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Le stanze del cielo

Devo forse avvertire che parlando di questo libro non potrò fare a meno di coinvolgere nel discorso tutta una sfera di reazioni personalmente affettive che di solito l’operazione critica dovrebbe trascendere. La materia è talmente impressionante nella sua tragica capitale verità che l’approccio al testo, almeno per quanto mi riguarda, polarizza l’attenzione sui significati umani lasciando al secondo posto le puntualizzazioni letterarie, i possibili riscontri con altri testi e altri autori, ai quali potrebbe essere abbastanza ovvio, anche se, tutto sommato, di importanza marginale, il riferimento. Ma se un autore suscita un tale coinvolgimento non inventando situazioni imprevedibili ma portando in piena luce la potenzialità mostruosamente tragica di situazioni reali che possono riguardare tutti noi, vuol dire che il segreto è nel modo inedito di svelarci queste verità, nella forza verbale e fantastico-evocativa della sua poesia. Un impatto di tal genere lo ricordo solo in rapporto a un altro libro di poesia di cui mi sono occupata anni fa, Il palazzo del grande tritacarne, di Veniero Scarselli, che, in termini più surreali e al tempo stesso espressionistici, presentava con eccezionale incisività l’inferno dell’ospedale.

Ho detto: “possono riguardare tutti noi”. Ed ecco venirmi incontro, nella premessa, il mio caro Cechov, che dice proprio questo e presenta il caso di un coinvolgimento dell’individuo libero che incontra dei detenuti. A Ivan Dmitric “parve a un tratto che anche lui allo stesso modo avrebbe potuto essere messo in catene”. Nel mio caso il coinvolgimento, o piuttosto il timore di un possibile coinvolgimento, si è fatto sentire dapprima non tanto nell’immaginare me stessa carcerata, ma nello sconcerto alle prime parole che sono poi le parole del superficiale e rozzo uomo comune che appartiene alla categoria delle cosiddette persone per bene. “Si fa il possibile | per questa gente” | “per farla stare meglio: | da bere e da mangiare | più che sufficiente, | e sonno quanto basta, le loro messe, i libri, | ore di svago e di riposo”. No, no, rispondo subito, questo non mi riguarda. Anzi la condizione dei carcerati mi è sempre sembrata terribile e vorrei appoggiare i Radicali nelle loro appassionate campagne contro i gravi abusi, anche da parte del potere pubblico, nei confronti dei carcerati. Avevo fatto, a suo tempo, ricerche per contestare l’ergastolo e, in seconda istanza, l’isolamento diurno. Eppure io stessa mi trovo talvolta a dire, in coro con la schiera dei “benpensanti”: “ci vorrebbe la sicurezza della pena” (anche se la parola “pena” mi piace poco). Questo avviene specialmente di fronte a certi delitti che fanno pensare non a un raptus o a un’occasionale perdita di controllo ma a un deliberato e disumano abuso del potere dei forti contro i deboli. “Ma chi sono i forti?” mi domando quando riesco a guardare l’uomo dalla stratosfera e mi sembra così poco libero di scelte indipendenti dal suo modo di essere. Devo confessare che, a un livello di consapevolezza inferiore, anche di fronte a episodi di vandalismo o di bullismo, crimini oggettivamente molto meno gravi e forse anche più spiegabili con cause indotte, mi scatta immediatamente una voglia addirittura di eliminazione, più che di punizione, che mi fa desiderare per un momento di togliere di mezzo i soggetti incriminati con una carcerazione permanente. In quel momento non penso neppure un po’ a quello che significa essere carcerati. É proprio vero quello che ci sentiamo ripetere nel libro, noi, quelli di fuori. Che tra il “dentro” e il “fuori c’è una insormontabile barriera: “è un altro il nostro | differente stato | inerte e doloroso”; “questo è l’inferno | e solo chi sta dentro | può capirlo”.

Subito dopo, però, la lettura mi ha veramente portata in una cella, o, meglio, “gabbia”, con la viva impressione, o illusione forse, di accostarmi insolitamente a quella claustrofobica situazione della quale non poteva tuttavia arrivarmi, se non per approssimativa immaginazione, il più disumano connotato: l’uscita dal tempo, la durata sentita come illimitata. Il lettore può evadere appena chiude il libro.

Ognuno di noi lettori, immaginandosi come può in questo inferno, sente vibrare particolarmente le sue corde più sensibili, E tra le mie corde interiori una delle più vibranti è quella dei diritti dell’io privato, unico e inconfondibile, La spersonalizzazione è la condanna più dura ai miei occhi (o almeno tale mi pare nella dimensione immaginaria). Di essa il primo duro segno è l’ambiente. “Letti affiancati | letti sovrapposti | uno sull’altro | accatastati senza distacco e senza pausa | privati del privato | espropriati”. “Grate e cancelli da ogni | parte, intorno, [l’enjembement in questo caso cinge e chiude], tetri cortili | dalle altissime mura. | Ovunque regna [qui “regna connota un forte imperio”] | un ordine di cose... | spazzato e ripulito | eppure in abbandono, | insieme ligio e duro” (due segni di disumanità). Si tratta, nel caso in questione, di una vecchia fortezza, un castello già sede di poteri e di trionfi regali”: una prima uscita dal tempo, se non dal luogo, per denunciare la storia e la società umana. Dall’altra parte la casa perduta e sognata. L’unica fuga dell’io nella sua casa si ha talvolta “nelle ore della notte” in un buio propizio al sogno e alla memoria. (ero impaziente di arrivare a questa poesia). “Esco solo così | a incontrare gli ex amici | che nel caffè | giocano a carte, | e vado poi a vedere | mia madre | che rimette a posto la cucina | e fa mangiare il gatto. | E ogni volta, | rientrato in sogno | a casa mia, | è peggio | per tornare via.”. Basta così poco all’uomo per sentirsi persona! (mi torna in mente, con una pertinenza certamente solo soggettiva, il vano tentativo notturno di Peter Pan di tornare in volo alla sua casa).

