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Giuseppe Verdi: la musica che ha fatto la storia
nel bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi (1813-2013)
Seconda conferenza - II
La Trilogia popolare e l'opera della maturità verdiana
Circolo Unificato dell'Esercito
Treviso, 23 marzo 2013
“Rigoletto” è la prima
creazione verdiana che possiamo definire innovativa, il primo grande,
indiscutibile capolavoro, a cavallo fra la produzione giovanile e quella della
maturità, un’opera che è, ad un tempo, punto di arrivo di un percorso decennale
e punto di partenza per i nuovi sviluppi dell’arte di Verdi. E non è un caso
che, cronologicamente, sia seguita da altre due opere popolarissime, che con lei
costituiscono la cosiddetta “Trilogia Popolare”, due opere che, in un certo
senso, si incaricano di confermare ed affermare per vie diverse i due diversi
aspetti drammaturgici e musicali presenti nel “Rigoletto”.
“Il Trovatore”
costituisce infatti il traguardo del melodramma verdiano giovanile; è il
capolavoro che chiude un’intera fase, non solo della produzione del compositore
ma dell’intero repertorio belcantistico; è il melodramma per antonomasia, nel
quale gli aspetti caratteristici e peculiari di questa forma artistica sono, per
così dire, elevati alla massima potenza. Esso riceve l’eredità del passato per
sancirne il superamento, con la perfetta rappresentazione dei suoi caratteri
specifici, e quindi l’implicita impossibilità di proseguire oltre su quella
strada.
“La Traviata”, al
contrario, guarda all’avvenire, sviluppando, del “Rigoletto”, gli aspetti
formali e drammaturgici (più che quelli musicali) innovativi, oltre a portare
per la prima volta sulla scena lirica di un’opera seria il mondo contemporaneo.
La volta scorsa ci
eravamo lasciati col fallimento delle rivoluzioni del 1848 e 1849, e la
delusione degli ideali risorgimentali: l’impegno degli uomini politici, la lotta
dei patrioti, il sostegno degli intellettuali e degli artisti (con tale finalità
Verdi scrisse “La Battaglia di Legnano”, data a Roma durante la Repubblica del
Triumvirato, nel 1849) sono vanificati dalle sconfitte militari e dalla
restaurazione, che ripristina le condizioni precedenti quegli anni di
sconvolgimenti.
In Verdi – che, pur da
lontano (nel 1848 si trovava a Parigi), partecipava emotivamente e concretamente
alla lotta per l’indipendenza italiana (firmò una petizione di italiani
residenti in Francia al nuovo governo repubblicano francese che si era insediato
dopo la caduta di Luigi Filippo, affinché non abbandonasse il governo della
Lombardia minacciato dal ritorno degli Austriaci, ma le vicende storiche
successive si sarebbero incaricate di vanificare del tutto tale iniziativa: in
Francia venne ristabilito l’Impero col colpo di stato di Napoleone III ed anche
in Lombardia, col ritiro dei Piemontesi ed il ritorno degli Austriaci di
Radetzky, tutto sarebbe tornato come prima), – questo fallimento determinò un
ripiegamento verso una maggiore interiorità, mutamento già anticipato, per
alcuni aspetti, dal “Macbeth” e dalla “Luisa Miller”.
Questo ripiegamento
interiore va di pari passo col mutamento delle sue idee politiche, così come
avveniva contemporaneamente all’interno della cerchia del Salotto Maffei che
egli frequentava: quel sodalizio mondano, culturale e politico da rivoluzionario
e combattente si fece diplomatico, e prese a sostenere la lungimirante e
concreta politica di Cavour; e così anche Verdi vide nello stato del Piemonte
quella solidità istituzionale che avrebbe potuto fare da guida all’unificazione
del paese, attraverso l’estensione della monarchia costituzionale.
Dal punto di vista
artistico, tale cambiamento significava uno spostamento del centro
dell’attenzione drammatica e musicale, dai grandi ideali di massa e di popolo
verso i singoli personaggi, ed un conseguente, progressivo approfondimento
dell’elemento interiore e psicologico, ossia, in altri termini, lo studio
dell’umanità del personaggio e la sua interpretazione musicale.
Per realizzare questo,
era assolutamente necessario uscire dalla “tipologia” melodrammatica, in base
alla quale a ruoli determinati corrispondevano caratteri drammatici determinati:
“buoni” e “cattivi”, eroi e nemici, amanti e rivali gelosi, genitori e figli,
tutti avevano avuto, da “Oberto” a “Stiffelio”, una costante, comune
caratterizzazione, pur non priva di occasionali eccezioni (Macbeth, ad esempio),
che li rendeva simili negli atteggiamenti e nei gesti musicali (somiglianze
musicali fra un’opera e l’altra in Verdi non sono frequentissime, ma
corrispondono sempre ad una situazione psicologicamente simile; mi viene in
mente la cabaletta di Nabucco, che presenta due frasi musicali che ritroviamo
praticamente identiche nella cabaletta di Silva, a sua volta scritta per una
ripresa di “Oberto”; e se la situazione psicologica di Oberto e Silva è
sovrapponibile, quella di Nabucco riprende dalla precedente l’ardire guerriero e
la volontà di combattere, ma non il problema dell’onore, ossia si situa su un
piano psicologico un po’ più sottile e, se vogliamo, meno immediato e più
complesso, poiché egli non risponde solo a sé stesso ed alla propria coscienza
ma ai propri uomini ed al proprio popolo). Ma nulla di tutto questo ha più
ragione d’essere, ora che il bisogno di spingere oltre il proprio linguaggio e
le proprie concezioni porta Verdi all’esplorazione dell’interiorità dei
personaggi, ricreandoli dall’interno della loro natura: emerge la necessità di
porre in rilievo l’individualità e l’umanità, ed ovviamente il primo passo in
questo senso consiste nella scelta di soggetti consoni e adeguati allo scopo.
E’ così che Verdi, con
un’audacia inverosimile per l’epoca, decide di portare sul palcoscenico un gobbo
quale protagonista di un melodramma.
Il primo approccio di
Verdi con “Le Roi s’amuse”, dramma di Hugo rappresentato una sola volta nel
novembre 1832 e subito, con un decreto urgente, messo al bando dall’intero
governo francese dell’epoca, è del 1849. Il compositore aveva intenzione di
ricavarne un’opera destinata al San Carlo di Napoli su libretto di Cammarano ma
il progetto sfumò dopo qualche mese.
Nel febbraio del 1850,
tuttavia riapparve all’orizzonte il teatro La Fenice di Venezia, intenzionato a
commissionare a Verdi una nuova opera per la stagione 1850-51.
Verdi aveva già
presentato a Venezia in prima esecuzione “Ernani” ed “Attila”, tutte e due di
carattere patriottico, e con enorme successo entrambe le volte. Le successive
vicende storiche avevano impedito una più sollecita prosecuzione della
collaborazione, tanto più che, come abbiamo visto, Verdi aveva anche iniziato a
presentare i suoi lavori all’estero.
In occasione della
progettazione e della realizzazione di “Ernani”, egli aveva conosciuto il
librettista veneziano Francesco Maria Piave, allora alla sua prima esperienza.
Egli sarebbe stato da allora un fedele e devoto collaboratore, sempre pronto a
venire incontro alle esigenze talora pressanti e indiscutibili, e a subire
pazientemente i giudizi e i rimproveri di Verdi, quando a questi pareva che il
lavoro del poeta non fosse stato all’altezza di comprendere le sue idee o la
grandezza del soggetto trattato. In quel momento, per Verdi, egli aveva già
scritto, oltre ad “Ernani”, “I Due Foscari”, “Macbeth”, e “Il Corsaro”.
Nel frattempo, dopo la
caduta della Repubblica di Venezia, tornata in mano austriaca, e per la quale
Piave aveva combattuto quale soldato della Guardia Nazionale, con il ripristino
della situazione antecedente, si era acuito il problema della censura, divenuta
molto più vigile e sospettosa, e questo era un elemento che dovremo tenere in
considerazione, per comprendere le vicissitudini che andremo a narrare.
Nonostante la
consapevolezza delle possibili difficoltà, Verdi propose il dramma di Hugo,
considerandolo un soggetto di straordinaria grandezza, soprattutto per la
presenza del personaggio di Triboulet, che egli riteneva degno di Shakespeare,
una delle creazioni più alte di tutto il teatro tragico.
Dati i precedenti del
dramma teatrale, non più rappresentato in Francia, ed il sospetto di cui era
circondata la figura del repubblicano Hugo, Piave, sollecitato da Verdi,
richiese l’approvazione anticipata della censura, prima di iniziare il lavoro,
ed ottenne alcune assicurazioni verbali che indussero il compositore a mettere
mano al progetto, che originariamente avrebbe portato il titolo “La
maledizione”, scelto appositamente nella sua genericità per allontanare ogni
riferimento immediato all’originale, e comunque, nello stesso tempo,
assolutamente pertinente alla vicenda.
A metà dell’agosto del
1850 comparvero i primi problemi e Piave, conoscendo il carattere di Verdi, che
ormai si era messo al lavoro, essendo stato da lui tranquillizzato, fece
presente al Teatro che il soggetto non era più crudo o immorale di tanti altri
già accettati e che non c’era più tempo per cambiarlo. Verdi teneva troppo a
questo dramma per rinunciarvi: prima di iniziare a scrivere aveva meditato ed
approfondito il soggetto, per creare nella sua mente il cosiddetto “colore
musicale”, trovato il quale, la musica doveva solo essere materialmente stesa
sulla carta. Ma in nessun caso, dopo aver realizzato tale lavoro preliminare,
egli sarebbe stato disposto a rinunciare o cambiare: non avrebbe più avuto il
tempo necessario per assimilare, meditare e ricreare un altro soggetto.
Verdi, che stava
affrontando il travaglio di un fondamentale passaggio della sua vita creativa,
sentiva di avere la necessità di un’assoluta autonomia artistica, oltre che del
tempo necessario per elaborare le sue concezioni, e non era disposto a scendere
al semplice compromesso di fornire una qualsiasi opera entro la data richiesta.
Nel frattempo, in
ottobre, il libretto de “La maledizione” è stato terminato da Piave ed è stata
decisa anche la primadonna protagonista della prima (non è un particolare di
poco conto, poiché dalla scelta dell’interprete giusto poteva anche dipendere
l’esito del nuovo lavoro).
Verso la metà di novembre
del 1850, l’Imperiale Reale Direzione Centrale d’Ordine Pubblico di Venezia
chiede l’invio del libretto, che, riproducendo fedelmente la trama di Hugo,
viene respinto, poiché era impossibile portare sulla scena lirica i libertinaggi
del Re di Francia.
Piave apporta allora
numerose modifiche, compreso il titolo, che diventa “Il Duca di Vendôme”; ma
Verdi, già indisposto nei confronti del librettista, è intransigente ed accetta
solo l’eliminazione della scena che si trova all’inizio del secondo atto,
bollata come della “massima sconcezza”, ma su tutto il resto non intende sentire
ragioni: con quelle modifiche, la grandezza del soggetto originale è stata
deturpata e la sua potenza è ridotta a “cosa comunissima”, per cui non c’è più
ragione di proseguire su quella strada. Inoltre, ritenendo Piave responsabile
di tutta questa situazione, lo liquida brutalmente.
Intanto esce il
cartellone che annuncia la nuova opera verdiana, senza titolo: gli artisti sono
già stati scritturati, Piave intende riallacciare i rapporti col maestro, ed il
teatro preme per avere l’opera.
Comincia allora una fitta
corrispondenza e si iniziano a tessere le trame per giungere ad una soluzione,
desiderata da tutti: inizia Verdi proponendo lo “Stiffelio”, nuovo per Venezia e
dato nell’estate 1850, ma il teatro rifiuta.
Poco prima di Natale,
Verdi è informato che l’autorità di Polizia è disposta ad accettare il libretto
originario, con qualche lieve modifica, e subito dopo Piave e il segretario
generale del teatro partono per Busseto. Il 30 dicembre si ufficializzano le
modifiche: la vicenda non si svolgerà alla corte di Francia ma in un anonimo
Ducato di Francia o d’Italia; cambieranno i nomi ma resteranno i caratteri
originali del dramma di Hugo; si sostituirà la scena della chiave (quella della
“massima sconcezza”) con altra, che diventerà l’aria del Duca “Parmi veder le
lacrime”; il re o duca si recherà alla taverna da Maddalena attiratovi con
l’inganno; Verdi deciderà all’atto pratico la destinazione della scena del sacco
(la presenza in scena del sacco che contiene il corpo di Gilda era stata
bersaglio della censura).
Si decide anche che
l’opera non potrà andare in scena prima del 28 febbraio.
Il segretario del Teatro
torna a Venezia, mentre Piave rimane a Busseto a lavorare per riaggiustare il
libretto che, il 10 gennaio, con il titolo di “Rigoletto”, è terminato, ed il
giorno dopo viene presentato alle autorità di polizia veneziane; finalmente, il
26 gennaio 1851, il libretto rientra alla Presidenza del Teatro sano, salvo ed
approvato.
Verdi completa il duetto
finale, e termina l’opera il 5 febbraio.
