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“Scriver poesie nell’assedio in
cui siamo invischiati vuol dire caparbietà di non soccombere agli sfaceli, di
sopravvivere”. La protesta di Ripellino (in margine ad Autunnale barocco)
sembra idealmente precedere, epica epocale epigrafe, il libro da Lucio Zinna
adibito a consuntivo di un quarantennio di versi che configurano insieme il modo
e l’approdo (forse anche il rovescio, il negativo): il verso di un
vivere. “Trasmutando ogni luogo in trincea”, l’Autore ha dettato negli anni,
diresti per legittima difesa, i paragrafi di un manuale di sopravvivenza, ‘versi
di sicurezza’ opposti ai disastri di fine millennio.
“Carico come un’arma, lo
sguardo dell’altro è già un delitto. Così l’individuo percorre le strade della
città mondiale”. Nel villaggio unico sterminato, dove Sgalambro vede aggirarsi
come fantasmi gli orfani del sole e Zinna sente “anche di giorno”, le “campane
del coprifuoco”, non rimane che allestire sacchetti e reticolati, ungere i
revolver dello spirito, perscrutando l’arrivo del “prossimo tuo”. Questa
condizione di accerchiato, cui sembra sospingerlo il nome (nel divertimento
araldico di Il leone e il giglio si mostra da un “merlo di muraglia”),
Zinna la esercita tra le schiere dei reattivi piuttosto che dei contemplativi
(“a volte stringo i denti urlo se capita”); particolarmente abile nel rimandare
al nemico (la parola è “vena musica fionda”) le sue pietre: nell’imprimere (col
gesto economico del freddurista insigne, del principe di paradossi) alla “lingua
morta e conciata” del nonsenso comune, del ‘già detto’, l’impulso che ne
inverte la direzione, sparandola come un proiettile contro la sua stessa
inerzia.
Una tale parabola seguono
le “sudaticce carte” sacrificate a un “confetto-camicia” di bellezza, il “mal di
male” che affligge i mesti argonauti dei giorni, i “campi di deconcentrazione”
per “tossicopoesiomani” e “liricodipendenti”, e tutte le gags omicide e i
razzi verbali esplosi, in una eterna notte di Santa Rosalia, dalle ceneri
dell’Ovvio.
Del resto “un tendone da
circo”, “un nasino a palla un violino scordato un parrucchino | tiziano” sono
invocati (e siamo sempre in contee ripelliniane: la “buffoneria del dolore”) a
proteggere e svelenire l’amaro del Controcanto: “recito controvento
controcampo controgloria. | Ridopagliaccio e infarino (a volte m’incavolo
| e
dice Elide mi si potenzia l’ironia)”.
Ma l’invettiva e il
sarcasmo riservati agli “irreversibili”, ai “paraplegici dell’anima” e a ogni
connessa bruttura non esauriscono la strategia difensiva di Zinna, poeta non
monocorde, il quale, abbandonati elmi e balestre, ha conforto e ricovero in un
suo remoto feudo d’affetti, di vive memorie. Quel “modo forte di essere
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deboli”, “la sapienza di come sia fragile e gagliardo | il nostro regno in
quest’era non nostra”, introducono i commi di una legislazione ‘in tempo di
pace’, tregua al delirio affidata di volta in volta alla “religiosa frescura
della ricotta cagliata” dei pastori di Sagana, alle “lezioni” di fair play
offerte dall’aristocratico gatto Raffaele, all’“innocente ordine cosmico”
statuito da Massimiliano bambino, alle insondabili complicità (“la nostra −
antica − consonanza”) di una vita condivisa. Un desiderio di futuro
informato di nostalgia (“un lontano vivido ricordo da coltivare ancora”) e
di fuga dalla gran Troia in fiamme (meglio se in grembo al “convoglio
fragile di latta un gioco appena | per invecchiati infanti” che attraversa in un lucido sogno i gioghi
della Maiella) confluisce infine −
fermando le coordinate di un territorio indenne, di uno spazio-tempo ‘non
giurisdizionale’ −
nell’infinito delta del rimpianto e dell’oblio, con le immagini dei cari volti
scomparsi, i “giulebbosi” frantumi dell’infanzia, l’aroma di una “assurda
arcaica assai lontana sera”, i versi “che non verranno più uccelli | di passa
migreranno in plaghe sconosciute”.
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Recensione |
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