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Giuseppe Verdi: la musica che ha fatto la storia
nel bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi (1813-2013)

Seconda conferenza - II
La Trilogia popolare e l'opera della maturità verdiana

Circolo Unificato dell'Esercito
Treviso,  23 marzo 2013

“Rigoletto” è la prima creazione verdiana che possiamo definire innovativa, il primo grande, indiscutibile capolavoro, a cavallo fra la produzione giovanile e quella della maturità, un’opera che è, ad un tempo, punto di arrivo di un percorso decennale e punto di partenza per i nuovi sviluppi dell’arte di Verdi. E non è un caso che, cronologicamente, sia seguita da altre due opere popolarissime, che con lei costituiscono la cosiddetta “Trilogia Popolare”, due opere che, in un certo senso, si incaricano di confermare ed affermare per vie diverse i due diversi aspetti drammaturgici e musicali presenti nel “Rigoletto”.

“Il Trovatore” costituisce infatti il traguardo del melodramma verdiano giovanile; è il capolavoro che chiude un’intera fase, non solo della produzione del compositore ma dell’intero repertorio belcantistico; è il melodramma per antonomasia, nel quale gli aspetti caratteristici e peculiari di questa forma artistica sono, per così dire, elevati alla massima potenza. Esso riceve l’eredità del passato per sancirne il superamento, con la perfetta rappresentazione dei suoi caratteri specifici, e quindi l’implicita impossibilità di proseguire oltre su quella strada.

“La Traviata”, al contrario, guarda all’avvenire, sviluppando, del “Rigoletto”, gli aspetti formali e drammaturgici (più che quelli musicali) innovativi, oltre a portare per la prima volta sulla scena lirica di un’opera seria il mondo contemporaneo.

La volta scorsa ci eravamo lasciati col fallimento delle rivoluzioni del 1848 e 1849, e la delusione degli ideali risorgimentali: l’impegno degli uomini politici, la lotta dei patrioti, il sostegno degli intellettuali e degli artisti (con tale finalità Verdi scrisse “La Battaglia di Legnano”, data a Roma durante la Repubblica del Triumvirato, nel 1849) sono vanificati dalle sconfitte militari e dalla restaurazione, che ripristina le condizioni precedenti quegli anni di sconvolgimenti.

In Verdi – che, pur da lontano (nel 1848 si trovava a Parigi), partecipava emotivamente e concretamente alla lotta per l’indipendenza italiana (firmò una petizione di italiani residenti in Francia al nuovo governo repubblicano francese che si era insediato dopo la caduta di Luigi Filippo, affinché non abbandonasse il governo della Lombardia minacciato dal ritorno degli Austriaci, ma le vicende storiche successive si sarebbero incaricate di vanificare del tutto tale iniziativa: in Francia venne ristabilito l’Impero col colpo di stato di Napoleone III ed anche in Lombardia, col ritiro dei Piemontesi ed il ritorno degli Austriaci di Radetzky, tutto sarebbe tornato come prima), – questo fallimento determinò un ripiegamento verso una maggiore interiorità, mutamento già anticipato, per alcuni aspetti, dal “Macbeth” e dalla “Luisa Miller”.

Questo ripiegamento interiore va di pari passo col mutamento delle sue idee politiche, così come avveniva contemporaneamente all’interno della cerchia del Salotto Maffei che egli frequentava: quel sodalizio mondano, culturale e politico da rivoluzionario e combattente si fece diplomatico, e prese a sostenere la lungimirante e concreta politica di Cavour; e così anche Verdi vide nello stato del Piemonte quella solidità istituzionale che avrebbe potuto fare da guida all’unificazione del paese, attraverso l’estensione della monarchia costituzionale.

Dal punto di vista artistico, tale cambiamento significava uno spostamento del centro dell’attenzione drammatica e musicale, dai grandi ideali di massa e di popolo verso i singoli personaggi, ed un conseguente, progressivo approfondimento dell’elemento interiore e psicologico, ossia, in altri termini, lo studio dell’umanità del personaggio e la sua interpretazione musicale.

Per realizzare questo, era assolutamente necessario uscire dalla “tipologia” melodrammatica, in base alla quale a ruoli determinati corrispondevano caratteri drammatici determinati: “buoni” e “cattivi”, eroi e nemici, amanti e rivali gelosi, genitori e figli, tutti avevano avuto, da “Oberto” a “Stiffelio”, una costante, comune caratterizzazione, pur non priva di occasionali eccezioni (Macbeth, ad esempio), che li rendeva simili negli atteggiamenti e nei gesti musicali (somiglianze musicali fra un’opera e l’altra in Verdi non sono frequentissime, ma corrispondono sempre ad una situazione psicologicamente simile; mi viene in mente la cabaletta di Nabucco, che presenta due frasi musicali che ritroviamo praticamente identiche nella cabaletta di Silva, a sua volta scritta per una ripresa di “Oberto”; e se la situazione psicologica di Oberto e Silva è sovrapponibile, quella di Nabucco riprende dalla precedente l’ardire guerriero e la volontà di combattere, ma non il problema dell’onore, ossia si situa su un piano psicologico un po’ più sottile e, se vogliamo, meno immediato e più complesso, poiché egli non risponde solo a sé stesso ed alla propria coscienza ma ai propri uomini ed al proprio popolo). Ma nulla di tutto questo ha più ragione d’essere, ora che il bisogno di spingere oltre il proprio linguaggio e le proprie concezioni porta Verdi all’esplorazione dell’interiorità dei personaggi, ricreandoli dall’interno della loro natura: emerge la necessità di porre in rilievo l’individualità e l’umanità, ed ovviamente il primo passo in questo senso consiste nella scelta di soggetti consoni e adeguati allo scopo.

