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A ritroso
La poesia, o meglio, il
pensiero poetico di Danilo Mandolini è intriso del sentimento del dolore, che si
fa testo unico in questa selezione di testi "dai più recenti ai
più datati". È, questa raccolta, una nuova riflessione, un lavoro di
"re-visione" del poeta, il quale torna a ripiegarsi "con la mano" e "con
lo sguardo ed il gusto di oggi" sul proprio vissuto. E il gusto, qui, è il
frutto della maturità, l'amarezza di un pensiero, che non può fare a meno di
volgersi indietro e ritornare "bambino" e condurre con sé anche "il
corpo là dove il vento era più forte", perché forte era il soffio
della vita "tra le pareti di un sogno senza specchi" e cioè vero, reale.
In questo pensiero rammemorante trovano accoglienza il tempo felice
dell'infanzia rivissuto con nostalgia e il sentimento del dolore, gravato dal
pensiero della morte, e della morte del padre, in particolare: un dolore,
questo, persistente, mai assopito, così presente nella vita del nostro poeta da
lasciare pensare a una mancata elaborazione del lutto. In questa vasta
compresenza di versi e prose, già editi e qui di prima pubblicazione, il dolore
cessa di essere un tema "isolato" o "episodico", "diluito" nelle sue
manifestazioni nel corso dell'esistenza e diventa un pensiero dominante e
l'elemento unificatore dei vari testi, nonché, esso stesso, il testo per
eccellenza. Il risultato è questa sintesi: una visione di insieme, frutto
dello sguardo "a ritroso", la quale, per dirla in termini
heideggeriani, è un'analitica esistenziale, che, nel nostro poeta, è un
ripensare il dolore non solo come esperienza soggettiva, personale, ma come
condizione umana, ed è un'indagine sull'esistenza che lo sollecita alla ricerca
del senso dell'essere. E qui, l'unico approdo possibile è alla verità del dolore
che non ha fine e che è la vita stessa, la quale non trova il suo porto e
la sua pace nella morte. Perché la vita è "L'inizio che implode nella fine":
il ritorno alla morte, che è il suo principio e la fonte del dolore. Come
Leopardi, Mandolini dà alla vita la veste del dolore e alla morte il carattere
della necessità spogliandola della pura casualità. Se
"è funesto a chi nasce il dì natale", la morte, allora, non può che
essere desiderabile e deve essere possibile. Solo essa, infatti, può annientare
ogni male, liberarci dal dolore ed essere la "luce" che spegne il buio
della vita, e perciò nulla deve impedirci di morire (vv.7,8, pag.22). E come
potremmo, d'altra parte, sottrarci a questo evento, dal momento che nasciamo
alla morte e viviamo del nostro morire? Secondo la lezione di Heidegger e di
Eraclito, la morte, infatti, è il nostro destino, la possibilità che ci è più
propria, che ci è data col nostro essere. Vivere, dunque, è già morire, è
entrare nello spazio della morte. Abbiamo bisogno, tuttavia, "di una luce
illuminata", che fughi le nostre ombre, che attenui le nostre paure, le
nostre angosce, che ci riporti indietro sulle nostre tracce e ci restituisca,
col nostro tempo felice, il coraggio "di restare per vivere la morte"
(pag.27), ossia, la capacità di conquistare il suo spazio, di riappropriarci
della possibilità di morire riconoscendo nella morte la nostra natura
ontologica: quell'essere-per-la-morte che, per Heidegger, caratterizza il
nostro essere-nel-mondo. "A ritroso" è la ricerca di questa luce,
della quale il nostro poeta fa esperienza attraverso lo sguardo introspettivo
che gli consente di approdare, proprio attraverso la via del dolore, a quel
porto sepolto, di ungarettiana memoria, in cui è possibile trovare riposo o
riparo dopo i naufragi nel mare burrascoso dell'esistenza. Nel luogo più
profondo e riposto dell'anima, dove il tempo del sogno ha fatto il suo nido,
questa luce è la consapevolezza del destino dell'uomo:
di vivere (per) la morte, assunta come un valore da
pagare con le sofferenze che la vita c'impone ogni
momento. Perché "la morte si sconta vivendo". Perché essa
non è la fine della vita, ma il principio di una nuova.
