| |
La poesia di Ruffilli ha il celeste privilegio di
muoversi simultaneamente nel microcosmo delle quotidiane vicende degli uomini,
delle loro fin troppo visibili miserie e nel macrocosmo delle grandi, invisibili
leggi che governano l’infinità dell’universo. Il mistero di questa felice
ubiquità si esplicita attraverso una sorta di assenza della parola o, meglio,
attraverso una parola scarna e sfibrata che rimanda, anche attraverso la magia
della sua sottile e disarticolata musicalità, alla essenzialità del vuoto, alla
necessità semantica del non-essere. In poesia può avvenire ciò che la logica
costituzionalmente nega: la sincronica identità dei contrari. “Le parole vere
suonano al contrario” suggerisce un’antichissima massima del Tao. E
Ruffilli tiene in gran conto La Regola Celeste, quell’antica ricerca
filosofica orientale che ha postulato la necessità e la concreta contemporaneità
dell’Essere e del Non-Essere, in una prospettiva unitaria e dinamica delle
realtà visibili ed invisibili in gran parte sconosciuta in Occidente. Ne deriva
per il singolo individuo la possibilità di una partecipazione a tutti gli
accadimenti umani caratterizzata da un distacco al tempo stesso non
imperturbabile e non eccessivamente commosso. Una distanza frapposta tra il sé e
il mondo non tanto per meglio comprendere e penetrare l’esterno, quanto
per riservarsi la possibilità di tendere alla maggior conoscenza possibile di sé.”Senza
uscire dalla porta | si conosce il mondo. | Senza affacciarsi alla
finestra | si vede la Via del cielo. | Più lontano si va e meno si sa. | Perciò
l’uomo saggio | conosce senza viaggiare, | comprende senza guardare | e agisce
senza fare.” (Cap. 47 de Il Libro del Tao)
E’ dentro questa
concezione filosofica, teorica e pratica a un tempo, che la poesia di Ruffilli
sboccia spontaneamente alla visibilità dell’essere. Le scelte metriche
sembrano assecondare convenientemente questa vocazione misteriosamente binaria e
unitaria della poesia: il verso breve, talvolta persino disillabo, si snoda come
una immaginaria sequenza nucleica – si può pensare alla catena del DNA – che ci
fornisce informazioni genetiche sul dicibile e sull’ineffabile. Le parole
isolate, che Ruffilli ama immaginare come “oggetti vaganti”, sonori e
filamentosi che rimandano incessantemente, per l’accavallarsi di echi musicali e
semantici, ad una “realtà di lontananza” testimoniano di una contraddizione a un
tempo umana e celeste, intima, personale ed universale. Una contraddizione
naturale che attraverso la musicale levità del pensiero poetante può
ricomporsi in una naturale unità. La sostanziale gratuità – e quindi
grazia – dell’esistere, dell’esserci e del non-esserci, impone la scelta
della leggerezza, di una sapiente, ironica vacuità. “Io sottoscrivo – ha detto
Ruffilli – l’elogio necessario della frivolezza, che è sempre stata la virtù
degli ingegni”. Di qui anche le sue preferenze estetiche e le sue ascendenze
letterarie. Se la tradizione orientale non ha mai separato poesia, filosofia e
musica qualcosa di simile è accaduto anche in Occidente. Il libretto d’opera
infatti può essere visto come “la soluzione dei contrasti intorno ai generi
perché, per esigenze di copione, l’opera dev’essere insieme una commedia, una
serie di dialoghi, una successione di descrizioni, una successione di affondi
lirici e di parti cantabili che devono suscitare una serie di riscontri
emozionali, devono realizzare degli echi più sotterranei”. Un’ariosa cantabilità
mozartiana o rossiniana che per liberarsi deve però essere scesa nel ventre
della terra a captare gli echi più sotterranei. Una dolorosa discesa agli
inferi speculare alla trasparente, gioiosa vitalità dei versi. E’ esattamente
quello che accade in quest’ultimo libro di Ruffilli Le stanze del cielo,
già nel titolo uno e binario, oscuro e luminoso, dolente e felice.
E’ stato già
detto che la poesia di Ruffilli avrebbe i caratteri della narrazione, una sorta
di asciutto “romanzo familiare” come scrisse Raboni per Camera oscura e
come ci ricorda Alfredo Giuliani nella sua prefazione a Le stanze del cielo.
Sarei tentato di dire che si tratta di narrazioni senza fatti perché la
materialità della storia si fa tutta processo interiore e, contemporaneamente,
l’intelligenza, l’energia spirituale, si materializza nel suono significante
della parola. I fatti di Le stanze del cielo sono quelli dolorosi e
disperanti dell’universo carcerario: Grate e cancelli da ogni | parte,
intorno, tetri cortili | dalle altissime mura. E già si sente che queste
mura altissime sono divenute barriere dell’anima. Eppure le parole della
tradizione giudaico-cristiana – perdono, salvezza, redenzione, speranza ecc. –
non sono pronunciate. Infatti è solo la coscienza minuziosa di se stessi
e del mondo a muovere e guidare | i passi ignoti. Vita tagliata,
la lirica che apre l’ultima sezione del libro che porta il titolo La sete, il
desiderio è una sorta di altissimo testamento spirituale nella lacerante
affermazione della corrispondenza del sé con il mondo: Il mondo ed io, |
corrispondenze esatte: | pietra senza labbro | e labbra senza verbo, | per
quanto inseguo | e cerco. Certo l’immagine del taglio – ho guardato in
faccia, | tagliata, la mia vita – sembra contraddire la metafora per
eccellenza proposta dal Taoismo per significare l’eterno fluire della vita
universale ed individuale: l’acqua, che non può essere tagliata e nella
quale “si ritrova un modello di quella imparzialità che costituisce la bontà
superiore, cioè quella forza che non si sforza e che consente a ogni essere
di seguire per intero la propria natura”.
| |
 |
Recensione |
|