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Spille da balia. Punte di diamante
La poesia “pungente” di Gemma Forti
Giocando sul doppio riferimento del titolo dell’ultimo
libro di poesia di Gemma Forti, Spille da balia. Punte di diamante
(Fermenti, 2017), ero tentato di riunire le “punte” e la “spilla” parlando di
“punture di spillo”. E però questa giunzione non sarebbe del tutto calzante
perché questa poesia “punge”, sì, ma non in modo tanto innocuo…
Per farsene un’idea, basterà partire da Perle di rarità
dove viene messa in scena la cattiva poetessa, tutta compresa nella propria
autopromozione, in realtà autrice di «versetti striminziti» e di «prosa incolore
sciatta», una che partecipa al pubblico dibattito «senza capire nulla», soltanto
per carpire qualche favore di recensione o attenzione. È una satira senza mezzi
termini, per altro senza alcuna solidarietà di genere, nella quale non viene
semplicemente disegnato un personaggio che è facile incontrare in vari avatar,
ma si dichiara apertamente la differenza verso un modo sempre più
frequente di concepire la poesia come sfogo dell’«ego narcisista» e come mero
recupero di frustrazioni e nevrosi varie. Attraverso il sarcasmo della
caricatura è tracciato un solco profondo nei confronti della poesia “diffusa”
che quanto più è emarginata e tanto più s’impanca a valore incompreso, sia che
assuma caratteri vaticinanti-mistici sia che si dedichi alla spontaneità del
vissuto, in ogni caso senza alcuna consapevolezza, né tecnica né ideologica.
Visto il modo con cui tratta la malcapitata signora
«onnipresente a côté letterari», c’è da star sicuri che la poesia di Gemma Forti
prenderà strade affatto diverse. E infatti il suo libro – ottimamente
accompagnato dalle illustrazioni di Bruno Conte (le quali non mancano di offrire
a loro volta a complemento alcune “punte” inquietanti) – è trascinato da una
considerevole vis della polemica e dell’irrisione. Come scrive, nella
sede introduttiva, Marcello Carlino, «intrisa di un’ironia quando pronunciata
con sarcasmo, quando tenuta sottotraccia, quando rinfocolata da cadenze
popolareggianti, quando piegata in posture di stile tragicomico, la scrittura di
Gemma Forti mette in vetrina, con marcato disegno esponenziale, punte di
indignazione, intemerate polemiche, sbotti di ira, desolati e amari bilanci
condensati in gridate voci di ricapitolazione». Sono molti i temi affrontati di
testo in testo, sempre riguardanti punti nodali e dolenti nello scenario del
degrado attuale: in particolare mi sembra che l’autrice presti un’acuta
attenzione ai regressi del senso comune, ai veri e propri rigurgiti di medioevo
(gli apici nel terrorismo fondamentalista e nei respingimenti dei profughi) che
portano alle forme esasperate della “paura dell’Altro”. Nello stesso tempo,
questa opera di “igiene mentale” sociale viene condotta con una accurata
costruzione poetica, in cui la tecnica (questo oggetto ormai misterioso nel
dilettantismo lirico odierno) reclama i suoi diritti. Come già in precedenza,
Gemma Forti ricerca un effetto visivo centrando i suoi testi sulla pagina e
ricorrendo a interventi sul carattere delle lettere (corpi ingranditi,
grassetti, ecc.) – ma, del resto, è certamente una poesia che mostra
carattere, in tutti i sensi… Mentre, dal punto di vista sonoro predilige un
discorso spezzato (molte le parole-verso) e talora al limite dello slogan (tipo:
«Abbattete i muri / aprite i cuori / alla speranza»), che
produce un insistito andamento ritmico dove trovano posto gli effetti omofonici
come le rime, forse meno frequenti del solito, ma che a volte vengono giù a
rotta di collo.
Una poesia dotata di stile, dunque, e che guarda “in
grande”. Una poesia con una rilevante carica etica: tant’è vero che in uno dei
suoi componimenti va a discutere dei “diritti”. I diritti dovrebbero essere il
proprio della giustizia e il proprio dell’uguaglianza, quindi il nucleo della
morale sociale, ma sono diventati invece, così intitola Gemma Forti, i
DIRITTI dritti. “Dritti”, cioè comodi, benvenuti quando vanno a proprio
vantaggio, “storti” invece se comportano sacrifici di alcun genere. Leggiamo:
«Dritti i propri diritti / storti i doveri / bene gli averi»; e poi: «Macigno
pesante / i diritti degli altri / s/convenienti / in/sopportabili / in/giusti /
deprimenti / da combattere / sconfiggere / annientare / annullare». Si potrebbe
anche dire i “diritti dei dritti”, invocati dai furbi secondo la convenienza del
momento.
Attraverso le “punte” dell’ironia e della presa di distanza
questa poesia dimostra una incrollabile fiducia nel valore oppositivo della
poesia («Non sai che ne ferisce più la penna / che la spada») o forse sarebbe
meglio dire nel suo valore terapeutico: indubbiamente terapeutica sul lato
dell’autrice che si libera in versi di molti “sassolini nella scarpa”, ma anche
sul lato del lettore che potrebbe scoprire, facendo danzare il pensiero al ritmo
della versificazione che “forse” (un avverbio che, come espressione del salutare
dubbio metodico, diventa fondamentale nella raccolta, tanto da essere posto a
intitolare una intera sezione) si può provare a sganciare alcuni lacci che lo
stringono.
Non a caso il libro si chiude con un testo dal titolo ben
sillabato di S/con/nes/sio/ne. Qui Gemma Forti tocca un nodo decisivo,
vale a dire l’enigma della comunicazione attuale. Comunichiamo
continuamente, siamo connessi con tutto il mondo, ma siamo sicuri di essere
noi i soggetti e non invece i gangli di una rete dove passa soltanto il
messaggio della merce? Il testo suggerisce più di un interrogativo: ciascuno
operoso sul suo “connettore” non è più in grado di guardarsi attorno, la
comunicazione diffusa e ininterrotta corrisponde alla massima
«incomunicabilità», il mondo «virtuale» cancella pericolosamente il «reale», per
cui la tanto vantata «connessione» si rovescia nel suo contrario. È un punto
importante, non solo perché allora sconnettersi diventerebbe un
imperativo necessario, e la poesia stessa dovrebbe presentarsi sconnessa
(il che diventa vero anche in un altro senso, nella varietà di lunghezza dei
versi). E su questo punto si misura l’importanza del veicolo-libro: la poesia
stampata su carta è fatta per essere aperta, richiusa, meditata, riaperta;
quindi non ha poteri inglobanti ed ipnotici, consente al suo fruitore una
salutare distanza relativa. La scommessa della poesia – di questa poesia, perché
quella dei dilettanteschi «libretti / stampati a casaccio» non sa nemmeno che
cosa sia una scommessa – la scommessa, dico, sta nell’usare il suo veicolo
cartaceo, per quanto antiquato possa sembrare, per instillare la “puntura”
critica di una comunicazione di senso opposto.
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Recensione |
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