Saggistica. La
figura di Peter Russell (1921-2003) potrebbe idealmente collegarsi e formare un
triangolo con Thomas S. Eliot ed Ezra Pound, quest’ultimo indubbiamente suo
‘maestro’ anche per le affinità stilistiche. In genere Russell viene considerato
l’ultimo dei grandi classici moderni, sia per il rigore del verso che per la
vicinanza a un mondo antico che trova, tra l’altro, capisaldi come Dante o
Goethe, tanto per fare due nomi.
Ma l’essenza poetica, diciamo la sua veste
esteriore, è il ritmo: occorrerebbe quindi leggere i testi di Russell nella
lingua originaria in considerazione anche delle diversità metriche tra inglese e
italiano. Dovremo, per forza di cose, accennare solo ad alcuni punti del
ponderoso e importante volume, che si può dire è stato realizzato con amorosa
cura da Wilma Minotti Cerini. La poetica di Russell, avendo parte non
trascurabile ispirata a concetti ideali, va quindi assimilata e compresa in una
dimensione personale, in cui sovente la solennità del tema tende ad espandersi
non soltanto nell’immagine, ma anche nel significato che la parola acquista
caricandosi di numerose esperienze, in modo specifico letterarie.
Dobbiamo
osservare in prospettiva tutta la poesia del novecento per poter fissare
criticamente l’opera di Russell al di là di ogni visione restrittiva. Una poesia
di questo tipo si affida certamente al canto, verrebbe da dire ai
Cantos, nella sua accezione più vasta. Per definire un poeta a volte sono
sufficienti alcuni passi o versi che lo identificano, senza per questo voler
operare delle distinzioni che alla fine diventano etichette, ma certamente in
Russell l’inventiva è in primo piano, cui fanno seguito la percezione di una
realtà spirituale e la concretezza di una società che va in tutt’altra
direzione: di fatto, in termini economici, la poesia non rende e poco si
vende; forse è un bene che sia così, là dove entra il denaro si rischia di
perdere la purezza.
Che la poesia di Russell sia pura lo si nota in
Prometeo: “La mia mano di lemure ha imparato ad afferrare | L’uva radiosa e
il pesce balzante” (vv. 1-2); che dire di questa stupenda intuizione di uva
radiosa? E più avanti (v. 5): “ Grandi emisferi crebbero nella Notte”; la
splendida grandezza, non solo cosmica, del verso si commenta da sola: una
prospettiva che trapassa, per dirla con Melville, le meschine memorie della
nostra quotidianità. Tuttavia anche Russell ha dovuto fare i conti con la sua
fisicità. Nelle ultime composizioni, quando ormai la fine è prossima, la
fisicità entra in maniera quasi dirompente: “Amore, fama, successo, tutto,
tutto, s’avvia alla fine” oppure “Non sono più che una vuota conchiglia”;
quindi, malgrado le condizioni di salute, rimane l’inesausta capacità di creare.
Qui vengono citati alcuni musicisti, tra cui Stockhausen e Britten, a
quest’ultimo assai vicino è il nostro poeta, ma in un raffronto si potrebbe
ipotizzare Mahler, per la sua estensione; e, comunque, lo stile di
Russell appare spesso onnicomprensivo. La conclusione critica viene dalla
curatrice il cui merito va riconosciuto per l’impegno e la capacità di
organizzare una summa come questa. Noi vorremmo sintetizzare, pur
conoscendone la difficoltà, la figura di Peter Russell con due suoi versi, che
evidenziano il dissidio tra materia e spirito, fra le strutture della società e
l’anelito alla trascendenza: “Ho scelto la solitudine intellettuale, | Un
silenzioso rifugio dalle oscure risa del mondo”.