Questo
pensiero sulla morte, nella riflessione heideggeriana culmina in un progetto
esistenziale che è ricerca di una vita autentica. E la ricerca di Mandolini
sembra guardare in questa direzione muovendo dall'esperienza del dolore che
pervade e invade l'umana esistenza. Nella scansione del "qui", il poeta
lamenta la doppia scomparsa degli uomini, che oltre a morire in piena solitudine
sono vacue presenze che dileguano dietro il muro della loro reciproca
indifferenza. Il loro essere-nel-mondo è segnato da questa precarietà,
aggravata dal mancato riconoscimento del valore della persona umana da parte
degli individui, che finiscono per ignorarsi. Qui, in questo luogo che è
il mondo e, dunque, l'Esser-ci, la presenza dell'uomo, la sua esistenza,
ha il fondamento nell'Essere, fuori dal quale non c'è vita autentica e la morte
è solo un "si muore" impersonale. "La storia già vissuta di ogni vita" è
un solco nella memoria di chi resta, un vago "sapore", cui si accompagna
"l'esperienza/levigata del nulla che compare" (pag.29). E tuttavia, è
possibile che nel vuoto lasciato dalla morte affiori un volto; che la vita degli
scomparsi torni a pulsare negli oggetti, che ne rivelano la presenza. È
questa una certezza per il nostro poeta, che ritiene gli oggetti custodi del
nostro essere, della nostra essenza spirituale di cui restano impregnati
e che essi manifestano. È possibile, dunque, che in questa rivelazione il
nulla arretri e lasci "gli uomini apparire" (28). Ed è la luce dell'essere
che appare in questa "sopravvivenza", in questa vita risvegliata
dagli oggetti. Così "la memoria si fa lampo" che apre dentro di
noi la nuova vista; si fa poesia del dolore riportandoci indietro nel tempo, che
"colando sfiora ogni presenza". Nella parola che si fa racconto, che si
fa canto, la morte acquista valore, cessa di essere anonima e ci stupisce
riconducendo la vita dentro il proprio orizzonte (pagg.30, 32). La poesia è
questa "vertigine pura e qui disumana" che ci consente di oltrepassare
l'uomo, di elevarlo e ricondurlo all'essere-per-la-morte, di contemplarne
il nuovo volto al di là della "folla" che "persiste oltre lo sguardo"
e di "costruire lontano dentro il frastuono/l'occhio segreto del mondo di
tutti" (38), ossia, quello Sguardo universale che è, o accoglie in
sé, lo spazio interiore del mondo. In quest'apertura dell'essere, in
questo mare dell'interiorità, che il poeta riesce a immaginare, non
avviene, come in Leopardi, il "dolce naufragio" dell'io, perché questo "evento"
è sempre differito dal continuo alternarsi di buio e di luce; da un pensiero
oscillante tra la vita e la morte; soprattutto dal dolore, che persiste, che
irrompe senza concedere pause, "che taglia nella notte il nostro sonno"
riportando, vuotando nella nostra anima, nella nostra coscienza, tutto il suo
carico, "il peso dell'istante" in cui è accaduto e che lo contiene e dura
tutta la vita (56).
"A ritroso"
non è soltanto un andare alla ricerca del tempo perduto, una fuga dal tempo
reale, un sottrarsi all'esistenza attraversata dal dolore, ma è anche e
soprattutto un com-prendere il presente attraverso il passato, per andare
avanti, per vivere nella pienezza dell'esperienza che, in questo caso, è il
sentimento del dolore che può illuminare il cammino; che può dare al poeta la
speranza di una vita migliore impedendogli di rifugiarsi nel passato. Perché "ricordare
è dissipare l'esistenza", è rinunciare a vivere...è "perdere" il
tempo desiderando di ritrovarlo. A differenza di Proust, che si lascia
trasportare dalle intermittenze del cuore
in una “realtà extratemporale”,
Mandolini non cessa mai di dimorare nel tempo presente, ove lascia
irrompere il passato; e questo transito è quasi sempre determinato dalla memoria
volontaria. Nel presente il dolore mette "radici e rami" perché sempre è
ravvivato dal ricordo del padre, della sua malattia lunga e devastante. È questo
un ricordo costante, che consente al figlio di ristabilire il contatto con il
proprio genitore, di non interrompere quella comunicazione, che negli ultimi
anni precedenti la sua morte era fatta solo di sguardi. ("Guardo mio padre
guardarmi,/negli occhi parlarmi./Guardo mio figlio guardarmi,/negli occhi
ascoltarmi." pag.69) ("Guardo mio figlio parlarmi,/negli occhi
guardarmi./ Guardo mio padre ascoltarmi,/negli occhi guardarmi." pag.83).