Il 19 febbraio Verdi è a
Venezia per iniziare le prove e, fino alla prima recita, non consegna
all’orchestra le parti della canzone del Duca “La donna è mobile”, poiché sapeva
che, se fosse stata eseguita prima, durante le prove, si sarebbe subito diffusa
fra la gente, rovinando così uno dei colpi maggiormente ad effetto di tutta
l’opera, nonché uno dei brani sui quali più si sono scagliate le ire degli
“intellettuali”, che gli hanno sempre rimproverato un’eccessiva, quasi
sfrontata, immediatezza comunicativa col pubblico.
L’opera va finalmente in
scena, l’11 marzo 1851, con deciso successo e tredici repliche, che la
consacrano fra i massimi e più popolari capolavori del teatro musicale di ogni
tempo.
Abbiamo accennato, nel
primo incontro, al valore e all’importanza della figura del padre nell’opera di
Verdi, per ragioni che siamo andati ad individuare soprattuto nell’ambito delle
tragiche vicende biografiche del giovane compositore, vicende che lasciarono in
lui un segno indelebile, come vedremo anche oltre. In tale figura si sublima la
sua profonda nostalgia ed amarezza per non aver goduto appieno le gioie e
l’esperienza della paternità, nonché il dolore della perdita dei figli
piccolissimi. E Rigoletto, essendo personaggio individualizzato ed umanissimo, è
il primo grande padre in cui Verdi si rispecchia, con enorme simpatia artistica
ed umana, tanto che, quando gli fu chiesto quale sarebbe stata l’opera che
avrebbe salvato, trovandosi nella condizione di poterne conservare soltanto una,
rispose: “Il mio gobbo!”
Nel buffone vi è una
sorta di conciliazione degli opposti, l’uomo in tutte le sue sfaccettature, il
padre tormentato, sanguigno, appassionato, quasi violento e nello stesso tempo
disperato nel suo amore per la figlia, tanto da suscitare il sospetto di amare
egoisticamente e temere in verità soltanto per sé, per paura di soffrire: più di
uno slancio melodico nel canto di questo personaggio, nei tre duetti con la
figlia, è destinato ad illustrare questi aspetti del carattere.
Il dramma di Triboulet in
Hugo si delinea quale risultato di molteplici rapporti dialettici, incrociati
fra i vari protagonisti, come il drammaturgo stesso spiega nella sua prefazione:
“Triboulet è deforme, Triboulet è malato, Triboulet è buffone di corte: triplice
disgrazia che lo rende crudele... ha due allievi: il re che incita al vizio, la
figlia che educa alla viertù. L’uno perderà l’altra... Vuole rapire la signora
di Cossé e invece rapisce sua figlia. Vuole uccidere il re e finisce per
assassinare proprio la figlia... La maledizione del padre di Diana si compie sul
padre di Bianca” e non, quindi, sul buffone di corte ma sulla creatura umana.
Tale dramma, che assurge
a grandezza catartica nella scena finale, nell’opera si compone progressivamente
durante tutto il corso della vicenda, attraverso la straordinaria varietà di
accenti ed espressioni che il compositore riserva al suo protagonista, dal
recitativo quasi parlante su un nota unica (la sarcastica, travolgente frase con
cui entra, ad esempio, e le frasi dialogate con Gilda e Sparafucile dopo il
Quartetto del terzo atto), al declamato stentoreo della prima parte della sua
grande aria, al recitativo plastico e variegato che ritrae ogni suo minimo moto
del cuore, alternato a squarci lirici da arioso ed improvvise esplosioni, come
avviene nella grandiosa scena “Pari siamo”; dall’accento concitato (sempre nella
sua grande aria, prima della seconda parte, e nel finale del secondo atto) al
cantabile più patetico (“Deh, non parlare al misero”); dal sillabato più crudo
(“Or della Contessa l’assedio egli avanza...”) alla melodia più dolce e
commovente (“Piangi, fanciulla”). E, naturalmente, attraverso il progressivo
oscurarsi del colore della musica del protagonista, scritta esclusivamente in
tonalità con i bemolli, eccettuato il breve episodio della sua entrata nel
secondo atto, in cui simula indifferenza, anche attraverso il ricorso ad una
tonalità per lui inusuale.
Innovazione, abbiamo
detto, può essere considerato l’assunto fondamentale di quest’opera, e non solo
nel soggetto e nel protagonista (la triangolazione maschile Duca, Rigoletto,
Monterone ricorda Don Giovanni, Leporello, Commendatore: non è un caso che
proprio in quel periodo Verdi avesse ripreso lo studio del capolavoro di
Mozart), ma anche drammaturgicamente e musicalmente; è una prima conquista,
definitiva e consolidata, con l’allargamento delle tradizionali strutture
formali melodrammatiche.
Ricordiamo che l’opera
era impostata “a numeri”, brani autonomi, la cui successione serviva a portare
avanti la vicenda, separati e nello stesso tempo uniti da elementi di raccordo
musicale che furono quelli sui quali Verdi andò subito ad agire, quando
intraprese la strada della progressiva emancipazione dalla tradizione. La
curiosità che abbiamo rilevato la volta scorsa è data dal fatto che gli elementi
più importanti per corrodere al suo interno questa struttura, risalente
addirittura al Settecento, sono quelli esteriormente meno evidenti: formule di
accompagnamento e momenti di transizione fra i brani. Quando l’architettura
formale dei brani si riduce all’essenziale, ed assumono importanza, invece, i
collegamenti, si sono gettate le premesse per fondere le forme chiuse in più
ampi organismi musicali e drammatici, come avviene nella prima scena del primo
atto: venti minuti di musica che, oltre a presentare cinque diversi temi, sui
quali si svolge il dialogo fra i personaggi, accolgono, uniti da questo
substrato tematico, due danze, una delle quali cantata (minuetto, con un curioso
anacronismo) e l’altra mimata (Perigordino), la ballata d’entrata del Duca, la
stretta del primo episodio musicale, la scena di Monterone, la maledizione
(recitativo e monologo) e la stretta del concertato corale che chiude il
quadro. Qualcosa di simile avviene anche nel terzo atto, subito dopo il
Quartetto, con la “Scena, Terzetto e Tempesta”, nella quale recitativi, ariosi,
frammenti di aria, terzetto, intermezzi strumentali, tutto è coordinato per
realizzare questo entusiasmante episodio, il più intenso e drammatico
dell’intera opera.
Dal punto di vista
musicale, questo cambiamento significa quindi una costruzione sempre più ampia,
fondata su più temi ricorrenti con funzione architettonica, inframezzata da
episodi minori che ravvivano il contesto con la loro varietà: se nella prima
scena questi temi potrebbero essere facilmente interpretati come la
raffigurazione di elementi scenici (la festa, il Duca, Rigoletto, i cortigiani),
nell’episodio della tempesta sono quasi tutti resi espliciti con le didascalie:
lampi, tuoni, venti; rimane il dubbio sul significato drammaturgico del tema a
quinte vuote che regge tutta la prima parte dell’episodio, mentre è altamente
significativo che la seconda parte della scena si regga sul tema col quale il
coro dei cortigiani apostrofava Monterone dopo la sua irruzione alla festa del
Duca e la sua maledizione, tema ora enunciato due volte, la prima da Sparafucile
e Maddalena, la seconda nell’ordine inverso: quell’episodio, ormai lontano nella
memoria, torna prepotentemente alla luce nel momento in cui sta per avverarsi,
in tutta la sua crudezza.
Nel “Rigoletto” per primo
e poi nelle altre opere della Trilogia, coincidono appieno, per la prima volta
nell’arte verdiana, dramma e musica, in un supremo equilibrio che non di rado
tocca la perfezione della verità artistica ed umana. Non si parla più di
melodramma in senso stretto ma di “dramma musicale”, una nuova definizione che
sempre più troviamo nelle lettere verdiane del tempo, a significare una nuova
consapevolezza artistica e creativa, la necessità di quel rinnovamento nel
rapporto tra musica e palcoscenico, che, da questo momento, sarà la massima
preoccupazione di Verdi, poiché l’espressione musicale dovrà diventare mezzo di
rappresentazione ed espressione di ogni sentimento, di passioni, atteggiamenti,
rapporti, di tutto il complesso mondo delle relazioni umane.
Attraverso la musica,
tutto il molteplice mondo dei sentimenti si dispiega nelle sue varie forme e nel
“Rigoletto” vengono umanizzati anche gli eventi naturali, resi espressione
puramente musicale, forse eccessivamente semplice, per chi la paragonasse agli
effetti ottenuti dalla scrittura musicale in epoche successive, ma assolutamente
perfetta e tale da suscitare un autentico brivido, come se in quei venti che
accompagnano l’omicidio di Gilda, si sentissero le voci degli spiriti dei morti
che accolgono la loro nuova compagna, o spiriti infernali che aizzano Maddalena
e Sparafucile a compiere il loro orrendo gesto: venti, lampi, tuoni, tutto
diventa musica al culmine del dramma, come se solo la musica fosse in grado di
interpretarne appieno la grandezza e l’ambiguità di significato.
E di ciò dovette rendersi
conto, sia pur a malincuore, anche lo scorbutico Hugo, che non potè esimersi
dall’apprezzare la capacità con cui Verdi, nel Quartetto, riesce a far cantare
quattro sentimenti contrastanti contemporaneamente, all’interno di un unico
organismo musicale formalmente perfetto.
Ed ora, di fronte alla
grandezza artistica di questo capolavoro, un pensiero lievemente polemico, se
vogliamo, dedicato a tutti coloro che continuano a sostenere che “la cultura non
serve” e “con la cultura non si mangia”. Personalmente mi è assolutamente
impossibile immaginare “Rigoletto” separato dalla sua originaria ambientazione,
la Mantova rinascimentale di Vincenzo Gonzaga, di Monteverdi e di Rubens. E,
essendo tra le opere più conosciute e rappresentate al mondo, “Rigoletto” ha
sempre portato in giro, sugli spartiti, sui libretti, nei dischi e nelle
registrazioni video, nonché, ovviamente, nei teatri di tutta la terra, il nome
della città di Mantova. Mi ritrovo a pensare a quante persone, dagli Stati Uniti
all’Europa, dal Giappone all’Australia al Sud America, quanti appassionati
d’opera, e non solo, di questi paesi, abbiano conosciuto il nome di Mantova solo
grazie a quest’opera. E quanti, venendo in visita in Italia, avranno forse
deciso di visitare questa città, che personalmente trovo fra le più belle
d’Italia, grazie all’involontaria, ma efficace promozione fatta da quest’opera.
Non credo esista lavoro, per quanto accurato e capillare, di Aziende di
Promozione Turistica, Guide turistiche, libri esplicativi della storia della
città ed altro, che possano fare per l’immagine ed il nome di Mantova più di
quanto abbia già fatto e stia facendo, da oltre un secolo e mezzo, l’opera
“Rigoletto”.
“Il Trovatore”,
rappresentato a Roma nel gennaio del 1853, porge l’ultimo, straordinario addio
al melodramma belcantista, chiudendo definitivamente quel periodo, e segna la
fine definitiva anche del melodramma di stampo risorgimentale.
Il dramma romantico
spagnolo era ricco di vicende, colpi di scena ed effetti a sorpresa, di una
prorompente teatralità che non sfuggì al genio di Verdi, che da questo
repertorio trasse, oltre a quest’opera, anche “Simon Boccanegra”, del medesimo
autore Gutiérrez, e “La Forza del destino”. “Il Trovatore” guarda al modello di
“Ernani”, con cui condivide l’esuberanza melodica e la quadratura ritmica,
aspetti che la rendono facilmente ed immediatamente comprensibile.
Teatralmente, la complessa trama corre precipitosa verso la conclusione grazie
ad una struttura che, pur sviluppandosi all’inizio con una serie di racconti che
rimandano ad altri luoghi ed altri momenti, solo di rado inframmezzati dalla
visione del reale svolgersi della storia, tende decisamente a far emergere
finalmente la vicenda sulla scena (dall’ultimo atto, non vi sono più narrazioni,
né giungono notizie che la situazione veramente drammatica di quel momento si
stia svolgendo altrove) e quindi precipita immediatamente verso il tragico
epilogo.
La vicenda del dramma e
poi dell’opera trae origine da un episodio abbastanza marginale della storia di
Spagna, riguardante la contesa per la Corona d’Aragona.
Nel 1410, morto senza
discendenti il re Martino I, a seguito di accordi diplomatici noti come
“Compromesso di Caspe”, venne nominato re Ferdinando di Antequera che divenne,
nel 1412, Ferdinando I d’Aragona. Gli si era opposto, come pretendente al trono,
Giacomo II di Urgell, ultimo discendente dei sovrani della storica contea
catalana dell’Urgell, fondata in epoca carolingia. Giacomo si ribellò alla
decisione, e ne derivò un conflitto che si concluse alla fine di ottobre 1413
con la sconfitta di Urgell. Nell’opera, lo scontro fra i partigiani di Urgell,
tra i quali il trovatore Manrico con i suoi uomini, e l’esercito di Ferdinando I
d’Aragona, sostenuto dalla nobiltà cui appartiene il Conte di Luna (che invece
nella realtà storica era stato il terzo pretendente al trono) fa da sfondo alla
truce ed infelice storia d’amore di Manrico e Leonora nonché alla tragica,
allucinata vicenda della zingara Azucena, a metà fra la follia e la stregoneria,
che spende l’intera sua vita errante per vendicare la madre arsa sul rogo dal
vecchio Conte di Luna, padre dell’attuale e, come si scoprirà troppo tardi, di
Manrico stesso.