E’ così che Verdi, con un’audacia inverosimile per l’epoca, decide di portare sul palcoscenico un gobbo quale protagonista di un melodramma.

Il primo approccio di Verdi con “Le Roi s’amuse”, dramma di Hugo rappresentato una sola volta nel novembre 1832 e subito, con un decreto urgente, messo al bando dall’intero governo francese dell’epoca, è del 1849. Il compositore aveva intenzione di ricavarne un’opera destinata al San Carlo di Napoli su libretto di Cammarano ma il progetto sfumò dopo qualche mese.

Nel febbraio del 1850, tuttavia riapparve all’orizzonte il teatro La Fenice di Venezia, intenzionato a commissionare a Verdi una nuova opera per la stagione 1850-51.

Verdi aveva già presentato a Venezia in prima esecuzione “Ernani” ed “Attila”, tutte e due di carattere patriottico, e con enorme successo entrambe le volte. Le successive vicende storiche avevano impedito una più sollecita prosecuzione della collaborazione, tanto più che, come abbiamo visto, Verdi aveva anche iniziato a presentare i suoi lavori all’estero.

In occasione della progettazione e della realizzazione di “Ernani”, egli aveva conosciuto il librettista veneziano Francesco Maria Piave, allora alla sua prima esperienza. Egli sarebbe stato da allora un fedele e devoto collaboratore, sempre pronto a venire incontro alle esigenze talora pressanti e indiscutibili, e a subire pazientemente i giudizi e i rimproveri di Verdi, quando a questi pareva che il lavoro del poeta non fosse stato all’altezza di comprendere le sue idee o la grandezza del soggetto trattato. In quel momento, per Verdi, egli aveva già scritto, oltre ad “Ernani”, “I Due Foscari”, “Macbeth”, e “Il Corsaro”.

Nel frattempo, dopo la caduta della Repubblica di Venezia, tornata in mano austriaca, e per la quale Piave aveva combattuto quale soldato della Guardia Nazionale, con il ripristino della situazione antecedente, si era acuito il problema della censura, divenuta molto più vigile e sospettosa, e questo era un elemento che dovremo tenere in considerazione, per comprendere le vicissitudini che andremo a narrare.

Nonostante la consapevolezza delle possibili difficoltà, Verdi propose il dramma di Hugo, considerandolo un soggetto di straordinaria grandezza, soprattutto per la presenza del personaggio di Triboulet, che egli riteneva degno di Shakespeare, una delle creazioni più alte di tutto il teatro tragico.

Dati i precedenti del dramma teatrale, non più rappresentato in Francia, ed il sospetto di cui era circondata la figura del repubblicano Hugo, Piave, sollecitato da Verdi, richiese l’approvazione anticipata della censura, prima di iniziare il lavoro, ed ottenne alcune assicurazioni verbali che indussero il compositore a mettere mano al progetto, che originariamente avrebbe portato il titolo “La maledizione”, scelto appositamente nella sua genericità per allontanare ogni riferimento immediato all’originale, e comunque, nello stesso tempo, assolutamente pertinente alla vicenda.

A metà dell’agosto del 1850 comparvero i primi problemi e Piave, conoscendo il carattere di Verdi, che ormai si era messo al lavoro, essendo stato da lui tranquillizzato, fece presente al Teatro che il soggetto non era più crudo o immorale di tanti altri già accettati e che non c’era più tempo per cambiarlo. Verdi teneva troppo a questo dramma per rinunciarvi: prima di iniziare a scrivere aveva meditato ed approfondito il soggetto, per creare nella sua mente il cosiddetto “colore musicale”, trovato il quale, la musica doveva solo essere materialmente stesa sulla carta. Ma in nessun caso, dopo aver realizzato tale lavoro preliminare, egli sarebbe stato disposto a rinunciare o cambiare: non avrebbe più avuto il tempo necessario per assimilare, meditare e ricreare un altro soggetto.

Verdi, che stava affrontando il travaglio di un fondamentale passaggio della sua vita creativa, sentiva di avere la necessità di un’assoluta autonomia artistica, oltre che del tempo necessario per elaborare le sue concezioni, e non era disposto a scendere al semplice compromesso di fornire una qualsiasi opera entro la data richiesta.

Nel frattempo, in ottobre, il libretto de “La maledizione” è stato terminato da Piave ed è stata decisa anche la primadonna protagonista della prima (non è un particolare di poco conto, poiché dalla scelta dell’interprete giusto poteva anche dipendere l’esito del nuovo lavoro).

Verso la metà di novembre del 1850, l’Imperiale Reale Direzione Centrale d’Ordine Pubblico di Venezia chiede l’invio del libretto, che, riproducendo fedelmente la trama di Hugo, viene respinto, poiché era impossibile portare sulla scena lirica i libertinaggi del Re di Francia.