“Centinaia di maschi | di ogni età ,| come un gregge | rinchiuso nel recinto | ciascuno circondato | dalla privazione | della propria libertà” (della libertà di essere se stessi). Anche per “la passeggiata | d’aria regolarmente: | pochi per volta | in marcia collettiva | di mezz’ora”. La “persona” è cancellata anche dalla sua riduzione a un’azione: “E una sola azione | non corrisponde all’uomo | non può rappresentarlo | né tanto meno cancellarlo”.

Ho concesso finora un’eccessiva “passeggiata d’aria” al mio io affettivo e anche, lo confesso, un po’ intimista. Ma tendo ad approfittare di ogni incontro con l’alterità anzitutto per conoscermi meglio. Occupiamoci un po’ dell’autore. Per domandarci anzitutto a chi affida la parola per dire di un inferno che “solo chi sta dentro può capire. Il cosiddetto “locutore” è un carcerato. Pochi sono i dati biografici che permettono di distinguere la sua condizione di escluso dalla vita da quella degli altri. Anche il sogno intimista che ho subito voluto citare ha solo qualche tratto più personale che, come altri dettagli del genere concilia la concretezza e l’evidenza anche icastica con il valore di emblema. É tuttavia innegabile la presenza dell’autore con la sua viva ed evoluta coscienza delle cose e con la sua capacità di dirle poeticamente. Forse anche per lui la perdita della dignità di persona è il male maggiore. (Anche una poesia del genere non si sottrae del tutto alle leggi della lirica, dirò un po’ provocatoriamente). Non sono sicura che i pensieri e addirittura i sentimenti qui espressi potrebbero valere per certi criminali che ci sembrano vicini allo stato bestiale. Non mi riferisco solo alla capacità di dirli ma a quella di provarli. Del resto il protagonista stesso la “prima notte” prende le distanze, forse come pura reazione istintiva, dai suoi compagni di cella: “Insieme a ladri | e protettori, | la puzza e il sudiciume, | la degradazione più brutale, | come avessi sbattuto contro il muro”. Ma non dovremmo in realtà, lui e io, perché il nostro messaggio fosse più universale, cercare di comprendere anche le creature più degradate? E tra i mali di questo inferno gravemente incide la solitudine e anzitutto la solitudine dell’incomprensione. L’io per sussistere ha bisogno sia di solitudine – ma volontaria e temporanea – sia di relazione, di “corrispondenza di sensi” forse non sempre necessariamente amorosi ma vivi e attivi.

Soli “La quantità di sentimenti | in fuga contrastante: | ogni impulso arreso | e trascinato via da un altro | più forte e oscuro | e più angosciante... | l’orrido male lancinante | di stare soli e nudi | con se stessi. | Siamo un fastidio | insopportabile a chiunque, | perfino ai nostri cari | che si vergognano di noi | e che si sentono traditi:.| offesi e defraudati”. Intorno, a contatto diretto continuo “Il rude tono | delle guardie o, peggio, | la loro confidenza | piena di sarcasmo... [...]Quasi un odio di classe... | come se manifestare | affetto e comprensione | fosse un’infrazione | e pronti a soffocare | nell’effetto del soggiorno | tutti i sentimenti | per non dare affatto | neanche il motivo | di un sospetto intorno”. Succubi, dunque, e guastati dalla funzione, anche questi strumenti dell’Istituzione (gli insoliti puntini di sospensione fanno pensare a una sosta quasi per cercare l’uomo che si nasconde dietro la funzione). disumanizzati dalla burocrazia anche tutti i subalterni, “insieme agli altri il prete,” E “l’abbaglio di potenza” che dovrebbe “consolare” questi “impiegati” (Impiegati è il titolo della poesia) è un una ulteriore nota di squallore nelle loro “vite buie”. Accostati poco dopo a questa immagine i “”cupi destini” dei detenuti spiccano per una connotazione di tragica dignità. È una sorta di orgoglio che anticipa il finale a sorpresa della sezione eponima Le stanze del cielo che, col titolo Autonomia darà una risposta sdegnosamente fiera alle solite banalità di quelli “fuori”. Una specie di sviluppo ciclico? (Forse bisognerebbe far più attenzione alla struttura di questo testo, alle ragioni della composizione delle singole poesie). Ma su questa conclusione torneremo anche per cercare l’aggancio con la sezione successiva dove sembra mantenersi quell’innalzamento del tono che ci pare di cogliere in questo finale
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