Musicalmente, in
quest’opera emerge una particolare attenzione per i due personaggi femminili:
quelle che sono le protagoniste del dramma, pur sottraendosi reciprocamente e
involontariamente l’uomo amato per tutta l’opera, non si incontrano mai, a parte
un’unica volta, poco prima della fine, quando però una delle due è addormentata.
Tutto il contesto musicale si regge fra questi due poli opposti; il mondo tonale
è il loro mondo: Leonora ruota attorno alle tonalità con i bemolli, Azucena a
quelle con i diesis, in un curioso contrasto timbrico, per cui il mondo di
Leonora diventa cupo e notturno, quasi segnato fin dall’origine da un esito
fatale, mentre quello di Azucena è legato alle sonorità brillanti e talora
scintillanti che riproducono l’idea ed il pensiero fisso del fuoco, dal mi
minore “zingaresco” di Verdi al suo relativo maggiore.
Drammaturgicamente, è
un’opera in costante fuga: sappiamo che la massima preoccupazione di Verdi
durante gli anni giovanili fu sempre la concisione. In questo caso, forte di
anni di esperienza, egli realizza un equilibrio perfetto, attraverso una
ripartizione saldissima e regolare. Si tratta di quattro atti, ciascuno dei
quali diviso in due quadri distinti, il primo ed il terzo più corti (circa la
metà) del secondo e del quarto. Ciascun quadro di ogni atto è a sua volta
distinto, ora drammaticamente, ora solo musicalmente (primo del primo atto e
secondo del terzo) in due parti. Non solo, la quadratura musicale spinge fino al
massimo grado i principi compositivi e formali del giovane Verdi e raggiunge qui
un’asciuttezza, essenzialità, precisione non più superabili: tutto il discorso
musicale si fonda su frasi regolarissime di due o quattro battute, dalla
coerenza interna ineccepibile, così da diventare subito afferrabili, ad un primo
ascolto.
E’ il punto d’arrivo di
quarant’anni di melodramma italiano e ne condensa, anche sotto l’aspetto
contenutistico, gli aspetti essenziali: amore osteggiato, conflitti politici,
scambi di persona, agnizioni, ritrovamenti, sacrificio d’amore, questioni
familiari, il tutto nel magma incandescente di una musica travolgente, nella
quale, anche volendo osservarne talora un eccesso di schematizzazione melodica,
nessuna nota è fuori posto. “Il Trovatore” è il melodramma perfetto: la sua
rapidità teatrale proviene proprio da questa chiarezza, coerenza interna,
facilità espressiva e, pur superando in lunghezza gran parte delle opere più
giovanili, ne appare infinitamente più rapido, essenziale e ricco. La regolarità
di scrittura, i rimandi sonori dati dal ricorso di medesime tonalità, sia pur
non in senso strettamente architettonico, la facilità melodica, il lirismo
intenso e fino ad allora mai raggiunto, di alcuni episodi (arie di Leonora e
Manrico), la forza ritmica di alcuni momenti eroici (il finale del primo atto e
la famosissima cabaletta “Di quella pira”, unico brano nel quale, a mio avviso,
le esigenze drammatiche prevalgono su quelle musicali, determinando
un’efficacissima, entusiasmante chiusa dell’atto terzo, attraverso il ricorso a
due schemi ritmici ripetuti fino all’ossessione che, se non garantiscono varietà
musicale, ritraggono però efficacemente l’impeto guerriero di Manrico e dei suoi
uomini, e contemporaneamente il martellante tormento che attanaglia l’eroe,
bloccato sotto assedio mentre colei che egli crede sua madre rischia il rogo),
rendono i brani di quest’opera fra i più popolari dell’intero repertorio lirico
mondiale.
La scrittura musicale
crea il colore sinistro del racconto di Ferrando e di quelli di Azucena, anche
in questo caso attraverso elementi ritmici ricorrenti. Ad esempio: l’ossessione
della zingara nella visione del suo infanticidio, espressa dalle ripetute notine
scivolate che punteggiano la prima parte della sua terribile narrazione; il
ritmo puntato, zingaresco e spagnoleggiante, della canzone “Stride la vampa”,
che ritorna per tutto il brano, vera garanzia di unità strutturale e, nello
stesso tempo, indice di una follia lucida, come se quanto raccontato da quel
momento fosse rimasto impresso a fuoco nell’anima e nel ricordo della donna: ed
infatti altre volte ritorna, nel corso dell’opera, a rappresentare le fiamme del
rogo, chiarendoci i pensieri ossessivi che turbano la vecchia zingara. Ma anche
la scena iniziale presenta tale cupezza, sia nella continuità quasi esasperata
del ritmo nel racconto di Ferrando, sia nella scrittura della stretta, vero volo
di fantasmi che turbano gli astanti, avvolgendoli nel loro manto di terrore,
tanto che, al suono delle campane di mezzanotte, il grido di terrore che esplode
sulla scena giunge brutale e travolgente anche allo spettatore. La musica
diventa completamente vita reale e, durante le scene notturne, che tinge di un
colore bruno, evocativo, ci avvolge nella quiete tormentata e instabile delle
grandi scene di Leonora, una sorta di dea dell’oscurità: sia la rivelazione del
suo amore che il suo supremo sacrificio trovano nella notte il loro ambiente
ideale e non è un caso che entrambe le scene ruotino sulle stesse tonalità.
Abbiamo detto di uno
sguardo rivolto all’indietro: ma c’è un episodio, in quest’opera, che, pur
sfruttando un’idea attuata in passato anche da altri, apre la strada a nuove
realizzazioni musicali e formali e si proietta decisamente verso il futuro: si
tratta del “Miserere”.
Ricordiamo che le
strutture formali del melodramma prevedevano l’aria doppia, cavatina e
cabaletta, inframezzate dall’intervento di un comprimario, o del coro. Verdi
aveva superato questa dicotomia in “Macbeth” e “Rigoletto”, opere nelle quali
esiste una sola aria solistica con cabaletta. Fra l’aria e la cabaletta
dell’ultimo atto di Trovatore, complice la scena, che si sviluppa su tre piani
drammatici: il palco, davanti alla torre dei prigionieri, dove Leonora canta il
suo amore per Manrico e attende il Conte di Luna; l’interno della Torre, dove
sono prigionieri Manrico e Azucena; un imprecisato luogo vicino, forse un
convento, dal quale provengono le voci dei monaci che si preparano ad assistere
i condannati a morte (e se invece fosse, come nel “Rigoletto”, l’umanizzazione
di qualcosa di ultraterreno?), Verdi ha inserito uno dei più grandi brani mai
scritti nella sua carriera, sia per la perfetta organizzazione musicale dei
distinti momenti espressivi e drammatici, composti in un’unità formale, nella
quale varietà e saldezza vanno di pari passo, sia per la straordinaria scelta
del colore timbrico, col coro maschile a quattro voci, la piena orchestra con un
ritmo funebre in pianissimo, l’arpa che evoca quasi un mondo lontano e ideale
(non riusciamo a immaginare, al di là del fascino della finzione melodrammatica,
che Manrico possa avere con sé in carcere un’arpa con cui accompagnare il
proprio canto): e questi tre elementi, il coro, Leonora col suo canto a
singulti, colmo di trepidazione amorosa e di terrore per l’amato, Manrico
sostenuto dall’arpa col suo nostalgico canto d’amore e di supplica, prima si
susseguono in un ordine perfetto ed equilibrato ma poi, quasi una perorazione
conclusiva, si fondono in un unico organismo, con un effetto stupefacente dal
punto di vista scenico, musicale (stereofonico, quasi) e drammatico: la
commozione regna sovrana di fronte all’assoluta genialità che proietta anche “Il
Trovatore” verso altri lidi futuri (questa soluzione scenica e musicale divenne
il fondamento di ulteriori conquiste e realizzazioni: da allora la
sovrapposizione stratificata di più piani sonori sarebbe stata quasi una
costante dei grandi momenti drammatici verdiani, fino alla scena del paravento
di “Falstaff”).
Leggiamo ora assieme un
biglietto inviato da Verdi al fedele allievo e collaboratore Emanuele Muzio,
all’indomani del 6 marzo 1853, data della prima esecuzione de “La Traviata” al
Teatro La Fenice di Venezia: “La Traviata, ieri sera, fiasco. La colpa è mia o
dei cantanti? Il tempo giudicherà.”
Con “La Traviata”
entriamo decisamente in un altro santuario dell’arte verdiana, in una delle
opere appartenenti di diritto alla storia del melodramma, uno dei capolavori
assoluti del repertorio di ogni tempo e paese nonché uno dei titoli più
rappresentati ed amati, opera che conobbe alla sua prima esecuzione un fiasco
clamoroso, parte del quale certamente attribuibile ai cantanti, in particolare
al baritono Varesi, che aveva trovato la parte non adatta a sé e che non versava
in ottime condizioni vocali. C’è da dire, però, che l’opera, così come la
conosciamo noi, non era proprio corrispondente a quella che sentì allora il
pubblico veneziano e alcuni passi molto importanti furono modificati
dall’autore.
“La Traviata” va a
riprendere le conquiste del “Rigoletto” e, sia per il soggetto che per la
struttura musicale, guarda decisamente al futuro.
Andremo quindi ad
esaminare più in profondità quei brani musicali che si inscrivono sulla linea
innovativa introdotta dal “Rigoletto”: l’Introduzione dopo il Preludio, il
grande Duetto fra Germont e Violetta, il Finale Secondo (la grande festa a casa
di Flora), buona parte del Terzo atto che, non a torto, Verdi riteneva il
migliore.
Il soggetto, cui Verdi
aveva probabilmente pensato già nel 1851, quale possibile alternativa al
“Trovatore” se questo non fosse stato di gradimento del librettista Cammarano, è
tratto da un romanzo d’impronta autobiografica di Alessandro Dumas figlio, “La
Dame aux camélias”, poi divenuto dramma teatrale. Ciò che probabilmente
sollecitò l’interesse di Verdi fu l’intrusione nella realtà quotidiana del tempo
del mito della cortigiana innamorata, destinata a morte prematura e che, col suo
sacrificio d’amore, paga il debito con la società che l’ha sfruttata e poi
emarginata, e nello stesso tempo rende libero, e soprattutto reintegrato
nell’onore, l’uomo che ama. Si tratta di una figura presente, sotto varie
forme, nella letteratura francese degli anni precedenti (Dumas si è certamente
ispirato alla “Manon Lescaut” dell’abate Prévost) e soprattutto di quegli anni
(in Balzac, ma anche nei numerosi romanzi d’appendice), che ritraeva con
realismo talvolta brutale e angoscioso la società borghese della Francia
dell’epoca: la triste vicenda del romanzo, che inizia con la vendita all’asta
dei beni della defunta Marguerite Gautier, dopo l’incontro fra l’autore e il
giovane amante della scomparsa, Armande Duval, presenta, nel sesto capitolo, la
sconvolgente scena della riesumazione e del riconoscimento del cadavere della
protagonista, il cui volto all’innamorato, ahimè giunto troppo tardi, appare
ripugnante: gli occhi ridotti a due cavità, le labbra scomparse, i denti
scoperti, i capelli appiccicati sulla fronte, le guance infossate e di un livido
colore verde; e dietro quel viso né lui né il narratore possono fare a meno di
immaginare e ricordare com’era quel corpo da vivo.
Ma non trascurerei
neppure la possibilità che il compositore fosse stimolato dalla possibilità di
irrompere anche col teatro lirico, a seguito del romanzo realista, nella vita
quotidiana: oggi, abituati come siamo a regie che stravolgono, talora senza
alcun senso né apparente né reale, l’ambientazione delle varie opere, e
conseguentemente le scene e i costumi, riusciamo a stento a renderci conto
dell’effetto violentissimo che doveva fare, per il pubblico dell’epoca, vedere
sul palcoscenico gli abiti di ogni giorno, le stesse scene di feste,
ricevimenti, quotidianità, dialoghi talora banali, dettagli di faccende
domestiche e affari: vedere, in una parola, la propria vita, anche quella più
privata ed intima, resa pubblica ed evidente, e, come se non bastasse, elevata
alla massima potenza espressiva ed emotiva attraverso la musica.
Verdi, e Piave con lui,
furono di un’audacia incredibile, e la stessa censura veneziana, che tanto li
aveva fatti penare col “Rigoletto”, questa volta fu molto più accomodante,
poiché comunque non si trattava più né di sovrani né di omicidi né di malcostume
nobiliare, bensì di vita privata. Per sicurezza, però, fu richiesto lo
spostamento nel tempo indietro di circa un secolo e, per parecchi anni ,“La
Traviata” fu così rappresentata: ricordo di aver avuto tra le mani uno spartito
per canto e pianoforte in cui, sul frontespizio, lo svolgimento della vicenda
veniva ancora collocato nel XVIII secolo.