Piave apporta allora numerose modifiche, compreso il titolo, che diventa “Il Duca di Vendôme”; ma Verdi, già indisposto nei confronti del librettista, è intransigente ed accetta solo l’eliminazione della scena che si trova all’inizio del secondo atto, bollata come della “massima sconcezza”, ma su tutto il resto non intende sentire ragioni: con quelle modifiche, la grandezza del soggetto originale è stata deturpata e la sua potenza è ridotta a “cosa comunissima”, per cui non c’è più ragione di proseguire su quella strada. Inoltre, ritenendo Piave responsabile di tutta questa situazione, lo liquida brutalmente.

Intanto esce il cartellone che annuncia la nuova opera verdiana, senza titolo: gli artisti sono già stati scritturati, Piave intende riallacciare i rapporti col maestro, ed il teatro preme per avere l’opera.

Comincia allora una fitta corrispondenza e si iniziano a tessere le trame per giungere ad una soluzione, desiderata da tutti: inizia Verdi proponendo lo “Stiffelio”, nuovo per Venezia e dato nell’estate 1850, ma il teatro rifiuta.

Poco prima di Natale, Verdi è informato che l’autorità di Polizia è disposta ad accettare il libretto originario, con qualche lieve modifica, e subito dopo Piave e il segretario generale del teatro partono per Busseto. Il 30 dicembre si ufficializzano le modifiche: la vicenda non si svolgerà alla corte di Francia ma in un anonimo Ducato di Francia o d’Italia; cambieranno i nomi ma resteranno i caratteri originali del dramma di Hugo; si sostituirà la scena della chiave (quella della “massima sconcezza”) con altra, che diventerà l’aria del Duca “Parmi veder le lacrime”; il re o duca si recherà alla taverna da Maddalena attiratovi con l’inganno; Verdi deciderà all’atto pratico la destinazione della scena del sacco (la presenza in scena del sacco che contiene il corpo di Gilda era stata bersaglio della censura).

Si decide anche che l’opera non potrà andare in scena prima del 28 febbraio.

Il segretario del Teatro torna a Venezia, mentre Piave rimane a Busseto a lavorare per riaggiustare il libretto che, il 10 gennaio, con il titolo di “Rigoletto”, è terminato, ed il giorno dopo viene presentato alle autorità di polizia veneziane; finalmente, il 26 gennaio 1851, il libretto rientra alla Presidenza del Teatro sano, salvo ed approvato.

Verdi completa il duetto finale, e termina l’opera il 5 febbraio.

Il 19 febbraio Verdi è a Venezia per iniziare le prove e, fino alla prima recita, non consegna all’orchestra le parti della canzone del Duca “La donna è mobile”, poiché sapeva che, se fosse stata eseguita prima, durante le prove, si sarebbe subito diffusa fra la gente, rovinando così uno dei colpi maggiormente ad effetto di tutta l’opera, nonché uno dei brani sui quali più si sono scagliate le ire degli “intellettuali”, che gli hanno sempre rimproverato un’eccessiva, quasi sfrontata, immediatezza comunicativa col pubblico.

L’opera va finalmente in scena, l’11 marzo 1851, con deciso successo e tredici repliche, che la consacrano fra i massimi e più popolari capolavori del teatro musicale di ogni tempo.

Abbiamo accennato, nel primo incontro, al valore e all’importanza della figura del padre nell’opera di Verdi, per ragioni che siamo andati ad individuare soprattuto nell’ambito delle tragiche vicende biografiche del giovane compositore, vicende che lasciarono in lui un segno indelebile, come vedremo anche oltre. In tale figura si sublima la sua profonda nostalgia ed amarezza per non aver goduto appieno le gioie e l’esperienza della paternità, nonché il dolore della perdita dei figli piccolissimi. E Rigoletto, essendo personaggio individualizzato ed umanissimo, è il primo grande padre in cui Verdi si rispecchia, con enorme simpatia artistica ed umana, tanto che, quando gli fu chiesto quale sarebbe stata l’opera che avrebbe salvato, trovandosi nella condizione di poterne conservare soltanto una, rispose: “Il mio gobbo!”

Nel buffone vi è una sorta di conciliazione degli opposti, l’uomo in tutte le sue sfaccettature, il padre tormentato, sanguigno, appassionato, quasi violento e nello stesso tempo disperato nel suo amore per la figlia, tanto da suscitare il sospetto di amare egoisticamente e temere in verità soltanto per sé, per paura di soffrire: più di uno slancio melodico nel canto di questo personaggio, nei tre duetti con la figlia, è destinato ad illustrare questi aspetti del carattere.

Il dramma di Triboulet in Hugo si delinea quale risultato di molteplici rapporti dialettici, incrociati fra i vari protagonisti, come il drammaturgo stesso spiega nella sua prefazione: “Triboulet è deforme, Triboulet è malato, Triboulet è buffone di corte: triplice disgrazia che lo rende crudele... ha due allievi: il re che incita al vizio, la figlia che educa alla viertù. L’uno perderà l’altra... Vuole rapire la signora di Cossé e invece rapisce sua figlia. Vuole uccidere il re e finisce per assassinare proprio la figlia... La maledizione del padre di Diana si compie sul padre di Bianca” e non, quindi, sul buffone di corte ma sulla creatura umana.