In questo
alternarsi degli sguardi tra padre e figlio, in questo dialogo muto e intenso,
la pianta del dolore protende i suoi rami nel terreno della poesia, la quale
trasforma il dolore in pathos, in una pena delicata e contenuta, che sembra
scolpita in quella eloquente e foscoliana "corrispondenza d'amorosi sensi" che
gli occhi esprimono nel silenzio fertile della parola. La presenza del padre,
così viva in questi versi, occupa l'intera raccolta intitolata proprio Radici
e rami, di cui sono riportati qui alcuni testi, ed è resa ancora più forte
da alcuni frammenti di lettere da lui scritte alla moglie.
Nella sezione "TRE", il
sentimento del dolore e il pensiero della morte s'intrecciano e si coniugano
strettamente con il senso della solitudine, avvertita, vissuta come condizione
sociale. L'uomo è solo. Ognuno è straniero a sé stesso e agli altri,
s-perduto, alienato nella folla che fa di ogni uomo un individuo senza
volto, senza identità (non possiamo qui non ricordare "la folla
solitaria" di David Riesman, cui Mandolini, forse, fa riferimento). Nella
"civiltà" del profitto e dei consumi, nella "disciplina dell'usura" la
solitudine è acquisita, è frutto della trasformazione che «le magnifiche sorti e
progressive» hanno continuato fin qui, nel nostro tempo, a operare sull'essere
umano, che ha finito per essere allineato, addomesticato e ridotto a uomo/massa.
Se nascere è subito esperienza del dolore, se è intraprendere il cammino
"tra lo stupore del prossimo passo" e l'incertezza e la paura "del
successivo"; se vivere è esperienza della solitudine, se è stare "Lì,
tutti seduti dentro ad un cerchio" ignorandoci reciprocamente e, tuttavia,
in attesa di "un cenno" che ci apra alla conoscenza l'uno dell'altro; se
è scorgere, d'improvviso, "Tra solitudini (...) una finestra senza
tende" (un colle senza siepe), che, senza nascondimenti, ci consenta la
sorpresa di una nuova visione, di liberare lo sguardo e di catturare "un
soffio di luce ininterrotta" che, al di là del tempo, dentro di noi,
sveli "diverse porzioni d'universo" e ci aiuti, nella profondità del
cielo interiore, a comporre e a stabilire un'intesa, una comunicazione più
diretta con i nostri simili; se, ancora, vivere è evitare di risvegliare
i ricordi per eludere il passato, cui si lega il pensiero della morte, la quale
è, pure, "il seme unico e necessario" da cui nascono i nostri
sogni..., morire è, allora, "l'unico percorso possibile", il
quale, però, non è più l'approdo alla sorgente della vita autentica, affrancata
dall'anonimità del «si muore», ma è "giungere diretti/alla pozza d'acqua
sporca e stagnante" nell'ignoranza "del dopo", che è solo una
speranza reiterata nel mondo da una voce, che è la nostra paura di morire, il
nostro attaccamento alla vita, l'oblio del nostro «essere per la morte», per cui
ignoriamo che la morte non è la fine della vita nel senso della sua conclusione,
ma appartiene alla vita, è un modo di essere che l'Esserci assume fin dalla
nascita, con la quale comincia la nostra possibilità di morire. Iscrivere la
vita nell'orizzonte della morte è aprire un nuovo cammino; significa vivere
nella com-prensione del dopo sapendo di esistere per la propria morte.