Fino a questo momento,
con la significativa eccezione dello “Stiffelio”, che comunque riportava la
vicenda ad almeno trenta o quarant’anni prima, in un contesto ambientale,
culturale e sociale molto diverso da quello in cui viveva lo stesso Verdi, egli
aveva scelto soggetti e situazioni che potremmo definire assolutamente
“melodrammatici”: onore, vendetta, passioni esasperate, scontri di popoli,
gelosie, episodi romanzeschi al limite dell’inverosimile e così via, tutti
situati in epoche che vanno dall’antichità (Nabucco) al primo Ottocento (Il
Corsaro, Stiffelio), con una predilezione assoluta per il Medioevo. Ora, con
“La Traviata”, l’amore diventa quello del suo tempo, i rapporti sociali anche,
le emozioni e le vicende sono quelle che ognuno di coloro che si trovavano fra
il pubblico poteva riconoscere come proprie, e ciò che in un primo momento aveva
nuociuto all’opera, poi ne divenne il vero punto di forza. “La Traviata” assurge
alla categoria del mito perché presenta situazioni, sentimenti, valori
eternamente vivi, nei quali ciascuno, per la sua parte, si può identificare: non
serve essere una prostituta di alta classe per riconoscere in Violetta una
femminilità ardente, assoluta, presente in ogni suo gesto, soprattutto in quel
sacrificio per il bene dell’amato che ogni donna, anche se non ha conosciuto
direttamente, sa comunque essere possibile; così come ciascuno potrà riconoscere
in lei il momento in cui, in un modo o nell’altro, si è sentito solo, tradito,
abbandonato, proprio da coloro che prima lo hanno sfruttato per i propri scopi.
Verdi ama Violetta in modo particolare, e questo in contrasto evidente con una
facile e superficiale letteratura, a metà fra lo scandalistico e il
paternalistico edificante, che ha voluto vedere nella sua protagonista la
trasfigurazione poetica di Giuseppina Strepponi. Ora, al di là del fatto che la
Strepponi possa aver avuto una vita da artista del tempo, incline quindi a
facili e molteplici relazioni, da qui a giudicarla una donna di facili costumi,
specialmente in virtù del fatto che all’epoca appunto le cantanti, le ballerine,
le attrici coinducevano tutte una vita di tal genere, ce ne passa. Senza tener
conto del fatto che Verdi amava questa donna, viveva con lei da qualche tempo e
mai avrebbe potuto arrecarle un’offesa così aperta e spudorata, tesi questa
suffragata anche dalla lettera che egli scrisse ad Antonio Barezzi, per mettere
a tacere i pettegolezzi e le chiacchiere di paese che si facevano sulla loro
relazione al di fuori del matrimonio (è questo un altro esempio di come Verdi,
alla fin fine, non fosse particolarmente contento dei suoi compaesani).
“Io non ho nulla da
nascondere – scrive Verdi. – In casa mia vive una Signora libera indipendente,
amante come me della vita solitaria, con una fortuna che la mette al coperto da
ogni bisogno. Nè io, né lei dobbiamo a chicchessia conto delle nostre azioni; ma
d’altronde chi sa quali rapporti esistano fra noi? Quali gli affari? Quali i
legami? Quali i diritti che io ho su di Lei, ed Ella su di me? Chi sa s’Ella è o
non è mia moglie? Ed in questo caso chi sa quali sono i motivi particolari,
quali le idee da tacerne la pubblicazione? Chi sa se ciò sia bene o male? Perché
non potrebbe anche essere un bene? E fosse anche un male chi ha diritto di
scagliarci l’anatema?”
Piuttosto, oserei pensare
che nella Violetta del secondo e terzo atto dell’opera ritorni, trasfigurata da
un’arte musicale intrisa di autentica poesia umana, la figura della sfortunata,
giovane Margherita Barezzi, moglie fedele e devota, purtroppo per poco tempo, (e
si chiamava Marguerite anche la protagonista di Dumas...), come se il ricordo
della morte prematura che l’aveva sottratta al marito fosse tornato a lui sotto
la forma del sacrificio d’amore, della rinuncia, dell’abbandono, quasi il
destino avesse richiesto a quella giovane un così estremo sacrificio, per
permettere al genio che aveva sposato, e di cui non conosceva ancora la
grandezza, di compiere da solo quel cammino supremo che lo stava conducendo ai
vertici della sua arte, grazie anche a quel dolore e a quella disperazione. Come
dicevo nella prima conferenza, l’arte musicale di Verdi ha trasfigurato e reso
eterna la sua piccola, giovane famigliola distrutta dal destino, forse proprio
perché egli potesse, sorretto dal loro ricordo, dal rimpianto e dalla nostalgia,
alimentare la sua creatività, rendere loro la giustizia della storia e portarli
con sé nell’eternità del ricordo.
La morte di Margherita è
forse il sacrificio di Violetta: quale canto più dolce, commovente, ispirato è
mai uscito dalla penna e dall’anima di Verdi del “Dite alla giovane” del duetto
del secondo atto, il momento supremo del sacrificio e dell’abbandono di
Violetta, così intenso e così toccante che pare veramente l’ultimo saluto
dell’amatissima Margherita, che con la sua morte dona al giovane vedovo la forza
e l’alimento di una nuova arte, e conclude la sua agonia con quell’ultimo grido
disperato “Amami, Alfredo!”, uno dei momenti più commoventi, straordinari,
travolgenti dell’intera storia della musica, come se Margherita, nel momento del
trapasso, avesse implorato il ricordo affettuoso e amorevole dell’uomo con cui
aveva condiviso gioie giovanili e strazianti dolori: quel grido “Amami, Alfredo”
di Violetta che significa soprattutto: “Non dimenticarmi, non dimenticare quanto
ti ho amato!” è lo stesso di Margherita a Verdi; e il suo compagno di un tempo
ha rispettato tale volontà, innalzandole un autentico monumento, con una delle
pagine più toccanti del melodramma di tutti i tempi. Dopo questa perorazione
intensissima, Violetta è ormai morta: tutto ciò che segue è solo un progressivo
scendere nella tomba di un’anima ormai priva di ogni ragione di vita.
Ed anche l’amore ardente,
appassionato e irrazionale di Alfredo è un’immagine in cui molti possono
riconoscersi, così come la moralità ipocrita e talora urtante del padre Germont
rappresenta quel muro cieco di ostinazione e incomprensione contro il quale
molti si sono scontrati: e Verdi, che nella musica di Violetta ascende a vertici
sublimi e inarrivabili, con quella di Alfredo rappresenta appieno l’ingenuità
incosciente e irrazionale del giovane (si vedano i pizzicati che sostengono la
sua aria), ma anche l’incapacità assoluta di ascoltare i suoi interlocutori: nel
duetto del primo atto, dopo che Violetta lo sollecita a non pensare più a lei,
egli prosegue diritto con il suo canto, come se ella non ci fosse, recitando
bene la lezione del bravo ragazzo innamorato e cortese; nel secondo, invece, non
le dà ascolto quando la sorprende a scrivere qualcosa di sospetto e, quando ella
gli si getta al collo proclamandogli solennemente il suo eterno amore, non
capisce la ragione di tanto trasporto e non se la chiede neppure (sentiamo come
la musica, dalla grandezza della perorazione di Violetta, cade nel banale
assoluto, quando Alfredo rimane solo); e non ascolta neppure la sollecitazione
del padre, che lo invita a tornare a casa: drammaturgicamente, nulla ottiene
meno il suo scopo della romanza di Germont, la cui enfasi oratoria,
paternalistica e ipocritamente edificante, viene subito annichilita dalla
violenta reazione del figlio.
Con la musica di Germont
padre, quindi, Verdi dà voce ad un atteggiamento intimamente arido e falso,
forte delle convenzioni sociali e fondato su una moralità sorda ed ottusa e
sull’uso a proprio vantaggio dei precetti religiosi; ma sa comunque anche
distinguere quel poco di sincerità e trasporto paterno, che Germont possiede a
tratti, anche se esclusivamente con secondi, interessati fini, e, in alcuni
momenti, la musica è sufficientemente sincera per essere convincente (“Pura
siccome un angelo” ad esempio), ma sa anche individuare quella grettezza tutta
borghese contro la quale egli stesso si era scagliato: “Un dì quando le veneri”
e “No, generosa, vivere” sono un autentico capolavoro musicale d’ipocrisia e mai
questo atteggiamento avrebbe potuto essere meglio espresso.
Dunque, composta in pochi
giorni, segno evidente che Verdi aveva già trovato il colore drammatico e
musicale dell’intera opera, nonostante i problemi dovuti alle trattative col
teatro, soprattuto riguardo i cantanti che avrebbero interpretato la prima, e il
fatto che fino a gennaio era impegnato con il debutto de “Il Trovatore”, l’opera
andò in scena, come abbiamo visto, il 6 marzo 1853, sortendo un esito
clamorosamente disastroso: in un altro biglietto Verdi si lamenta del fatto che
il pubblico ridesse, ma si dichiara tranquillo e sicuro che l’ultima parola
sulla sua opera fosse ancora da dire. Dopo un’accurata revisione, che egli
stesso dichiarò per lettera essere stata quasi ininfluente, ma che in realtà
riuscì a dare un taglio molto migliore ad alcune sezioni dell’opera, così che
alcuni episodi presero un aspetto del tutto nuovo (il passo del grande duetto
“Ah il supplizio è sì spietato” e la cabaletta di Germont, ad esempio), l’opera
tornò in scena a Venezia, l’anno dopo, al Teatro San Benedetto, con un grande
successo, considerando che parte del pubblico presente era la stessa che l’anno
prima aveva contestato e deriso quello stesso lavoro. Da quel momento, l’opera
iniziò il suo giro trionfale nei teatri di tutto il mondo ed è a tutt’oggi una
delle più rappresentate.
Come la prima scena di
“Rigoletto”, così anche quella de “La Traviata” consta di una grande
introduzione di circa venti minuti, che raggruppa in un unico organismo musicale
quelli che, nell’architettura melodrammatica precedente, sarebbero stati numeri
diversi: una scena iniziale con un ricco dialogo alternato fra solisti e coro,
basata su due temi musicali molto differenti, il primo ritmico e brillantissimo,
caratterizzato da intervalli melodici ampi, il secondo, invece, morbido e
legato, nel quale prevalgono intervalli di grado congiunto; il famosissimo
brindisi, alternato fra soli e coro; il valzer, composto di vari numeri, in
mezzo al quale si posiziona il Duetto fra Violetta ed Alfredo; un coro finale
introdotto dal primo tema della prima scena. Non ci sono strutture portanti
tonali in questa scena, ma tutto si svolge con la naturalezza
dell’improvvisazione, con una ricchezza di elementi tematici (come in Rigoletto)
tale che, mentre l’organismo drammatico si ravviva nella sua essenzialità,
quello musicale si arricchisce e scorre rapidamente: gli elementi di passaggio
si sono ormai fusi con i pezzi chiusi e li incorniciano in un tessuto continuo,
nel quale il recitativo è ormai diventato canto e il canto ha assunto
un’espressività tale da diventare esso stesso recitazione. Anche il grande
duetto del secondo atto rinuncia alla ripartizione formale tradizionale, essendo
composto da un gran numero di episodi diversi, affidati ora all’uno ora
all’altro dei protagonisti, e unendo saldamente, all’interno di una struttura
bipartita, i vari momenti musicali e drammatici: l’unico vero recitativo è
confinato alle pagine iniziali della scena, dopo di che domina incontrastato il
discorso musicale, ora nell’orchestra (momenti di passaggio), ora nel canto
(enunciazioni narrative o emotive), ora assieme (nei punti di maggiore valenza
drammatica, per un ovvio e naturale climax espressivo).
E, allo stesso modo,
anche la drammaticissima scena del gioco, culminante nello scontro fra Violetta
ed Alfredo, nell’offesa alla donna, nel grande concertato durante il quale il
Barone sfida il giovane rivale a duello, è un organismo musicale unico, entro al
quale sono accostati e riconoscibilissimi più numeri distinti; ma il momento in
cui la tensione cresce fino ad un limite insostenibile è trattato come un ampio
brano dialogato, con sporadici interventi corali, fondato su due temi
principali, uno dei quali riservato esclusivamente agli interventi della
protagonista.
