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Indie occidentali
L’empatia tra lo scrittore e il proprio mondo scritto è il primo rilievo esemplare di Indie occidentali (Campanotto, 2008) di Giancarlo Micheli. Scrivendo, Micheli abita il mondo che scrive, lo abita perché al romanzesco affida un compito esemplare, rivelare la realtà attraverso la sua agnizione. Riconoscere la realtà, in Indie occidentali è riconoscere il destino di Aurelio ed Erminia, emigranti italiani tra New York, Chicago e Paterson, creaturalità sospese tra due dimensioni: lo struggle for life e lo struggle for revolution. Empatia e agnizione, dunque. E lingua. Micheli è anzitutto un grande scrittore, è un narratore di “prima”, un cesellatore d’incanti linguistici. A rigore, la lingua del narratore stacca verso l’alto del sublimis, la lingua dei personaggi riflette una polifonia propria al basso del piscatorius. Micheli parla la lingua dello scrittore culto, il personaggio, un’altra lingua, la lingua della sua cultura. Non è un caso, è uno studio, è l’onestà. Verrebbe da scrivere, la bellezza interiore di ciò che nel romanzo più immane: lo stile.
Se Venanzio abita l’ideale fondo dell’inferno, un inferno cui Micheli dà forma di contenuto, Indie occidentali è una spirale, un Maëlstrom per l’appunto rincamminato dal narratore, spira dopo spira, alla ricerca dell’alto. È un romanzo d’inabissamento e riaffioramento: Venanzio, certo, ma anche i protagonisti, Aurelio ed Erminia, il Sor Clemente, la sociologa marxiana Sophonisba, il fidanzato economista Jack. Un romanzo dell’interclasse, un romanzo–universo, un romanzo epigono, epigono – lo si può dire brutalmente – della grande tradizione russa: Dostoevskij, soprattutto Čechov. D’apocalisse in apocalisse (l’incendio del bar di Aurelio), di speranza in fuga, l’abbandono di New York è anche la cancellazione tragica dell’american dream, di quel che Baudrillard figurava come la città di chi pensa solo, canta solo, mangia solo, parla solo. È l’America d’America. Dimenticare New York a Chicago. Un segno della svolta tragica in Aurelio ed Erminia è il coatto regresso di classe, lo sprofondamento destinale: dalla middle class newyorkese alla caduta, la vita proletaria, la via all’epopea del ricominciamento. Per Aurelio ed Erminia è perdere il primato per lo scacco, per il narratore è accendere il fuoco del politico. Nasce la fedeltà all’inerme. Tra il tragico creaturale e il politico narratoriale, Indie occidentali svetta. Il romanzo è develato, appare come pretesto a sé: Lo stato delle cose adesso sussistenti è la virtualizzazione della società, un dilagare panico di moventi individuali tanto artificiosi quanto efficaci, impersonali e disanimati; è il dominio dell’inesistente corroborato nei fatti della vita fino alla verità assoluta ed ubiqua del codice di tutte le disciplinate liturgie, politiche, economiche, esistenziali, psichiche, religiose, relativistiche ciascuna imposta dal consenso di illusori adepti. Questa pur sintetica digressione serva a chiarire il senso della ricerca nel passato attraverso la presente narrazione. Il romanzo è alla confessione. Anche l’autore di Indie occidentali. Il passato è pretesto (predestinazione), cardine al presente. È fonte di comprensione culturale. L’odissea di Aurelio ed Erminia culmina nelle lotte sindacali a Paterson (Aurelio è operaio e lotta contro il padrone Catholina). Quando lo struggle for life non può che essere struggle for revolution, lì rivela l’impensabile. Il presente storico, il regno del dominio capitale, è solo una pallida corruzione dell’epopea sacrificale dei nostri padri. Indie occidentali diviene. O si rivela quale documento di una traslata autobiografia dell’interiore, la testimonianza del segreto dolore per un mondo, questo umanissimo del romanzo, in cui Micheli sublima con accanita passione un destino mai venuto a noi. Una promessa (forse) mancata, se poi Eugenia, la figlia di Aurelio ed Ermina, è l’ala futura che non tradisce il passato. Anzi recupera in simbolo (la costruzione di un teatro: la rivoluzione di Erminia e Aurelio sarà allegorizzata al Madison Square Garden) proprio la grande lezione del padre e della madre. Erba d'Arno, 130/1 (autunno 2012-inverno 2013) |
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