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Senz'alfabeto

Per i tipi di Polistampa è uscito recentemente un libro di poesia originale, intitolato Senz’alfabeto. L’autrice, Anna Maria Guidi è stata responsabile del Dipartimento di Scienze Neurologiche dell’Ateneo fiorentino ed ha collaborato con scienziati di valore internazionale in numerosi testi di neuropsicofisiologia. Ma è anche poeta e prende parte attiva a numerose attività culturali della nostra città. Fra le sue opere letterarie si ricordano: Esercizi (1998, poesia, a cura di G. Luti), Incontri (2000, poesia, a cura di C. Mezzasalma), Tenacia d’ombra (2002, poesia, a cura di G. Panella), Certezze (2002, poesia, a cura di C. Mazzanti), In transito (2005, poesia, a cura di G. Luti, presentata nel dicembre presso il “Gabinetto scientifico letterario Vieusseux” a Palazza Strozzi da G. Luti e G. Manghetti). Da segnalare, poi, per l’intersecarsi della prospettiva letteraria con quella scientifica, il lungo saggio su Sandro Penna, La carità erotica nell'edonismo geoestetico della poesia di Sandro Penna: un approccio psicocritico (2010, con prefazione di Lia Bronzi). Si può dire subito che si è assistito, nel corso degli anni – dai primi Esercizi del 1998 alle recenti prove poetiche del 2013 - ad una crescita esponenziale del tasso letterario, tanto da farci affermare senza paura di sbagliare che la scrittrice è giunta, per il momento, con Senz’alfabeto, al libro di poesia più interessante e riuscito. Giuseppe Panella, nella illuminante introduzione, parla anche lui di “traguardo” e nota come questi versi fatti “di corpi e di movenze fisiche”, come queste poesie corporali raggiungano esiti notevoli negli innesti linguistici, nelle fratture di senso e suono, che sembrano nascere da una vera e propria crisi del linguaggio poetico. Si ha davanti una lingua poetica in fermentazione. Il suono si carica di significati impliciti molteplici e spesso contraddittori. L’obiettivo finale consiste forse nell’esibizione di un’ambiguità semantica irriducibile proliferante da un gioco quasi automatico di sinapsi neuronali. Da qui l’allusione alla presenza-assenza di “un regista”. Eppure, si può aggiungere, come ha dimostrato efficacemente Diego Salvadori in un attento studio dell’opera, che questo traguardo è raggiunto paradossalmente attraverso un continuo e latente rimando al libro invisibile della letteratura di tutti i tempi, attraverso soprattutto un intarsio di citazioni dannunziane e caproniane (strano miscuglio).

L’autrice scrive per entrare nel corpo sensuale della Natura, la cattura coi tralci prensili dei sensi, per farsi poi lei stessa corpuscolo naturale tutto-sensi e gioie e dolori - ne rintraccia i semi di bellezza che resistono in mezzo allo scempio della tecnologia, ne ascolta i palpiti segreti, alla ricerca di un’armonia cosmica consolatrice. Si nutre di sdegno e di stupore, a fasi alterne. Ma la natura è per lei anche ferocia e indifferenza, è luogo di metamorfosi e repentini cambiamenti. La fenomenologia dell’estate, con le sue arsure, le sua afe, i “compulsivi mantra di cicale”, i tafani, le zanzare, non cancella però, o almeno non del tutto, il tam tam irresistibile della bellezza. Una bellezza che commuove perché resiste dentro le rovine del mondo.

Questo libro di poesia è una minuta e accanita costruzione, che invita il lettore/ascoltatore a fare attenzione piuttosto ai materiali di costruzione che non alla cattedrale poetica finale (fatta di sezioni, di rimandi interni, di riprese). Voglio dire che qui il protagonista indiscusso è il linguaggio, inteso come materia, ma anche come meta finale del testo (pura onda sonora, al di là del contenuto implicito, magmatico, sfuggente che veicola al suo interno). Al centro di tutto è lo straripamento del linguaggio, la sua contorsione, il suo debordare, la sua deriva. L’atmosfera è apocalittica. La scrittura è mossa da un eros’amore, ovvero da un eros sganciato da ogni vena sentimentale. L’eros pervade quasi ogni strofa, diventa il motore della vita, si rivela come la pedina necessaria dell’evoluzione, ma anche porta con sé, come uno strascico, il desiderio tutto umano di eternità, e di smemoratezza, un eros celebrato e liquidato luttuosamente in un verso dall’ “orgasmica litania della civetta”.