Tale dramma, che assurge a grandezza catartica nella scena finale, nell’opera si compone progressivamente durante tutto il corso della vicenda, attraverso la straordinaria varietà di accenti ed espressioni che il compositore riserva al suo protagonista, dal recitativo quasi parlante su un nota unica (la sarcastica, travolgente frase con cui entra, ad esempio, e le frasi dialogate con Gilda e Sparafucile dopo il Quartetto del terzo atto), al declamato stentoreo della prima parte della sua grande aria, al recitativo plastico e variegato che ritrae ogni suo minimo moto del cuore, alternato a squarci lirici da arioso ed improvvise esplosioni, come avviene nella grandiosa scena “Pari siamo”; dall’accento concitato (sempre nella sua grande aria, prima della seconda parte, e nel finale del secondo atto) al cantabile più patetico (“Deh, non parlare al misero”); dal sillabato più crudo (“Or della Contessa l’assedio egli avanza...”) alla melodia più dolce e commovente (“Piangi, fanciulla”). E, naturalmente, attraverso il progressivo oscurarsi del colore della musica del protagonista, scritta esclusivamente in tonalità con i bemolli, eccettuato il breve episodio della sua entrata nel secondo atto, in cui simula indifferenza, anche attraverso il ricorso ad una tonalità per lui inusuale.

Innovazione, abbiamo detto, può essere considerato l’assunto fondamentale di quest’opera, e non solo nel soggetto e nel protagonista (la triangolazione maschile Duca, Rigoletto, Monterone ricorda Don Giovanni, Leporello, Commendatore: non è un caso che proprio in quel periodo Verdi avesse ripreso lo studio del capolavoro di Mozart), ma anche drammaturgicamente e musicalmente; è una prima conquista, definitiva e consolidata, con l’allargamento delle tradizionali strutture formali melodrammatiche.

Ricordiamo che l’opera era impostata “a numeri”, brani autonomi, la cui successione serviva a portare avanti la vicenda, separati e nello stesso tempo uniti da elementi di raccordo musicale che furono quelli sui quali Verdi andò subito ad agire, quando intraprese la strada della progressiva emancipazione dalla tradizione. La curiosità che abbiamo rilevato la volta scorsa è data dal fatto che gli elementi più importanti per corrodere al suo interno questa struttura, risalente addirittura al Settecento, sono quelli esteriormente meno evidenti: formule di accompagnamento e momenti di transizione fra i brani. Quando l’architettura formale dei brani si riduce all’essenziale, ed assumono importanza, invece, i collegamenti, si sono gettate le premesse per fondere le forme chiuse in più ampi organismi musicali e drammatici, come avviene nella prima scena del primo atto: venti minuti di musica che, oltre a presentare cinque diversi temi, sui quali si svolge il dialogo fra i personaggi, accolgono, uniti da questo substrato tematico, due danze, una delle quali cantata (minuetto, con un curioso anacronismo) e l’altra mimata (Perigordino), la ballata d’entrata del Duca, la stretta del primo episodio musicale, la scena di Monterone, la maledizione (recitativo e monologo) e la stretta del concertato corale che chiude il quadro. Qualcosa di simile avviene anche nel terzo atto, subito dopo il Quartetto, con la “Scena, Terzetto e Tempesta”, nella quale recitativi, ariosi, frammenti di aria, terzetto, intermezzi strumentali, tutto è coordinato per realizzare questo entusiasmante episodio, il più intenso e drammatico dell’intera opera.

Dal punto di vista musicale, questo cambiamento significa quindi una costruzione sempre più ampia, fondata su più temi ricorrenti con funzione architettonica, inframezzata da episodi minori che ravvivano il contesto con la loro varietà: se nella prima scena questi temi potrebbero essere facilmente interpretati come la raffigurazione di elementi scenici (la festa, il Duca, Rigoletto, i cortigiani), nell’episodio della tempesta sono quasi tutti resi espliciti con le didascalie: lampi, tuoni, venti; rimane il dubbio sul significato drammaturgico del tema a quinte vuote che regge tutta la prima parte dell’episodio, mentre è altamente significativo che la seconda parte della scena si regga sul tema col quale il coro dei cortigiani apostrofava Monterone dopo la sua irruzione alla festa del Duca e la sua maledizione, tema ora enunciato due volte, la prima da Sparafucile e Maddalena, la seconda nell’ordine inverso: quell’episodio, ormai lontano nella memoria, torna prepotentemente alla luce nel momento in cui sta per avverarsi, in tutta la sua crudezza.

Nel “Rigoletto” per primo e poi nelle altre opere della Trilogia, coincidono appieno, per la prima volta nell’arte verdiana, dramma e musica, in un supremo equilibrio che non di rado tocca la perfezione della verità artistica ed umana. Non si parla più di melodramma in senso stretto ma di “dramma musicale”, una nuova definizione che sempre più troviamo nelle lettere verdiane del tempo, a significare una nuova consapevolezza artistica e creativa, la necessità di quel rinnovamento nel rapporto tra musica e palcoscenico, che, da questo momento, sarà la massima preoccupazione di Verdi, poiché l’espressione musicale dovrà diventare mezzo di rappresentazione ed espressione di ogni sentimento, di passioni, atteggiamenti, rapporti, di tutto il complesso mondo delle relazioni umane.