Il terzo atto, infine, è
un’autentica antologia di splendidi momenti musicali che danno vita intimamente
al dramma, a partire dal preludio, che si riallaccia idealmente a quello del
primo atto, con quel dolorosissimo tema a corale affidato al registro acuto dei
violini divisi, né più né meno di quanto aveva fatto Wagner nel preludio del
“Lohengrin” tre anni prima (ma ancora in Italia non se ne sapeva nulla), che
esprime pienamente quel senso di sospensione del tempo dovuta alla malattia
mortale, più ancora interiore e morale che fisica, che affligge il malato senza
speranza, sensazione la cui particolarità difficilmente descrivibile ritroveremo
nel terzo atto del “Tristan und Isolde”, nel lamento dell’eroe ferito a morte e
languente per la lontananza dell’amata. La musica di questo preludio ritorna,
frammentaria, a punteggiare tutta la prima scena, distendendo su di essa e sui
suoi protagonisti, Violetta, Annina e il Dottor Grénvil, il suo soffio di morte:
sostanzialmente fondata su un sommesso recitativo di straordinaria semplicità ed
espressività, essa si apre però anche ad un dolcissimo, patetico frammento
cantabile sulle parole “Mi confortò ier sera un pio ministro...”, anch’esso
ripreso dal preludio. Segue il sommesso parlato con la lettura della lettera e
quindi il canto di addio, la seconda aria di Violetta, discretamente
accompagnata dalla voce solitaria e desolata dell’oboe solista – strumento al
quale in questo periodo della sua attività Verdi affida le cantilene o gli
interventi più mesti e dolorosi, dall’introduzione di “Tutte le feste al tempio”
del “Rigoletto” a “Stride la vampa” ne “Il Trovatore”
– e nella quale compare
per l’unica volta, sulle labbra della stessa protagonista, la parola che dà il
titolo all’opera. E a questo punto la vita alla quale si è detto addio penetra
come un’ossessione nella camera e nella mente della moribonda, attraverso quello
sguaiato baccanale che sembra il canto di trionfo della morte sulla sua prossima
vittima. La prima parte del duetto che segue rimane limitata agli stilemi
tradizionali, eccettuata, se vogliamo, la partecipazione emotiva di Verdi che si
pone nei panni di Alfredo, giovane amante prossimo alla perdita della sua
donna. Ma ciò che segue ci riserva invece un colpo di genio teatrale e musicale
che vale da solo l’intera opera: l’ultimo anelito straziante di Violetta alla
vita, “Digli che vivere ancor vogl’io” viene interrotto da un potentissimo
unisono degli ottoni, che dà quasi l’impressione di uno schianto contro un muro:
la musica nega a Violetta quest’ultimo anelito di vita e, con un brivido che non
può fare a meno di investire l’ascoltatore, la proietta completamente nell’aura
della morte.
In quest’opera si fa luce
anche un primo accenno di quella che è la filosofia sociale verdiana: le
convenzioni e le ipocrisie sono marchiate a fuoco da un atteggiamento morale
completamente opposto; in un certo senso, pare che Verdi approfitti del tema
morale per mettere in luce la propria moralità, e affrontare quella
convenzionale e falsa della maggioranza della gente: su un fondo di pessimismo,
che da questo momento in poi troverà molteplici occasioni di manifestarsi, sulla
consapevolezza rassegnata dell’esistenza dell’ingiustizia, quasi connaturata
alla realtà umana, si innesta il sentimento amoroso, capace di redimere e
temperare le asperità della vita: anche quando apparentemente l’innamorato
sembra sconfitto, in realtà la sua vittoria va oltre il tempo e la limitatezza
del presente e dell’effimero. Verdi ha cantato con l’eroica morte di Violetta,
sempre più aggrappata alla vita, anche la fine di Margherita Barezzi, sapendo
che con la morte quella donna si sarebbe conquistata un posto nell’eternità e
nella riconoscente memoria della storia, per sempre al suo fianco: anche
l’opera, come la poesia di foscoliana memoria, vince l’oblio dei secoli.
Il Verdi risorgimentale
aveva cantato passioni di masse, scontri tra popoli e fedi diverse, conflitti
storici epocali, lotte fra oppressori ed oppressi, ed era diventato la voce di
questi ultimi, estendendo poeticamente la sua partecipazione emotiva dalla scena
alla realtà attorno a lui, al punto che, nella sua musica, nelle sue melodie e
nei suoi cori si identificarono la passioni libertarie e risorgimentali del
popolo italiano.
Ora, mutate le condizioni
storiche, come abbiamo detto all’inizio, attraverso il ponte della “Luisa
Miller” del 1849 e dello “Stiffelio” dell’anno successivo, Verdi lascia
l’universo dei popoli oppressi per rivolgere la sua attenzione a cantare i
singoli oppressi, passando dalle comunità di uomini sottomessi, sconfitti ed
umiliati, agli individui smarriti ed emarginati.
Rigoletto è un buffone di
corte, costretto a ridere con l’anima straziata dal pianto, circondato da un
vuoto esistenziale spaventoso colmato solo dalla figlia; Manrico è un guerriero,
destinato alla sconfitta in quanto ha sposato la causa del perdente, e quindi è
un ribelle e viene bandito, costretto a vivere da esule presso le comunità di
zingari; Violetta è l’emarginata sociale, colei alla quale la stessa società
borghese e perbenista che non vuole vedere né accettare negli altri ciò che ella
stessa fa, e che l’ha esaltata e sfruttata solo per i propri fini gaudenti ed
edonistici, non offre alcuna possibilità di redenzione né una seconda
opportunità, costringendola a morire, sola e rifiutata, mentre i suoi assassini
celebrano festosamente tra canti, balli e gozzoviglie il Carnevale parigino.
Si tratta di tre esclusi,
tre estranei al mondo in cui sono, loro malgrado, costretti a vivere; tre
individui soli, che trascinano nell’emarginazione e nella sconfitta coloro che
gravitano attorno a loro; sono quelli che lo scrittore Giovanni Verga avrebbe
definito i “vinti”: vinti dalla congiura degli altri uomini, i cosiddetti
“normali”, contro di loro.
E Verdi sceglie, uno dopo
l’altro, quali protagonisti del genere teatrale più popolare e diffuso in
Italia, proprio i singoli emarginati, non solo questi tre vinti, tre persone
fuori dal comune, incapaci di integrarsi, se non fisicamente, interiormente, ma
anche Gilda, Azucena, la stessa Leonora. Egli richiama l’attenzione su di loro,
con una musica che assume spesso tratti commoventi e toccanti, si mette dalla
loro parte, sempre e comunque, senza alcun istante di dubbio, e li eleva a
figure immortali non solo della grande arte musicale ma del teatro universale,
autentici miti, come si diceva di Violetta. Il disabile (e padre), e la figlia
intimamente ribelle ad una protezione soffocante ma incapace di affrontare una
realtà dalla quale è sempre stata esclusa; il proscritto e bandito (nonché
figlio e guerriero), la madre perseguitata dalla propria coscienza e dalle
proprie visioni, prima ancora che dal potere a lei avverso, e la nobildonna che
rifiuta i vantaggi insiti in un matrimonio prestigioso e rifugge dalle
convenzioni nobiliari e familiari, isolandosi dal suo ambiente e venendone di
conseguenza travolta; la prostituta, figura che il moralismo sociale ha sempre
visto con ipocrisia e disprezzo (ma insieme anche la donna che incarna in sé il
supremo amore): tutti entrano nella storia grazie all’umanità di Verdi, che
assume su di sé i loro dolori, gli strazi, i desideri, le speranze, lo
smarrimento di fronte al mondo e alla morte (le frasi strazianti e spezzate di
Rigoletto appena si accorge del corpo di Gilda dentro al sacco; il canto
dolcissimo e ormai celestiale di Manrico che tenta di consolare ed addormentare
Azucena nel carcere poco prima della loro morte; la commovente scena di Violetta
all’inizio del terzo atto e, soprattutto, come si diceva poco sopra, quel
violentissimo unissono di “sol” che nega inesorabilmente alla giovane donna la
sua ultima speranza, la sua ultima volontà di vita, e che infatti è seguito da
una delle frasi più lapidarie e sconvolgenti dell’intero repertorio: “Ma se
tornando non m’hai salvato, a niuno in terra salvarmi è dato”); grazie a
quell’umanità del grande genio – dicevo – che ha rivolto loro un accento di
carità, rispetto e passione, quella stessa umanità che egli, uomo di poche
effusioni e di nullo sentimentalismo, dimostrava però con i suoi contadini, con
i poveri, con i più sfortunati.
A questo punto, Verdi,
ormai definitivamente affermato, è giunto ad un punto cruciale della sua
carriera artistica e si ritrova praticamente a dover ricominciare dall’inizio,
pur facendo tesoro delle sue conquiste: ha chiuso una fase del melodramma, ne ha
aperta un’altra ed ora è costretto a rincorrere quel rinnovamento che egli
stesso si è imposto. Indietro non era più possibile tornare, mentre andare
avanti comportava l’esigenza di trovare nuovi modi espressivi, nuove possibilità
drammaturgiche, nuovi progressi nel linguaggio musicale, a partire dalla strada
tracciata dai tre capolavori della Trilogia.
Egli stesso era giunto a
maturare una nuova, maggiore consapevolezza (“potrei scrivere una Traviata
all’anno... ed accumulare una fortuna tre volte maggiore quella che possiedo...”
ebbe a scrivere più avanti) che gli imponeva la ricerca di un rinnovamento
artistico non disgiunto da quello personale.
Abbiamo visto, nel nostro
primo incontro, come nel 1847 Verdi avesse fatto il suo ingresso nell’ambiente
teatrale di Londra e Parigi; nel primo caso con un’opera nuova, “I Masnadieri”,
nel secondo con “Jérusalem”, rifacimento de “I Lombardi”.
La richiesta di comporre
un’opera nuova per Parigi, per un’occasione importantissima quale
l’inaugurazione dell’Exposition Universelle voluta dall’imperatore Napoleone III
– evento internazionale con la presentazione di prodotti industriali ed opere di
arti figurative, con la partecipazione di vari paesi e che avrebbe significato,
per un compositore, la definitiva affermazione sul piano mondiale – e con la
collaborazione del principe dei librettisti francesi, Eugène Scribe, autore dei
testi dei più importanti Grand-opéras del repertorio, venne dopo che precedenti
trattative si erano interrotte per sopraggiunti impegni urgenti di Verdi.
Arrivare a Parigi era
l’obbiettivo di tutti i grandi compositori internazionali (anche Wagner vi
sarebbe giunto, qualche anno dopo) ma, accanto agli onori, comportava oneri non
indifferenti, e fu con questi che Verdi dovette frontalmente scontrarsi in
questa sua seconda esperienza parigina. Anche i compositori italiani precedenti,
una volta raggiunta la notorietà nella penisola, si erano posti il traguardo di
conquistare la piazza di Parigi, unica che avrebbe loro consentito di ambire a
rinomanza internazionale.
A Parigi esisteva il
“Théatre des Italiens”, dove le opere italiane erano rappresentate in lingua
italiana, ma era all’Opéra che si otteneva la consacrazione e, per accedervi,
bisognava sottostare a volte a lunghe attese e complesse trattative ed a regole
inflessibili: prima di Verdi, fra gli stranieri, era riuscito a Rossini, che
aveva dato origine al genere con il “Guillaume Tell”, poi al tedesco, ma
francese d’adozione, Meyerbeer, vero nume tutelare di quel repertorio, quindi a
Donizetti; Bellini, purtroppo, morì mentre stava prendendo accordi per il suo
primo contratto in quel teatro.
Questo genere di opera
teatrale presentava alcuni elementi caratteristici, cui ogni musicista doveva
conformarsi: soggetto storico; ampiezza di dimensioni (quattro o, più spesso,
cinque atti, tagliati in modo ben definito); gran numero di personaggi,
soprattutto secondari; obbligo del balletto; abbondanza di scene spettacolari,
con l’intervento di masse corali, solisti e comparse.
Dal punto di vista
artistico, per un musicista italiano si trattava di un innegabile progresso, sia
per la necessità di curare maggiormente l’armonizzazione, sia per l’esigenza di
occuparsi con perizia ed attenzione della strumentazione (gli italiani passavano
per banali armonizzatori, autori di accompagnamenti pessimi, e orchestratori
sciatti e trascurati), sia perché nella struttura di queste opere comparivano
una maggiore varietà di generi musicali, sia ancora perché le orchestre e i cori
erano più grandi, e infine perché l’architettura drammaturgica dei libretti era
completamente diversa dagli schemi tradizionali italiani.
Fino a questo momento,
l’opera verdiana si era innestata sulla tradizione di stampo rossiniano,
portandola al suo estremo grado di maturazione ed all’esaurimento delle sue
potenzialità con “Il Trovatore” e ponendo le basi per un rinnovamento in senso
drammatico con “Rigoletto” e “La Traviata”. L’altro grande filone che
storicamente percorre il periodo della prima affermazione verdiana è, appunto,
il francese Grand-Opéra (anche in Francia, altri generi melodrammatici seri
cominceranno a definirsi nella seconda metà del secolo).
Qui, dunque, tende in
questo momento l’arte verdiana, che già aveva beneficiato del primo contatto con
la musica francese, e che non si limiterà al fatto esteriore della composizione
di un nuovo dramma ma vi cercherà nuove idee, nuova linfa e nuova ispirazione:
di fatto, per quanto poco rappresentata (certamente non per motivi musicali ma
più probabilmente per la difficoltà di allestimento) e non popolare, se si
eccettuano la sinfonia, l’aria di Procida e il Bolero di Helene, “Les Vêpres
Siciliennes” segna un momento capitale nell’evoluzione del compositore. Da
allora, in ogni titolo successivo, per una ragione ora musicale (uso
dell’orchestra, armonizzazioni, forma dei singoli brani), ora strutturale, ora
drammaturgica, si potrà trovare qualche elemento di collegamento o di
derivazione da quest’opera.
La vecchia tradizione
italiana si era ormai esaurita: morto anche Donizetti, ritirato Rossini, attivi
solo i compositori minori, alcuni dei quali anche dotati di personalità, come
Pacini e Mercadante, ma incapaci di uscire dal solco di quelle regole
comunemente accettate, dei procedimenti tecnici e costruttivi legati al passato
e perpetuati da librettisti che si rifacevano all’opera settecentesca, rimaneva
il solo astro verdiano a lottare per superare quel crollo.
