ma ti fa uscire di traiettoria un brivido istantaneo. O magari un riso più ampio, più marcato. Sfugge. sguscia via, il verso. Non si lascia catturare dagli occhi e dai sensi nella gabbia di un'interpretazione e di una sensazione univoca- È questo il suo fascino, la più spontanea ed abilmente costruita delle magie.

Guizza via il verso della Lenisa. Ti lascia entrare al suo interno come ospite, invitato,amante, testimone. Coinvolto, accolto con un bacio e uno sberleffo. Ma la casa resta sua. Come resta suo il suo mondo. Il suo canto, la sua luna. E la luna, si sa, è maliosa, rotonda e inafferrabile. Resta lì, la luna, come la poesia della Lenisa, come le liriche del suo Ombelico d'oro, sospesa nell'alone bianco del suo dolore-amore-piacere-ardore-sapore. Non sai mai in quale lato del cielo si collochi e perché. Non sai se l'angolazione da cui la osservi è quella giusta. Ma il trucco, come sempre, è nel moto, nel movimento. Ruota e fa ruotare, la luna-Lenisa. Sorride e fa sorridere. Come si sorride, felici di sentire, di comprendere, e a volte anche di non comprendere ma di percepire, di gioire a livello di epidermide, musica, danza condivisa del sangue. Si sorride, come si fa di fronte all'arcano. Il mistero semplice e micidiale, l'enigma lineare ed irresolubile della bellezza.

"Sembra casuale davvero la morte", scrive la Lenisa nella sua "Visione di Storia", sembra casuale, ma "con le vene vuote più lieve è il corpo". Persino la morte si fa lieve, quasi bella, quasi viva, grazie al sorriso profondo e intenso. Perché la parola è un'arma di difesa immensamente potente se si ha forza e tecnica, animo e spirito di aitante discobolo. La parola e la poesia sono barriere solide se si sa renderle salde contrastando il vizio atavico di essere "oziosamente colti". La Lenisa, pagando sulla pelle il prezzo di chi osa guardare negli occhi il bello e il vero, di sicuro oziosamente colta non lo è. Seminai è acutamente colta. Colta quanto basta per essere folle, e follemente amante della vita. Con l'energia del sesso, del sarcasmo, del ritmo, l'alchimia di sillabe e sintassi in perenne asincronica sintonia con se stessa e con chi assapora i suoi versi.

"Ho quasi un dubbio", scrive, "che la voce rauca sia d'un ragazzo che ha bevuto birra, | così fonda, goliardica, impura". È fertile il dubbio dell'autrice. Cavalca rapido tra dimensioni, toni e generi, dà vita a giostre di emozioni, ribaltamenti di senso e annotazioni umoristiche. Crea un impianto poetico sostenuto da una solennità spontanea, aliena a qualsiasi artificio retorico. L'Arcadia approda sulle sponde della realtà. "Che io ve lo mostri nella sua possanza [...] il capo stanco su venti cuscini, tra mille libri | inutili, la piega dei labbri fini un poco disgustati [...] se non apprezza il misero poeta clandestino | il libro muore dentro una cantina".

B senso della carne dunque, la corporeità. Anche nella nuda miseria. La corporeità come rivolta, presenza, resistenza. Di questo si nutre la poesia della Lenisa. Questo la rende così robusta. Muscolosissima farfalla, ballerina ben tornita. Il senso del corpo e il corpo del senso. Meta e direzione. Sa bene l'autrice che se si perde il senso del corpo resta solo un bianco asettico, immacolato. Non per assenza di macchie ma per assenza di ossa, calcio, vita. Allora lei stessa, l'autrice, si fa corpo e scheletro tangibile del suo verso, eternamente ristrutturato in sequenze di attimi e immagini. Organismo in grado di respirare innumerevoli orizzonti.

Persino le note a piè di pagina in questo volume, in questo pulsante ombelico di parole, sono creative, originali, fuori canone. Non spiegano niente e non sono inutili orpelli. Sono versi semiseri collocati in posizione decentrata. Tutto è fertilmente ironico in questo volume. Non ci sono rami secchi ma fronde e foglie che crescono rapide tra mura e cielo.

"La Forma che risale alle radici del corpo | ed al respiro della vita, | si tramuta in parola/ferita e come gira vorticosa, eccelsa | contenitrice di folle energia". In questa poesia citata nella sua integrità, in questa "Lezione sulla Forma", è contenuto il segreto, criptato ovviamente, del libro e forse della poetica della Lenisa. Una sorta di autoritratto. O magari un'autodifesa, uno specchio per le allodole. Oppure chissà, entrambe le cose. La follia è ampia e generosa E quando si avviluppa appassionatamente al talento si fa poesia. Autentica. Autentica di sicuro, stavolta.

La Lenisa è capace di abbinare profondità e leggerezza. Farebbe la gioia del Bembo e del Castiglione Il trionfo della "sprezzatura". Il difficile, l'intenso, l'arcano della vita si fanno come d'incanto leggeri, apparentemente spontanei, naturali. O meglio si fanno fluidi, nel corpo, nel verso, nel suono, nella parola. Ferita e salvezza, fuga e tetto, carcere e riparo. Trincea ma anche casa. La vera, la sola.

Perché "il nemico mortale" rannicchiato nella trincea contrapposta è e rimane, al di là di tutto. "stranamente non drago ma uomo". L'uomo, con la sua finitezza, la sua aspirazione a capire, a sfidare il limite, l'imperfezione. Quindi, per combattere l'uomo, e con l'uomo e nell'uomo se stessa, la Lenisa si fa in questo libro "lieta mongolfiera celeste". Tessuto teso allo spasimo, esile, ma anche, e mirabilmente, capace di volare. Tesa allo spasimo, tra equilibri di forze e venti, potenza di penetrazione e deriva sottile. Come una sfera, una testa che oscilla seguendo le cadenze del cielo, le correnti, gli stormi di aironi che sfrecciano rapidi verso sud.

C'è, in questo volume, c'è, nei versi della Lenisa, il senso del tempo, la gravità che ci è toccata in sorte. Scrigno e fardello. Ma c'è anche la rara capacità di filtrare il dolore, la verità, la sua e quella dell'uomo, attraverso gli strati salvifici di una sublime ironia. Lo sguardo abbraccia le età, il buio e la luce, e li ingloba in sé, tra mani costantemente palpitanti. Mani che non ammiccano compunte alla rima, ma piuttosto, maliose, eccitate ed eccitanti, alla vita.

Lo sguardo che le sovrasta è quello di chi sa che "tutto dopo è festa". Ma è bello, è necessario, è sacro, impudicamente e solennemente sacro, anche cercare la festa qui, hic et nunc, su questa terra marcia e bellissima. La festa, la sola possibile, è armonia di corpi e suoni, viluppi di braccia e membra, ed ancora, nonostante le urla e le risa del tempo, abbraccio voluttuoso e vivificante di bellezza, di poesia.

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