Attraverso la musica, tutto il molteplice mondo dei sentimenti si dispiega nelle sue varie forme e nel “Rigoletto” vengono umanizzati anche gli eventi naturali, resi espressione puramente musicale, forse eccessivamente semplice, per chi la paragonasse agli effetti ottenuti dalla scrittura musicale in epoche successive, ma assolutamente perfetta e tale da suscitare un autentico brivido, come se in quei venti che accompagnano l’omicidio di Gilda, si sentissero le voci degli spiriti dei morti che accolgono la loro nuova compagna, o spiriti infernali che aizzano Maddalena e Sparafucile a compiere il loro orrendo gesto: venti, lampi, tuoni, tutto diventa musica al culmine del dramma, come se solo la musica fosse in grado di interpretarne appieno la grandezza e l’ambiguità di significato.

E di ciò dovette rendersi conto, sia pur a malincuore, anche lo scorbutico Hugo, che non potè esimersi dall’apprezzare la capacità con cui Verdi, nel Quartetto, riesce a far cantare quattro sentimenti contrastanti contemporaneamente, all’interno di un unico organismo musicale formalmente perfetto.

Ed ora, di fronte alla grandezza artistica di questo capolavoro, un pensiero lievemente polemico, se vogliamo, dedicato a tutti coloro che continuano a sostenere che “la cultura non serve” e “con la cultura non si mangia”. Personalmente mi è assolutamente impossibile immaginare “Rigoletto” separato dalla sua originaria ambientazione, la Mantova rinascimentale di Vincenzo Gonzaga, di Monteverdi e di Rubens. E, essendo tra le opere più conosciute e rappresentate al mondo, “Rigoletto” ha sempre portato in giro, sugli spartiti, sui libretti, nei dischi e nelle registrazioni video, nonché, ovviamente, nei teatri di tutta la terra, il nome della città di Mantova. Mi ritrovo a pensare a quante persone, dagli Stati Uniti all’Europa, dal Giappone all’Australia al Sud America, quanti appassionati d’opera, e non solo, di questi paesi, abbiano conosciuto il nome di Mantova solo grazie a quest’opera. E quanti, venendo in visita in Italia, avranno forse deciso di visitare questa città, che personalmente trovo fra le più belle d’Italia, grazie all’involontaria, ma efficace promozione fatta da quest’opera. Non credo esista lavoro, per quanto accurato e capillare, di Aziende di Promozione Turistica, Guide turistiche, libri esplicativi della storia della città ed altro, che possano fare per l’immagine ed il nome di Mantova più di quanto abbia già fatto e stia facendo, da oltre un secolo e mezzo, l’opera “Rigoletto”.

“Il Trovatore”, rappresentato a Roma nel gennaio del 1853, porge l’ultimo, straordinario addio al melodramma belcantista, chiudendo definitivamente quel periodo, e segna la fine definitiva anche del melodramma di stampo risorgimentale.

Il dramma romantico spagnolo era ricco di vicende, colpi di scena ed effetti a sorpresa, di una prorompente teatralità che non sfuggì al genio di Verdi, che da questo repertorio trasse, oltre a quest’opera, anche “Simon Boccanegra”, del medesimo autore Gutiérrez, e “La Forza del destino”. “Il Trovatore” guarda al modello di “Ernani”, con cui condivide l’esuberanza melodica e la quadratura ritmica, aspetti che la rendono facilmente ed immediatamente comprensibile. Teatralmente, la complessa trama corre precipitosa verso la conclusione grazie ad una struttura che, pur sviluppandosi all’inizio con una serie di racconti che rimandano ad altri luoghi ed altri momenti, solo di rado inframmezzati dalla visione del reale svolgersi della storia, tende decisamente a far emergere finalmente la vicenda sulla scena (dall’ultimo atto, non vi sono più narrazioni, né giungono notizie che la situazione veramente drammatica di quel momento si stia svolgendo altrove) e quindi precipita immediatamente verso il tragico epilogo.

La vicenda del dramma e poi dell’opera trae origine da un episodio abbastanza marginale della storia di Spagna, riguardante la contesa per la Corona d’Aragona.

Nel 1410, morto senza discendenti il re Martino I, a seguito di accordi diplomatici noti come “Compromesso di Caspe”, venne nominato re Ferdinando di Antequera che divenne, nel 1412, Ferdinando I d’Aragona. Gli si era opposto, come pretendente al trono, Giacomo II di Urgell, ultimo discendente dei sovrani della storica contea catalana dell’Urgell, fondata in epoca carolingia. Giacomo si ribellò alla decisione, e ne derivò un conflitto che si concluse alla fine di ottobre 1413 con la sconfitta di Urgell. Nell’opera, lo scontro fra i partigiani di Urgell, tra i quali il trovatore Manrico con i suoi uomini, e l’esercito di Ferdinando I d’Aragona, sostenuto dalla nobiltà cui appartiene il Conte di Luna (che invece nella realtà storica era stato il terzo pretendente al trono) fa da sfondo alla truce ed infelice storia d’amore di Manrico e Leonora nonché alla tragica, allucinata vicenda della zingara Azucena, a metà fra la follia e la stregoneria, che spende l’intera sua vita errante per vendicare la madre arsa sul rogo dal vecchio Conte di Luna, padre dell’attuale e, come si scoprirà troppo tardi, di Manrico stesso.