Poesia, dunque, come rito del linguaggio per il linguaggio: dal Verbo dell’origine “ alle “vane valanghe di parole”. Nel quadro di un pessimismo apocalittico si sente scaturire il suono vergine di una lingua nuova e seminventata, impastata di neologismi, di “devastazioni lessicali” (Panella), una lingua appunto senz’alfabeto: “radiose assumo / particole d’aurora / in lieviti di cielo delibando / sempre fresca la fame / del pane dell’esistere: // assolta le parole / a corpo libero assumo la vertigine / della nientitudine plenaria / che illimine crepuscola e inalbica / nell’imprimizio ver(s)o / che in tace il sogno dice / senz’alfabeto”.

“Un testo proteiforme” – scrive Salvadori – che rinuncia ad ogni possibilità di gerarchizzare la realtà e tanto meno le parole, mimando la sgrammaticata grammatica del caos. “Un poetare a pioggia” – commenta ancora Salvadori – quasi la resa del soggetto estatico a una musica andata in mille pezzi, ma i cui frammenti sono iridescenti come certe vetrate di Notre-Dame.

Qual è il movimento alla base di questa musica? E’ quello di un ritorno, una prepotente tensione regressiva verso l’origine, verso un prelinguaggio, là “dove il silenzio parla”, dove il “bi/sogno” viene mutilato e si converte in sogno, in un miscuglio indistricabile di FIELEMIELE. Si tenta di invertire il moto progressivo del tempo, anche attraverso l’inversione dei suoni, per cui il MARE diventa RAME , così come il FIATO diventa FIUTO. In questo affascinante pandemonio sonoro si staglia, qua e là, il tema cardine della raccolta, vale a dire il motivo “patetico” e melodrammatico dell’ “amnios”: un desiderio di reinfetamento nelle acque fertili del pianto e della com-passione, fuori dal campo del fuoco distruttore di un individualismo narcisistico ridotto a estrema solitudine. Si accampa, nelle ultime pagine, l’immagine dell’ “amniotico naviglio” che a fatica procede nel viaggio attraverso “la fossile marea / dei giorni navigati”. Poetando, ritornare bambina ( “di parole mi spiumo e non rispondo”), un annidarsi quieto “nell’amplesso incarnale del mondo”. Totalità originaria e indistinta. Un cortocircuito di vita e morte. Un tornare semplice “nuda nel nido”, Ritrovarsi in quella antica, felice, “monella di merende” : “…./ e rientro alfine / nel ‘me’ primizio d’ingorda monella / di merende condite con l’olio dei sogni / che in pelle di passi senza piume / visceral-mente tra-saliva / l’iniziatica discesa nell’esistere”.

Qual è la nota dominante di questa musica vorticosa e franta? E’ la nostalgia, una nostalgia infantile per la lingua prelogica del tutto-corpo, come nella poesia più bella della raccolta, intitolata Fiocco senza nodo, che ha al centro due bambine unite nel gioco dalla “complice lingua dei sorrisi”. Merita citarla intera, in chiusura:

due bimbe
insieme al parco questa sera

una piccina picciò:
fata di paglia
due spilli gli occhi
turchini di nuova primavera

Più grande l’altra:
una colomba bruna
i ricci crespi e la bocca scoplita
in un goloso chicco di caffè

strette le mani
nel ludo d’un fiocco senza nodo
giulive s’intendono
nella complice lingua dei sorrisi

nel pallido calore d’un dolce temerario
fra le siepi di spine armate dall’inverno
due raggi mai soli
in uno stesso sole.

Recensione
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