Tuttavia, le acquisizioni
che Verdi aveva fatto nei suoi primi contatti con gli ambienti musicali
stranieri e che sarebbero proseguite con quest’opera, non hanno mai alterato né
il linguaggio né le intenzioni né il carattere dei suoi lavori: ciò che poté
raggiungere grazie a queste nuove esperienze è qualcosa che aveva già tentato,
concepito, talvolta parzialmente realizzato in precedenza.
Ma cosa conquista Verdi
al contatto con l’ambiente musicale francese, applicandolo da par suo e
superando in questo anche i maggiori compositori nazionali? L’uso dell’aria
ternaria in alternativa o in sostituzione dell’aria doppia italiana (l’esempio
più chiaro è l’aria di Procida e, nel successivo repertorio italiano, quella di
Amelia del “Simon Boccanegra”); l’introduzione del “Couplets”, caratteristico e
diverso rispetto all’aria strofica variata (esempi del primo sono le due brevi
arie di Oscar di “Un ballo in maschera”, un esempio della seconda è “Non so le
tetre immagini” da “Il Corsaro”); l’uso delle reminiscenze tematiche sui suoni
acuti tremolati degli archi, effetto evidentemente reso possibile dal gran
numero di violini di cui disponeva l’orchestra dell’Opéra (ma questo particolare
gesto compositivo, evidente nella ripresa della sinfonia, era già stato
introdotto, sia pur in forma lievemente diversa, pochi istanti prima della morte
di Violetta); le sovrapposizioni sceniche e musicali (c’era già stato il
“Miserere” del “Trovatore” ma poi, dopo i grandiosi finali di “Les Vêpres
Siciliennes”, ci saranno quelli del primo atto di “Un ballo in maschera”, in cui
si sovrappongono due blocchi tematici, del terzo del “Don Carlos” e del secondo
di “Aida”, in cui si sovrappongono tre blocchi tematici prima sentiti
separatamente).
Verdi dunque ha la
capacità di accogliere ogni stimolo che gli deriva da nuove conoscenze,
rielaborandolo con la sua prorompente personalità creativa e riutilizzandolo,
qualora se ne presentasse la necessità, ma senza mai rifiutare ciò che, pur
radicato nel passato, poteva offrirgli la soluzione ad un problema scenico o ad
un effetto musicale o fosse funzionale ad uno scopo espressivo; il senso vero di
tale utilizzo sta nel modo, completamente nuovo, con cui egli riesce, in ogni
opera successiva, come era stato anche negli anni giovanili, a presentare
elementi innovativi, una sorta di costante progresso verso un nuovo punto di
arrivo.
Torniamo dunque a “Les
Vêpres Siciliennes”. Abbiamo anticipato che per Verdi non fu una passeggiata e
non solo per la lunghezza del lavoro e la fatica dell’ispirazione (dice in una
lettera: “Io scrivo ben lentamente, anzi può darsi che non scriva. Non so da che
proviene, ma so che il libretto è là, sempre all’istesso posto.”), ma anche
perché si scontrò con un sistema di convenzioni, anche burocratiche, che in
Italia era finalmente riuscito, se non a dominare, almeno a fronteggiare. Se
dai librettisti italiani poteva esigere tagli di scene e versificazioni secondo
le sue esigenze, a Parigi dovette sottostare non tanto all’autorità (e ad una
furbizia tanto vicina alla frode) di Scribe, che, senza avvisarlo, gli presentò,
sotto questo nuovo titolo, cambiando nomi, epoca e ambientazione, il
riadattamento del libretto de “Le Duc d’Albe”, lasciato a metà da Donizetti, e
che tuttavia fece se non altro le viste di collaborare fattivamente, quanto
invece alle esigenze irrinunciabili ed indiscutibili della forma teatrale del
Grand-Opéra, del tipo di lavoro di preparazione, del gusto del pubblico. Fu una
vera e propria agonia (o Verdi la fece apparire tale): discussioni con la
direzione, litigi con l’orchestra indisciplinata, tentativi spesso delusi di far
dare al libretto una maggiore sostanza drammatica, poiché la trama era alquanto
artificiosa e improbabile. A complicare il tutto ci si mise pure la fuga
d’amore della primadonna, Sofia Cruvelli, che abbandonò improvvisamente le prove
senza più dare notizie per alcune settimane (fu uno scandalo di portata europea)
e rischiando di mandare a monte tutto l’allestimento. Di tale disagio rimangono
alcune testimonianze epistolari, riferite all’ambiente della musica e del teatro
parigino:
“Nissun teatro mi ha mai
recato tante noje e tanti dispiaceri come l’Opéra.” E poi: “Un’opera all’Opéra
è fatica da ammazzare un toro.” E ancora: “Nei vostri teatri musicali... vi sono
troppi Sapienti! Ciascuno vuol giudicare a norma delle proprie cognizioni, de’
suoi gusti, e, quel che è peggio, secondo un sistema, senza tener conto del
carattere, e dell’individualità dell’autore... Cosa significano mai queste
povere parole di commun... di bon goût... Io credo all’Ispirazione; voi altri
alla Fattura...”
Niente male, per un
maestro già ben affermato che però sentiva pressante l’urgenza di concepire un
nuovo ideale drammatico e desiderava avere tutta la calma e serenità necessarie
per rinnovarsi.
Dal punto di vista
musicale, ben conscio delle esigenze francesi e dei problemi affrontati dai suoi
predecessori nello scrivere per quel pubblico (Bellini in particolare), Verdi
agisce prima di tutto sulla qualità degli accompagnamenti (processo che aveva
iniziato autonomamente già molto tempo prima), cura maggiormente la
strumentazione (proseguendo su una linea di progressiva raffinatezza che aveva
inaugurato già dalle ultime opere), aggiunge alla scrittura fioriture ed
abbellimenti che da sempre avevano caratterizzato lo stile musicale francese (si
veda ad esempio il Bolero di Helene) e, ovviamente, pone particolare cura nelle
armonizzazioni, conquistando alcune tipiche successioni accordali che poi userà
ancora (si definiscono “armonia non funzionale” in quanto trattasi di accordi in
relazione fra loro ma avulsi dal contesto tonale in cui sono inseriti, pur
provenendo e muovendo verso accordi della tonalità principale con collegamenti
tecnicamente regolari e grammaticalmente corretti).
Tutto questo si aggiunge
alla prosecuzione del processo di emancipazione dalle forme chiuse vocali e di
progressiva crescita d’importanza tematica e drammatica dell’orchestra, mentre
si afferma il principio della parola musicata col suo accento più opportuno, la
“parola scenica”.
Invece, sulla via
dell’elaborazione psicologica dei personaggi che acquistano la loro
individualità, proseguendo il cammino iniziato con la Trilogia, emerge
soprattutto – manco a dirlo – la figura del padre: Monfort, dapprima oppressore
inflessibile, poi addolcito dal sentimento della paternità, quindi magnanimo ed
infine vittima: una figura di potente solitario e triste, bisognoso di affetti e
di comprensione del proprio dramma, figura, forse larvatamente autobiografica,
che ritroveremo quasi costantemente d’ora in poi (Simon Boccanegra, Riccardo,
Filippo II, la principessa Amneris, lo stesso Otello).
L’opera ebbe un enorme
successo, valse a Verdi la stima di tutti i maggiori musicisti francesi
(compreso Berlioz) e onorificenze conferitegli dall’Imperatore, e fu replicata
numerose volte. In Italia giunse con titoli diversi e rimaneggiamenti vari a
causa della censura, e non riuscì mai ad affermarsi definitivamente nel
repertorio popolare, neppure nella traduzione italiana, pur essendo
un’importante opera di grandi valori musicali e proiettata verso un nuovo ideale
drammatico.
Naturalmente,
l’accettazione di Verdi, forse ancora inconsapevole di ciò a cui sarebbe andato
incontro, ed il relativo lavoro, suscitarono le meschine reazioni
nazionalistiche italiane, di coloro che non riuscivano a comprendere come colui
che poteva sedere sul trono del melodramma italiano, si accontentasse di una
panca ai piedi di Meyerbeer. Ora, a parte che è tutto da dimostrare quanto
Verdi si ritenesse inferiore a Meyerbeer, questo atteggiamento, di cui si fece
interprete lo stesso Piave, denotava l’incapacità generale di comprendere le
intime e pressanti ragioni di un artista in continua evoluzione e desideroso di
cercare ovunque nuove vie, nuove fonti d’ispirazione, nuovi suggerimenti da
incorporare nella sua strada di continuo progresso e affinamento; gli Italiani
avrebbero forse preferito sentire per altri quarant’anni copie sbiadite di
Rigoletti, Trovatori e Traviate, secondo quello che fu il difetto principe dei
compositori minori del tempo, sia italiani che francesi.
Dopo “Les Vêpres
Siciliennes”, Verdi rimette mano allo “Stiffelio” scritto nel 1850,
trasformandolo in “Aroldo”, opera musicalmente molto valida, che risente
positivamente dell’esperienza della trilogia ma che, purtroppo, non regge
drammaturgicamente la vicenda del suo fratello maggiore, anticipata di sei
secoli. Tuttavia, anche questo titolo è fondamentale per il progresso verdiano,
sulla scia di quanto già osservato per l’opera precedente: si passa dal motivo
tematico al singolo accento, nell’ottica della ricerca della verità drammatica
attraverso la musica (vi sono esempi non inferiori a quelli della trilogia).
Questa è la conquista
ulteriore che appare anche nel successivo “Simon Boccanegra”, unita alla
crescente disposizione verso organismi formali sempre più ampi, al punto che, in
quest’opera, nel prologo, nel primo e nel terzo atto tutto si sviluppa senza
soluzione di continuità, raggruppando momenti musicalmente diversi e per tanti
aspetti autonomi; solo il secondo atto conserva ancora l’antica struttura a
numeri chiusi. In tal modo, gli episodi lirici e quelli drammatici, ossia
l’evoluzione dei vecchi aria e recitativo, si fondono in un unico, rapido flusso
musicale e drammatico, senza fratture, realizzando pienamente il principio del
cosiddetto “dramma cantato”.
Quest’opera, scritta con
molta attenzione e, proprio per la sua natura innovativa, considerata di
transizione, destinata ad un iniziale insuccesso, e del cui valore Verdi era
sempre stato convinto (“Il Bocanegra non è inferiore a tante mie altre opere più
fortunate di questa.”), venne ripresa e revisionata nel 1881.
Verdi prosegue nel suo
cammino di rinnovamento coll’intenzione di superare definitivamente gli schemi
precedenti, intenzione che non è dettata da impulsi o occasioni esterne ma da
una deliberata volontà: punto d’arrivo è la costruzione del dramma musicale, la
ricerca di una nuova, reale originalità.
Il soggetto, tratto, come
abbiamo già visto, da un dramma di Gutierrez, dalla trama particolarmente
complessa a sfondo storico, intreccia, come nel “Trovatore”, amore, politica
(qui nella forma di scontri e conflitti tra famiglie per il potere cittadino),
figli smarriti e ritrovati; individuato dal compositore nel 1856, fu affidato
alla versificazione di Piave.
Ma solo nel 1879, dopo
più di vent’anni, Verdi, con la collaborazione di A. Boito, vi rimise mano,
ideando quello che rimane uno dei massimi capolavori della sua carriera
creativa, la scena del Consiglio, un capolavoro musicale e drammatico, in cui le
contrapposizioni politiche, i rapporti sociali, quelli personali, la
raffigurazione del popolo in tumulto, la suprema invocazione di pace del Doge,
in una delle pagine più ardenti, ispirate, nobili e sublimi mai uscite dalla
penna di Verdi (“Plebe! Patrizi! Popolo, dalla feroce storia!”) si compongono in
superiore unità drammatica, grazie alla varietà e coerenza strutturale del
discorso musicale che già risente dell’ultimo, tardo stile verdiano.
Abbiamo parlato poco
sopra di un’invocazione di pace: ebbene, questo protagonista, lacerato in tre
aspetti di un’unica personalità, il corsaro avventuroso ed eroico, amante del
mare e della libertà (espresso dalla musica del Prologo e dell’inizio del terzo
atto), il padre trepidante ed affettuoso, talora tormentato (duetto del primo
atto e atto secondo), l’uomo di stato, il potere cittadino incarnato (nella
scena del Consiglio e nel tragico finale), dall’alto del suo soglio invoca pace
per le contrade d’Italia che si scannavano in una lotta fratricida. Egli ha con
sé una lettera di F. Petrarca, documento reale che il poeta aretino inviò ai
Dogi di Venezia e Genova per richiedere la pace, in nome dell’appartenenza alla
stessa patria: questo senso di unità, affondato in tempi tanto remoti, toccò
profondamente le corde patriottiche di Verdi.