Musicalmente, in quest’opera emerge una particolare attenzione per i due personaggi femminili: quelle che sono le protagoniste del dramma, pur sottraendosi reciprocamente e involontariamente l’uomo amato per tutta l’opera, non si incontrano mai, a parte un’unica volta, poco prima della fine, quando però una delle due è addormentata. Tutto il contesto musicale si regge fra questi due poli opposti; il mondo tonale è il loro mondo: Leonora ruota attorno alle tonalità con i bemolli, Azucena a quelle con i diesis, in un curioso contrasto timbrico, per cui il mondo di Leonora diventa cupo e notturno, quasi segnato fin dall’origine da un esito fatale, mentre quello di Azucena è legato alle sonorità brillanti e talora scintillanti che riproducono l’idea ed il pensiero fisso del fuoco, dal mi minore “zingaresco” di Verdi al suo relativo maggiore.

Drammaturgicamente, è un’opera in costante fuga: sappiamo che la massima preoccupazione di Verdi durante gli anni giovanili fu sempre la concisione. In questo caso, forte di anni di esperienza, egli realizza un equilibrio perfetto, attraverso una ripartizione saldissima e regolare. Si tratta di quattro atti, ciascuno dei quali diviso in due quadri distinti, il primo ed il terzo più corti (circa la metà) del secondo e del quarto. Ciascun quadro di ogni atto è a sua volta distinto, ora drammaticamente, ora solo musicalmente (primo del primo atto e secondo del terzo) in due parti. Non solo, la quadratura musicale spinge fino al massimo grado i principi compositivi e formali del giovane Verdi e raggiunge qui un’asciuttezza, essenzialità, precisione non più superabili: tutto il discorso musicale si fonda su frasi regolarissime di due o quattro battute, dalla coerenza interna ineccepibile, così da diventare subito afferrabili, ad un primo ascolto.

E’ il punto d’arrivo di quarant’anni di melodramma italiano e ne condensa, anche sotto l’aspetto contenutistico, gli aspetti essenziali: amore osteggiato, conflitti politici, scambi di persona, agnizioni, ritrovamenti, sacrificio d’amore, questioni familiari, il tutto nel magma incandescente di una musica travolgente, nella quale, anche volendo osservarne talora un eccesso di schematizzazione melodica, nessuna nota è fuori posto. “Il Trovatore” è il melodramma perfetto: la sua rapidità teatrale proviene proprio da questa chiarezza, coerenza interna, facilità espressiva e, pur superando in lunghezza gran parte delle opere più giovanili, ne appare infinitamente più rapido, essenziale e ricco. La regolarità di scrittura, i rimandi sonori dati dal ricorso di medesime tonalità, sia pur non in senso strettamente architettonico, la facilità melodica, il lirismo intenso e fino ad allora mai raggiunto, di alcuni episodi (arie di Leonora e Manrico), la forza ritmica di alcuni momenti eroici (il finale del primo atto e la famosissima cabaletta “Di quella pira”, unico brano nel quale, a mio avviso, le esigenze drammatiche prevalgono su quelle musicali, determinando un’efficacissima, entusiasmante chiusa dell’atto terzo, attraverso il ricorso a due schemi ritmici ripetuti fino all’ossessione che, se non garantiscono varietà musicale, ritraggono però efficacemente l’impeto guerriero di Manrico e dei suoi uomini, e contemporaneamente il martellante tormento che attanaglia l’eroe, bloccato sotto assedio mentre colei che egli crede sua madre rischia il rogo), rendono i brani di quest’opera fra i più popolari dell’intero repertorio lirico mondiale.

La scrittura musicale crea il colore sinistro del racconto di Ferrando e di quelli di Azucena, anche in questo caso attraverso elementi ritmici ricorrenti. Ad esempio: l’ossessione della zingara nella visione del suo infanticidio, espressa dalle ripetute notine scivolate che punteggiano la prima parte della sua terribile narrazione; il ritmo puntato, zingaresco e spagnoleggiante, della canzone “Stride la vampa”, che ritorna per tutto il brano, vera garanzia di unità strutturale e, nello stesso tempo, indice di una follia lucida, come se quanto raccontato da quel momento fosse rimasto impresso a fuoco nell’anima e nel ricordo della donna: ed infatti altre volte ritorna, nel corso dell’opera, a rappresentare le fiamme del rogo, chiarendoci i pensieri ossessivi che turbano la vecchia zingara. Ma anche la scena iniziale presenta tale cupezza, sia nella continuità quasi esasperata del ritmo nel racconto di Ferrando, sia nella scrittura della stretta, vero volo di fantasmi che turbano gli astanti, avvolgendoli nel loro manto di terrore, tanto che, al suono delle campane di mezzanotte, il grido di terrore che esplode sulla scena giunge brutale e travolgente anche allo spettatore. La musica diventa completamente vita reale e, durante le scene notturne, che tinge di un colore bruno, evocativo, ci avvolge nella quiete tormentata e instabile delle grandi scene di Leonora, una sorta di dea dell’oscurità: sia la rivelazione del suo amore che il suo supremo sacrificio trovano nella notte il loro ambiente ideale e non è un caso che entrambe le scene ruotino sulle stesse tonalità.

Abbiamo detto di uno sguardo rivolto all’indietro: ma c’è un episodio, in quest’opera, che, pur sfruttando un’idea attuata in passato anche da altri, apre la strada a nuove realizzazioni musicali e formali e si proietta decisamente verso il futuro: si tratta del “Miserere”.