In assenza di
questa coscienza, l' "esperienza" della morte è quella che ci è descritta "dal
testimone di una breve agonia", il quale ritorna alla vita stupito per ciò
che ha intravisto nel "varco" dell'aldilà.(pag.149) Questa morte, che non
atterrisce, palesandosi come uno spazio accogliente e luminoso sì da essere
desiderata, "torna" ad essere un evento tragico accanto al "tedioso timore"
del decadimento fisico, che impedisce all'uomo di "immaginarsi" il
cambiamento del viso e di tutta la persona "una volta vecchio". Di fronte
a questa morte la ritualità dei gesti quotidiani diventa vana, inutile, sì che
il semplice "lavaggio del viso" sembra essere una cura superflua, vuota
di senso, e perciò un'operazione difficile da compiere.(pp.159,161)
Questa scarsa considerazione per
il viso, è espressa nelle prose di Cinque, già inserite nella
silloge pubblicata nel 2001 intitolata Sul viso umano, e, sebbene sia
"giustificata" dal pensiero dominante della morte, è tuttavia in contrasto con
l'attenzione che Mandolini ha per questa parte importante della persona umana,
la quale può dare autenticità all'uomo rivelandone l'essenza. Il viso è
il tempo che vi scava le sue ferite, "che discioglie le arterie"
lasciando emergere accanto alla memoria l'anima del ghiaccio: quel "perdurare
stanco del freddo (...) tra le ore da ricordare e quelle/da non
dimenticare ancora, dentro", dove viviamo il nostro "eterno" risveglio
nell'attesa della distanza da compiere, al riparo dell'ignoto che ci
attende "lungo l'ultimo tratto in salita"; dell' "altrove",
dove se ne vanno gli uomini lasciando che "l'orologio" non scandisca più
il tempo e testimoni così la loro assenza e che solo "il vuoto accumulatosi
nelle stanze" restituisca la loro presenza.(pp.174,175,187) In questo andare
"a ritroso" nel tempo e nei testi, in questo cammino di vita e di poesia, in
questa rivisitazione poetica dell'esperienza vissuta, lo sguardo è il
protagonista assoluto, in sintonia con un pensiero dolente e fortemente
speculativo che ne sollecita e favorisce la visione profonda, facendone una
finestra aperta per "il naufragare" dell'io - che però si ritrae, resta chiuso
nel dolore - oppure serrata sul buio, sull'abisso, che nasconde la radice stessa
del dolore mostrandone l'inguaribile ferita, la misura incolmabile. Sul
finire del percorso (che poi è l'inizio), questo sguardo non sembra essere più
in grado di assecondare il pensiero nella ricerca dell'oltre, di scavare
nella memoria e nel tempo che, con la sua corsa verso la morte, "torna" ad
essere il sepolcro dell'essere. Viene meno quel nuovo orizzonte in cui guardare
la vita, oltre il dolore, nello spazio della morte. È più facile vivere,
illudendosi di salvarsi "nella tomba chiusa degli occhi", trovando
protezione dietro "l'irresoluto sguardo di pietra" che "si
scioglie/nel metallo rovente del silenzio".
Ovviamente, trattandosi di una visione
"a ritroso", ovvero, di una sistemazione, di una presentazione dei testi "dai
più recenti ai più datati", non c'è qui un ritorno al punto di partenza, un
"arretramento" del pensiero mandoliniano di fronte a una verità faticosamente
conquistata; non c'è una "involuzione" sul modo di "sentire" il dolore, di
concepire la morte riconsiderandola secondo l'opinione comune, come un evento
scontato, tragico, assolutamente negativo. Al contrario, questo testo è,
paradossalmente, un procedere "in avanti", in quanto produce l'effetto opposto
al movimento "a ritroso", nel senso che è un andare all'inizio del cammino che
ci consente di conoscerne l'evoluzione. Questo testo documenta lo scavo e le
tappe di un pensiero, di una riflessione maturata lungo l'arco della vita
poetica, condizionata e dominata dal sentimento del dolore: un'esperienza
personale, vissuta sulla propria pelle che evolve, attraverso la meditazione
filosofica,
verso una
dimensione universale, verso quell'apertura dell'Essere che, dando alla morte il
proprio sigillo e riconoscendone il valore, ci rende sicuramente più umani.
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Recensione |
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