Ma la suggestione del
grande poeta aveva toccato il maestro già nella prima versione, nella
meravigliosa figura di Amelia Grimaldi, nome sotto cui si cela Maria Boccanegra,
la vera donna angelicata portata sulla scena. Tutti coloro che entrano in
contatto con lei, direttamente o indirettamente, si redimono ed abbandonano i
propri odi e rancori; donna forte, decisa, sollecita ella stessa le sue nozze,
scampa con coraggio ad un rapimento, salva per due volte la vita del padre, e
santifica tutto ciò che tocca, destinando, al contrario, alla morte, coloro che
disprezza: uno dopo l’altro, Boccanegra ritrova il suo lato umano e perdona i
nemici, Gabriele Adorno rinuncia ai propositi di vendetta e si fa messaggero di
pace, Andrea Fiesco si riconcilia col genero Simone, componendo finalmente la
lunga, atavica lotta di classe e di famiglia; e il demone della vicenda, Paolo,
di fronte a quell’intoccabile innocenza angelica, precipita nella sua ignobile
fine. Ma, se si eccettua appunto quest’oasi angelica, forse troppo perfetta e
pura per essere vera, “Simon Boccanegra” rimane un’opera fondamentalmente
pessimistica, improntata all’impossibilità per gli uomini di intendersi e
comprendersi, una sorta di confessione autobiografica, soprattutto nella figura
di Fiesco che, nel concertato finale che porta Simone alla morte, riassume
lapidariamente, con una musica solenne, posta in piena evidenza ritmica e tonale
all’interno dell’assieme, il principio del pessimismo cosmico verdiano: “Ogni
letizia in terra/ è menzognero incanto,/d’interminato pianto/fonte è l’umano
cor.”
Sulla linea della
progressiva acquisizione di nuova esperienza e consapevolezza si inserisce
appieno l’opera successiva, che diverrà uno dei titoli più amati e rappresentati
del Verdi maturo.
Dopo la “Luisa Miller” e
la morte del librettista Cammarano, non vi era più stata a Napoli, città in cui
pure venivano riprese regolarmente le nuove opere verdiane date altrove, una
prima esecuzione di un lavoro di Verdi. L’occasione parve dunque sopraggiungere
quando il maestro firmò un contratto col Teatro San Carlo per la realizzazione
di una nuova opera, e, postosi al lavoro con la collaborazione di un nuovo
librettista conosciuto a Venezia, Antonio Somma, scrisse e propose quella che
sarebbe diventata “Un Ballo in maschera”. Ma, nella Napoli in cui gli ultimi
sovrani borbonici sentivano ormai traballare il proprio potere, forse anche
sotto l’impressione della fallita impresa di Pisacane, e col timore di quanto si
stava preparando negli altri stati d’Italia, la censura aveva stretto fortemente
le maglie, e non solo respinse il soggetto ma alterò il libretto e finì per
modificarne il titolo e l’epoca, svuotando completamente sia il senso musicale
che Verdi aveva posto sotto determinate parole, che il significato complessivo
degli eventi della trama.
Ma qual era il problema?
Il soggetto è la rielaborazione di un episodio storico realmente avvenuto nel
1792, l’assassinio del re Gustavo III di Svezia ad opera di un nobile, per
motivazioni che nella realtà non furono mai appurate, ma che nel dramma teatrale
francese di E. Scribe “Gustave III”, ispirato a quell’episodio, si legano alla
gelosia. La censura non poteva ammettere che sulla scena si rappresentasse
l’assassinio di un re, e quindi, come per “Rigoletto” dispose che fosse
trasformato in un Duca, ma, ciò che è peggio, si attaccò anche a particolari
d’infimo conto, per esempio la necessità di trovare una collocazione geografica
che giustificasse il ricorso popolare ad una maga, ovviamente lontana
dall’originaria Svezia, l’assenza di armi da fuoco, l’amore del Duca
obbligatoriamente nobile e velato di rimorso e così via. Tuttavia, quando il
libretto, nonostante le molteplici difficoltà, fu riadattato e ripresentato, la
censura, anche sotto la perdurante suggestione negativa dell’attentato a
Napoleone III, avvenuto in Francia nel 1857, respinse totalmente il nuovo testo
approntato, chiedendo tante e tali modifiche da impiantare di fatto una nuova
opera, che si sarebbe intitolata non più “Una vendetta in domino” ma “Adelia
degli Adimari”. Ne seguì il rifiuto di Verdi, la citazione per inadempienza
contrattuale da parte del teatro e la controquerela di Verdi per danni. Verdi
rese pubblica la sua difesa:
“La Vendetta in Domino si
compone di 884 versi: ne sono stati cambiati 297 nell’Adelia, aggiunti molti,
tolti moltissimi. Domando inoltre se nel dramma dell’Impresa esiste come nel
mio: il titolo? No. Il poeta? No. L’epoca? No. Località? No. Caratteri? No.
Situazioni? No. Il sorteggio (una delle scena chiave e fra le più innovative dal
punto di vista drammatico)? No. Festa da ballo (sostituita da un banchetto!!!)?
No.
Un maestro che rispetti
l’arte sua e se stesso non poteva né doveva disonorarsi accettando per subbietto
d’una musica, scritta sopra ben altro piano, codeste stranezze che manomettono i
più ovvii principii della drammatica e vituperano la coscienza dell’artista.”
La questione fu risolta
fuori dai tribunali, con la remissione delle accuse in cambio di una nuova
opera, che, nelle intenzioni di Verdi, sarebbe dovuta essere, sempre su libretto
di Somma, il tanto vagheggiato e mai realizzato “Re Lear”.
Ovviamente, anche se
ufficialmente non era stato detto, i rapporti di Verdi con Napoli si guastarono,
e sappiamo bene quanto fosse stato intransigente sia con Milano che con Parma in
passato: da allora si lamenterà per lettera più e più volte sull’ambiente
musicale e teatrale napoletano, rifiutando talora di avallare esecuzioni delle
sue opere (come nel caso de “La Forza del destino”) e naturalmente rifiutando
l’incarico di direttore del locale conservatorio, offertogli dopo la morte di
Mercadante.
Verdi, vista la mal
parata, si era cautelato ed aveva già avuto alcuni contatti ed intrapreso una
trattativa per dare la sua nuova opera a Roma. Con astuzia di consumato uomo
di teatro, saputo che a Roma si stava rappresentando in prosa il dramma di
Scribe, ne richiese una copia e, di fronte alla possibilità che anche lì la
censura avesse qualcosa da obbiettare sul libretto originario, rispose che, se
si permetteva l’originale in prosa non si capiva per quale motivo si dovesse
proibire o modificare la sua versione musicale. Somma faceva pressioni per dare
l’opera a Milano, mentre Verdi voleva restare nei pressi di Napoli, e Roma era
il luogo più adatto. Fortunatamente la censura venne a miti consigli e si
accontentò che il Re fosse ridotto ad un semplice nobile, e Somma lo fece
diventare Conte di Warwick, e della modifica di alcuni versi particolarmente
incisivi, imponendo poi di trasferire la vicenda fuori dall’Europa: fu in questa
occasione che l’ambientazione di “Un Ballo in maschera” divenne quella
definitiva, l’America puritana del Seicento e dei primi colonizzatori, che
Verdi, soddisfatto, mantenne anche quando maturarono le condizioni per tornare a
quella originaria.
L’opera andò in scena il
17 febbraio 1859 con enorme successo, come era già avvenuto nella stessa città
per “Il Trovatore”.
Ciò che sorprende e
lascia perplessi, dopo tutte queste vicissitudini, è il fatto che su questo
stesso soggetto, pur mutato di ambientazione e talora di situazioni, erano già
state scritte numerose opere, due delle quali Verdi doveva certamente conoscere,
il “Gustave III” di Auber e “Il reggente” di Mercadante; alcune reminiscenze
tematiche, volute o inconsce o casuali, con la prima di queste due opere,
sembrerebbero dimostrarlo, ma del resto il debito allo stile e alla musica
francese, cui si è accennato più sopra a partire dai “Vepres
Siciliennes” è qui
più evidente che mai, ed è anche all’origine della collocazione così particolare
e originale che quest’opera ha nel repertorio verdiano.
Facciamo naturalmente
qualche esempio a dimostrazione di questa tesi: tutta la musica che si riferisce
al paggio Oscar nel suo ruolo di corte, e quindi sia i due couplets che il
Quintetto dell’invito al ballo rivelano la loro derivazione dalla scrittura
melodica brillante della musica teatrale francese; la stretta dell’introduzione
“Ogni cura si doni al diletto” dimostra chiaramente come Verdi, nel suo
soggiorno parigino, fosse entrato in contatto con la musica di quello che era
destinato ad essere il nume tutelare della musica ufficiale del Secondo Impero,
il re dell’operetta francese Jacques Offenbach, che nei suoi lavori ritrasse e
satireggiò impietosamente quella stessa società che Verdi aveva descritto ne “La
Traviata”; anche la musica della scena del ballo, sia quella propriamente
danzata sulla scena, eseguita dai complessi strumentali sul palcoscenico, sia
quella vivacissima che accompagna gli interventi del coro, non hanno nulla a che
vedere con quella di situazioni analoghe di opere precedenti quali “Rigoletto” e
“La Traviata” ma derivano direttamente dal grandioso Finale Terzo de “Les Vêpres
Siciliennes”; e da quest’opera Verdi riprende anche uno stilema di scrittura che
da allora impiegherà sempre, l’ampia melodia all’unisono, quale tema principale
al culmine di grandiosi concertati dalla struttura complessa, nella quale
compaiono contemporaneamente più situazioni emotive e quindi più elementi
musicali combinati, caratterizzata da una nota lunga iniziale e alcune note più
rapide subito dopo: ne “Les Vêpres Siciliennes” si trovava anch’essa per la
prima volta nel citato Finale Terzo e qui invece compare nel Finale Primo, poi
combinata con l’inno di lode al Conte (e, come detto, ritroveremo questa
scrittura nel Finale Secondo di “Aida”, addirittura con la combinazione di tre
temi, nel Finale Terzo di “Otello” e nel Finale Secondo di “Falstaff”).
Rispetto a tutto il resto
del repertorio di Verdi, quest’opera ha anche una particolarità che la
distingue: è l’unica opera in cui l’amore, inteso come passione disperata e
impossibile, un amore consapevole e adulto, è il tema centrale, esclusivo quasi,
del dramma, poiché sia le poco credibili figure di congiurati, con i loro
moventi personali più che politici, che chiacchierano, brontolano ma sono subito
pronti a divertirsi o a spaventarsi, pur di rimandare all’infinito i loro
propositi di vendetta; sia l’ambientazione naturalistica e magica (che andava
bene per una Svezia tutta boschi e foreste, dimora della tradizionale strega
delle nostre fiabe infantili, ma che personalmente trovo ancor più suggestiva
nel regno della foresta vergine americana del Seicento, soggiorno di sciamani e
stregoni, così ben descritta da N. Hawthorne, con tutto il suo patrimonio di
suggestioni fantastiche e soprannaturali); sia l’elemento fantasioso ed estroso
(per mascherarsi e nascondersi i protagonisti non aspettano la scena finale, ma
in altre occasioni si muovono nascosti o sotto mentite spoglie), fungono
esclusivamente da sfondo per una vicenda che, dalle prime note o quasi, e fino
alle ultime, è un poema d’amore appassionato, ardente ma straziante, rassegnato,
stoico quasi, da entrambe la parti, ciascuna delle quali sa bene quanto tutto
questo sia impossibile, e quanto quel dolce momento del duetto centrale
dell’opera sia destinato a svanire così come è comparso, travolto non dagli
eventi in sé – materializzazione esteriore di una superiore volontà, che trova
rappresentazione anche visiva nell’oscuro, “orrido” campo della morte su cui
brilla per un attimo la luce di un sentimento sincero – ma da qualcosa di ancora
maggiore, da un destino già scritto che vuole queste due anime ardenti separate
e poi lontane per sempre.
E poi vi è una nuova,
grande conquista da parte di Verdi, in quest’opera, ossia la capacità di
astrarsi dalle passioni dei suoi personaggi e di osservarne le vicende e i
drammi con lo sguardo attento, commosso, compiaciuto quasi, del padre che guarda
i suoi figli piccoli che ancora stentano a camminare, lo sguardo di chi sta
comprendendo e riproducendo tutta la molteplicità e complessità dei negozi
umani, degli affetti e delle emozioni, nulla disdegnando di ciò che crea la
varietà e ricchezza degli atteggiamenti e degli umori dei suoi protagonisti,
parte di quella grande umanità che d’ora in poi sarà la vera protagonista delle
sue opere: riso e pianto, divertimento e dolore, preoccupazione e indifferenza,
speranza e disinganno, apatia e rancore, devozione e odio, tutto questo e ancor
di più è presente nei rapporti fra i personaggi di quest’opera, e tutto ha una
sua specifica e particolareggiata definizione musicale, così che la prima,
apparente impressione è di un ritorno alle forme spezzate e chiuse antecedenti
la Trilogia. Possiamo portare ad esempio le due arie di Renato, che esprimono,
nello stesso personaggio, sentimenti completamente diversi e quindi si avvalgono
di una scrittura totalmente differente, così come i due momenti consecutivi
nell’antro di Ulrica in cui Riccardo canta dapprima travestito da marinaio, in
tono popolaresco (“Di’ tu se fedele”), e poi, quando si è svelato, continua in
tono garbatamente e nobilmente divertito (“E’ scherzo od è follia”).
Ma ognuno di questi brani
ha un suo colore, delinea quelle realtà umane di cui si diceva e quindi si
unisce agli altri molto più di quanto se ne separi, proprio come i colori
dell’iride, ben definiti e separati ma uniti a comporre l’arcobaleno: così è il
primo atto di quest’opera, così anche l’ultimo, mentre il secondo, autentico,
assoluto vertice drammatico, si muove tutto all’ombra del sentimento amoroso,
fattosi lancinante sofferenza, momento di gioia fugace e speranza, intimo e
segreto terrore, fonte di gelosia che attizza l’odio feroce e mortale.