Ricordiamo che le strutture formali del melodramma prevedevano l’aria doppia, cavatina e cabaletta, inframezzate dall’intervento di un comprimario, o del coro. Verdi aveva superato questa dicotomia in “Macbeth” e “Rigoletto”, opere nelle quali esiste una sola aria solistica con cabaletta. Fra l’aria e la cabaletta dell’ultimo atto di Trovatore, complice la scena, che si sviluppa su tre piani drammatici: il palco, davanti alla torre dei prigionieri, dove Leonora canta il suo amore per Manrico e attende il Conte di Luna; l’interno della Torre, dove sono prigionieri Manrico e Azucena; un imprecisato luogo vicino, forse un convento, dal quale provengono le voci dei monaci che si preparano ad assistere i condannati a morte (e se invece fosse, come nel “Rigoletto”, l’umanizzazione di qualcosa di ultraterreno?), Verdi ha inserito uno dei più grandi brani mai scritti nella sua carriera, sia per la perfetta organizzazione musicale dei distinti momenti espressivi e drammatici, composti in un’unità formale, nella quale varietà e saldezza vanno di pari passo, sia per la straordinaria scelta del colore timbrico, col coro maschile a quattro voci, la piena orchestra con un ritmo funebre in pianissimo, l’arpa che evoca quasi un mondo lontano e ideale (non riusciamo a immaginare, al di là del fascino della finzione melodrammatica, che Manrico possa avere con sé in carcere un’arpa con cui accompagnare il proprio canto): e questi tre elementi, il coro, Leonora col suo canto a singulti, colmo di trepidazione amorosa e di terrore per l’amato, Manrico sostenuto dall’arpa col suo nostalgico canto d’amore e di supplica, prima si susseguono in un ordine perfetto ed equilibrato ma poi, quasi una perorazione conclusiva, si fondono in un unico organismo, con un effetto stupefacente dal punto di vista scenico, musicale (stereofonico, quasi) e drammatico: la commozione regna sovrana di fronte all’assoluta genialità che proietta anche “Il Trovatore” verso altri lidi futuri (questa soluzione scenica e musicale divenne il fondamento di ulteriori conquiste e realizzazioni: da allora la sovrapposizione stratificata di più piani sonori sarebbe stata quasi una costante dei grandi momenti drammatici verdiani, fino alla scena del paravento di “Falstaff”).

Leggiamo ora assieme un biglietto inviato da Verdi al fedele allievo e collaboratore Emanuele Muzio, all’indomani del 6 marzo 1853, data della prima esecuzione de “La Traviata” al Teatro La Fenice di Venezia: “La Traviata, ieri sera, fiasco. La colpa è mia o dei cantanti? Il tempo giudicherà.”

Con “La Traviata” entriamo decisamente in un altro santuario dell’arte verdiana, in una delle opere appartenenti di diritto alla storia del melodramma, uno dei capolavori assoluti del repertorio di ogni tempo e paese nonché uno dei titoli più rappresentati ed amati, opera che conobbe alla sua prima esecuzione un fiasco clamoroso, parte del quale certamente attribuibile ai cantanti, in particolare al baritono Varesi, che aveva trovato la parte non adatta a sé e che non versava in ottime condizioni vocali. C’è da dire, però, che l’opera, così come la conosciamo noi, non era proprio corrispondente a quella che sentì allora il pubblico veneziano e alcuni passi molto importanti furono modificati dall’autore.

“La Traviata” va a riprendere le conquiste del “Rigoletto” e, sia per il soggetto che per la struttura musicale, guarda decisamente al futuro.

Andremo quindi ad esaminare più in profondità quei brani musicali che si inscrivono sulla linea innovativa introdotta dal “Rigoletto”: l’Introduzione dopo il Preludio, il grande Duetto fra Germont e Violetta, il Finale Secondo (la grande festa a casa di Flora), buona parte del Terzo atto che, non a torto, Verdi riteneva il migliore.

Il soggetto, cui Verdi aveva probabilmente pensato già nel 1851, quale possibile alternativa al “Trovatore” se questo non fosse stato di gradimento del librettista Cammarano, è tratto da un romanzo d’impronta autobiografica di Alessandro Dumas figlio, “La Dame aux camélias”, poi divenuto dramma teatrale. Ciò che probabilmente sollecitò l’interesse di Verdi fu l’intrusione nella realtà quotidiana del tempo del mito della cortigiana innamorata, destinata a morte prematura e che, col suo sacrificio d’amore, paga il debito con la società che l’ha sfruttata e poi emarginata, e nello stesso tempo rende libero, e soprattutto reintegrato nell’onore, l’uomo che ama. Si tratta di una figura presente, sotto varie forme, nella letteratura francese degli anni precedenti (Dumas si è certamente ispirato alla “Manon Lescaut” dell’abate Prévost) e soprattutto di quegli anni (in Balzac, ma anche nei numerosi romanzi d’appendice), che ritraeva con realismo talvolta brutale e angoscioso la società borghese della Francia dell’epoca: la triste vicenda del romanzo, che inizia con la vendita all’asta dei beni della defunta Marguerite Gautier, dopo l’incontro fra l’autore e il giovane amante della scomparsa, Armande Duval, presenta, nel sesto capitolo, la sconvolgente scena della riesumazione e del riconoscimento del cadavere della protagonista, il cui volto all’innamorato, ahimè giunto troppo tardi, appare ripugnante: gli occhi ridotti a due cavità, le labbra scomparse, i denti scoperti, i capelli appiccicati sulla fronte, le guance infossate e di un livido colore verde; e dietro quel viso né lui né il narratore possono fare a meno di immaginare e ricordare com’era quel corpo da vivo.