Drammaturgicamente, si può parlare di opera perfetta, anche per il chiaro
parallelismo fra il primo e il terzo atto, una sorta di costruzione a ponte che
la rende, pur nella sua lunghezza e varietà, veloce e stringata e
straordinariamente unitaria nel suo sviluppo teatrale.
Si inquadra in questo
atteggiamento anche la scelta, per così dire, “politica” di Verdi, ciò che fa
apparire ancora più ottusa l’opposizione della censura a questo dramma,
evidentemente perché si era limitata ad esaminare esclusivamente le parole del
libretto: se avessero ascoltato la musica, i censori si sarebbero resi conto di
trovarsi di fronte all’opera più conservatrice di Verdi, quella in cui il
maestro, nella sua piena maturità artistica ed umana, ha abbandonato gli ardori
giovanili e rivoluzionari per mettersi dalla parte del sovrano illuminato e
clemente, delle istituzioni sagge e benevole, con un atteggiamento quasi
paternalistico: in nessuna altra opera di Verdi un potente è ritratto con
accenti musicali di tale sincerità e simpatia (e basti un raffronto con il
predecessore diretto di Riccardo, ossia il Duca di Mantova, e segnatamente fra
le loro due arie di sortita, così come tra “La donna è mobile” e la ballata del
marinaio, entrambi casi in cui il sovrano è travestito da popolano, per
comprendere il mutato atteggiamento di Verdi), mentre la musica riservata ai
congiurati non è più che un sorriso beffardo, quasi una presa in giro che ci fa
capire, nell’uso embrionale del contrappunto fugato, la loro artificiosità (fino
ad un certo punto della sua vita artistica Verdi assimilava il contrappunto ad
artificiosa creazione scolastica, dopo di che, vedremo la prossima volta, cambiò
atteggiamento) e ci fa intuire senza possibilità di errore la loro
inconcludenza. Evidentemente tale atteggiamento artistico riflette il mutato
atteggiamento politico di Verdi, ora orientato, come si diceva all’inizio, verso
una monarchia costituzionale che permettesse di riunire sotto di lei l’intera
Italia: e tale propensione politica trova in quest’opera, e solo in questa, la
sua piena espressione.
Chiudiamo l’illustrazione
di questo lavoro con le parole di uno dei maggiori critici del tempo, Filippo
Filippi, estraendole da una sua recensione: “...volete motivi, pensieri,
proporzioni, principio, seguito e fine? volete ritmo, periodi, musica pura? ne
avete a ribocco; ...volete tinta generale del dramma, fedele interpretazione
della parola, svincolo dalle forme abusate e convenzionali? volete idealità,
vaghezza, spicco di carattere? volete bandite le banalità e sostituito il nuovo,
l’elegante? volete che l’orchestra e la scena siano una sola statua...?
Servitevi, che c’è quanto vi occorre.”
Dopo il successo di “Un
ballo in maschera”, la carriera di Verdi conosce il primo, volontario arresto,
per circa due anni; due anni ricchi di vicende, il matrimonio con Giuseppina
Strepponi, la Seconda Guerra d’Indipendenza con le battaglie di Solferino e San
Martino, l’impresa dei Mille di Garibaldi, la raggiunta e proclamata Unità
d’Italia e la nomina del compositore a deputato del primo Parlamento italiano,
su pressione di Cavour, che sapeva benissimo quale lustro anche internazionale
sarebbe venuto alla neonata nazione dal vantare fra i suoi esponenti politici un
uomo ormai tanto importante e noto, nonché dalla storia integerrima. Verdi,
perciò, non si occupa di musica, non se ne cura e sembra che nella sua esistenza
altre preoccupazioni ed impegni abbiano preso il suo posto.
Finché, un giorno,
giungono due lettere da Pietroburgo: una destinata alla signora Verdi, da parte
di un vecchio amico e, inclusa in questa, un’altra indirizzata al maestro dal
tenore Enrico Tamberlick, attivo nella capitale russa, con la richiesta di
sapere se Verdi avrebbe preso in considerazione la proposta di scrivere un’opera
per il Teatro Imperiale.
Contrariamente a quanto
sia la signora Verdi che gli amici temevano, Verdi, forse già annoiato dalle
sedute parlamentari, forse ormai ricaricato nella sua vena creativa da due anni
di pausa, forse più prosaicamente bisognoso di altro denaro per la sua tenuta
agricola di Sant’Agata, accettò e si mise in caccia, come sempre, di un
soggetto. La scelta cadde inizialmente sul “Ruy Blas” di V. Hugo, ma dalla
Russia giunse la notizia che probabilmente non sarebbe stato accettato (il nome
di Hugo per le corti europee era ancora esplosivo); Verdi, allora, decise di
interrompere la trattative, e dovette intervenire la stessa corte imperiale
dello zar Alessandro II, dichiarando che qualunque soggetto avesse scelto Verdi
sarebbe andato bene. Ma a quel punto fu Verdi a rigettare l’idea del “Ruy Blas”
(musicato qualche anno dopo da Filippo Marchetti) e ad orientarsi su un enorme
dramma spagnolo di Angel de Saavedra, duca di Rivas, di ispirazione romantica a
forti tinte, ricchissimo di vicende e personaggi e caratterizzato da un forte
realismo e dall’interesse per le scene di carattere pittorico (come il suo
ispiratore Hugo, anche il Duca di Rivas era pittore e curava moltissimo le
didascalie e le descrizioni).
Si intitolava “Don Alvaro
o La fuerza del sino” e, con il libretto di Piave e con elementi ripresi del
dramma “Wallensteins Lager” di Schiller, tradotto da A. Maffei, (la scena
dell’accampamento militare, uno dei pallini di Verdi, che aveva sempre
desiderato mettere in musica la varia, vivace umanità, composta da soldati,
vivandiere, zingari, astrologi, predicatori, che gravita attorno
all’accampamento di un esercito in guerra, nella linea di prosecuzione del
ritratto globale della vita e della realtà dei fatti, degli affari e dei
sentimenti, una sorta di avvicinamento progressivo al grande mondo
shakespeariano delle sue due ultime opere) divenne “La Forza del destino”.
Se con “Un ballo in
maschera” Verdi aveva realizzato una ballata romantica di intonazione
passionale, con “La Forza del destino” entrò nel mondo del romanzo, e tanto
complesse ed elaborate sono le vicende del dramma originario, che Piave faticò
non poco nel ridurlo per la scena lirica: ma le difficoltà nell’introdurre i
cambiamenti di scena e rendere credibili personaggi, situazioni, successioni
temporali delle vicende, rivelava appieno lo sforzo compiuto. Verdi stesso, dopo
aver realizzato la prima versione, fu incerto sul finale e ne cercò una diversa,
credibile soluzione, che fu possibile realizzare solo nella seconda versione del
1869, con l’aiuto del librettista Ghislanzoni (Piave nel frattempo si era
gravemente ammalato), auspice un cambiamento anche psicologico ed emotivo
intervenuto nella vita di Verdi, a seguito della conoscenza personale del
vecchio Alessandro Manzoni, episodio di cui parleremo nel prossimo incontro.
La prima esecuzione di
quest’opera venne rinviata di un anno a causa di un’indisposizione della
cantante per la quale era stato scritto il ruolo della protagonista.
Finalmente, essa andò in scena nel novembre 1862, con grande successo di
pubblico e riserve della critica e del movimento musicale nazionalista russo,
incarnato dai giovani del cosiddetto “Gruppo dei Cinque”, ai quali, però, non
passò inosservata proprio quella che era stata l’innovazione più radicale e
significativa di Verdi, ossia la descrizione e la partecipazione attiva delle
masse, fossero poveri, frati, zingari, vivandiere e soldati, pellegrini
piuttosto che frequentatori di taverne, e del ruolo significativo, non solo
coloristico ma anche reale, di un gran numero di personaggi non direttamente
funzionali al nucleo del dramma, ma senza i quali non è possibile immaginarne né
il carattere né lo spirito e tanto meno l’esito, e fra i quali spiccano le
figure della zingara Preziosilla, del frate laico Melitone, di Mastro Trabuco.
Il grande repertorio nazionale russo, a partire dal “Boris Godunov” non è
immaginabile senza la miccia accesa dalle grandi scene collettive di quest’opera
verdiana, e persino alcuni singoli personaggi, segnatamente quelli che gravitano
attorno al convento, possono essere stati all’origine della concezione di
personaggi dello stesso stampo del dramma musicale russo.
Questa è la
caratteristica fondamentale de “La Forza del destino”, opera nella quale lo
sfondo pittorico e musicale, comprensivo anche di danze, nel secondo e terzo
atto, funge da terreno fertilissimo, entro il quale si stagliano le vicende dei
singoli, in una fuga e rincorsa continua, l’uno contro l’altro, con ripetuti
colpi di scena e un’incredibile serie di combinazioni per cui finiscono tutti,
nel corso dei lunghi anni di durata della vicenda (nella disposizione scenica si
raccomandava agli artisti di tener conto del tempo passato fra un atto e l’altro
nel trucco), per ritrovarsi negli stessi posti, proprio come se “la forza del
destino” avesse stabilito per loro i vari appuntamenti. Un confronto rapido con
“Il Trovatore”, opera anch’essa di ambiente spagnolo, ricca di soldati, suore,
zingari, guerre e duelli anch’essa, ci permette di comprendere la differenza
sostanziale tra questi due mondi. Nell’opera della Trilogia dominava il dramma
dei singoli e la cornice era sempre sullo sfondo e limitata a inquadrare le
scene salienti, con cori situati all’inizio o alla fine dei singoli episodi,
senza per questo aggiungere o togliere nulla alla forza del conflitto fra i
protagonisti e alle loro personali tragedie. In questo lavoro, la vicenda dei
singoli – eccettuato l’intimo primo atto che, non a caso, pare porsi formalmente
come un prologo, sia per la durata, sostanzialmente inferiore a quella degli
altri tre, sia per il suo carattere, anche musicale, di antefatto (l’aria di Leonora rivela nella sua scrittura l’affanno e il dubbio della ragazza giovane
ed inesperta, il cui indugio sarà fatale a tutti, mentre quando tornerà sulla
scena con le altre arie, saremo di fronte ad un personaggio che la vita ha
temprato, rendendolo di ben altra statura; e così il duetto fra Alvaro e Leonora
presenta uno slancio ed una vitalità che solo due giovani ardenti ed
appassionati, non ancora toccati dal male nel loro rapporto reciproco, possono
esprimere: dopo questo momento, così breve e intenso, non si ritroveranno più,
se non di fronte alla morte) – la vicenda dei singoli, dicevo, si svolge sullo
sfondo delle scene collettive, e la vita della gente si compenetra con quella
dei protagonisti: alla taverna, cori e danze, ballate, canzoni, preghiere si
intersecano in un unico organismo musicale; il coro dei frati subentra in mezzo
alla personale preghiera di Leonora e ne assume poi su di sé il dramma, in atto
di consolazione, e, nell’ultimo atto, il coro dei mendicanti si inquadra appieno
nella vita reale e quotidiana del convento, oltre a fornire un contrasto
efficacissimo dal punto di vista drammaturgico con quanto seguirà e ad
anticipare, grazie a Melitone, la misteriosa figura del Padre Raffaele; al campo
militare, infine, tutto si mescola in un groviglio inestricabile di vita: ronde,
rimpianti, duelli e alterchi, battaglie, testamenti, vivandiere, reclute,
mercanti, predicatori, zingari, e nulla è possibile senza tale varietà scenica e
musicale ad un tempo.
Con i miglioramenti
apportati dalla revisione, fra i quali lo sviluppo dell’originario preludio in
una sinfonia che raggruppa tutti i principali temi dell’opera, e che divenne uno
dei brani più famosi di Verdi, normalmente eseguita anche in sede concertistica,
“La Forza del destino” andò in scena, sette anni dopo, al Teatro alla Scala, in
un momento storico già diverso, sia per Verdi personalmente ed artisticamente,
che per l’ambiente musicale e culturale italiano.
Nel 1862, all’indomani
del ritorno di Verdi in Italia, scomparso Cavour, col quale il maestro intendeva
portare avanti un grande progetto di riorganizzazione dell’educazione musicale e
dell’attività teatrale della nuova nazione, la situazione, sotto l’aspetto
culturale, era difficilissima, soprattutto per la musica: non emergevano nomi di
spicco e il grande nume del teatro lirico ormai viaggiava in Europa per le
rappresentazioni delle sue opere ed aveva iniziato una fase della sua carriera
in cui avrebbe scritto esclusivamente per i teatri stranieri, limitandosi, in
Italia, all’attività di imprenditore agricolo. Ma, mentre il vecchio veniva
contestato ed aggredito dalle intemperanze dei giovani che ambivano ad un
cambiamento, senza, per altro, essere in grado di realizzarlo, il nuovo astro
della musica italiana non nasceva.
Dovrà essere proprio quel
cinquantenne, in altri trent’anni di attività, a ringiovanire l’opera italiana e
creare tutte le premesse perché sorgessero nuovi compositori in grado di
perpetuare, almeno per altri trent’anni, le ultime glorie del melodramma
nazionale.
Inizieremo da questo
punto la prossima, ultima conferenza.
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