Ma non trascurerei neppure la possibilità che il compositore fosse stimolato dalla possibilità di irrompere anche col teatro lirico, a seguito del romanzo realista, nella vita quotidiana: oggi, abituati come siamo a regie che stravolgono, talora senza alcun senso né apparente né reale, l’ambientazione delle varie opere, e conseguentemente le scene e i costumi, riusciamo a stento a renderci conto dell’effetto violentissimo che doveva fare, per il pubblico dell’epoca, vedere sul palcoscenico gli abiti di ogni giorno, le stesse scene di feste, ricevimenti, quotidianità, dialoghi talora banali, dettagli di faccende domestiche e affari: vedere, in una parola, la propria vita, anche quella più privata ed intima, resa pubblica ed evidente, e, come se non bastasse, elevata alla massima potenza espressiva ed emotiva attraverso la musica.

Verdi, e Piave con lui, furono di un’audacia incredibile, e la stessa censura veneziana, che tanto li aveva fatti penare col “Rigoletto”, questa volta fu molto più accomodante, poiché comunque non si trattava più né di sovrani né di omicidi né di malcostume nobiliare, bensì di vita privata. Per sicurezza, però, fu richiesto lo spostamento nel tempo indietro di circa un secolo e, per parecchi anni ,“La Traviata” fu così rappresentata: ricordo di aver avuto tra le mani uno spartito per canto e pianoforte in cui, sul frontespizio, lo svolgimento della vicenda veniva ancora collocato nel XVIII secolo.

Fino a questo momento, con la significativa eccezione dello “Stiffelio”, che comunque riportava la vicenda ad almeno trenta o quarant’anni prima, in un contesto ambientale, culturale e sociale molto diverso da quello in cui viveva lo stesso Verdi, egli aveva scelto soggetti e situazioni che potremmo definire assolutamente “melodrammatici”: onore, vendetta, passioni esasperate, scontri di popoli, gelosie, episodi romanzeschi al limite dell’inverosimile e così via, tutti situati in epoche che vanno dall’antichità (Nabucco) al primo Ottocento (Il Corsaro, Stiffelio), con una predilezione assoluta per il Medioevo. Ora, con “La Traviata”, l’amore diventa quello del suo tempo, i rapporti sociali anche, le emozioni e le vicende sono quelle che ognuno di coloro che si trovavano fra il pubblico poteva riconoscere come proprie, e ciò che in un primo momento aveva nuociuto all’opera, poi ne divenne il vero punto di forza. “La Traviata” assurge alla categoria del mito perché presenta situazioni, sentimenti, valori eternamente vivi, nei quali ciascuno, per la sua parte, si può identificare: non serve essere una prostituta di alta classe per riconoscere in Violetta una femminilità ardente, assoluta, presente in ogni suo gesto, soprattutto in quel sacrificio per il bene dell’amato che ogni donna, anche se non ha conosciuto direttamente, sa comunque essere possibile; così come ciascuno potrà riconoscere in lei il momento in cui, in un modo o nell’altro, si è sentito solo, tradito, abbandonato, proprio da coloro che prima lo hanno sfruttato per i propri scopi. Verdi ama Violetta in modo particolare, e questo in contrasto evidente con una facile e superficiale letteratura, a metà fra lo scandalistico e il paternalistico edificante, che ha voluto vedere nella sua protagonista la trasfigurazione poetica di Giuseppina Strepponi. Ora, al di là del fatto che la Strepponi possa aver avuto una vita da artista del tempo, incline quindi a facili e molteplici relazioni, da qui a giudicarla una donna di facili costumi, specialmente in virtù del fatto che all’epoca appunto le cantanti, le ballerine, le attrici coinducevano tutte una vita di tal genere, ce ne passa. Senza tener conto del fatto che Verdi amava questa donna, viveva con lei da qualche tempo e mai avrebbe potuto arrecarle un’offesa così aperta e spudorata, tesi questa suffragata anche dalla lettera che egli scrisse ad Antonio Barezzi, per mettere a tacere i pettegolezzi e le chiacchiere di paese che si facevano sulla loro relazione al di fuori del matrimonio (è questo un altro esempio di come Verdi, alla fin fine, non fosse particolarmente contento dei suoi compaesani).

“Io non ho nulla da nascondere – scrive Verdi. – In casa mia vive una Signora libera indipendente, amante come me della vita solitaria, con una fortuna che la mette al coperto da ogni bisogno. Nè io, né lei dobbiamo a chicchessia conto delle nostre azioni; ma d’altronde chi sa quali rapporti esistano fra noi? Quali gli affari? Quali i legami? Quali i diritti che io ho su di Lei, ed Ella su di me? Chi sa s’Ella è o non è mia moglie? Ed in questo caso chi sa quali sono i motivi particolari, quali le idee da tacerne la pubblicazione? Chi sa se ciò sia bene o male? Perché non potrebbe anche essere un bene? E fosse anche un male chi ha diritto di scagliarci l’anatema?”

Piuttosto, oserei pensare che nella Violetta del secondo e terzo atto dell’opera ritorni, trasfigurata da un’arte musicale intrisa di autentica poesia umana, la figura della sfortunata, giovane Margherita Barezzi, moglie fedele e devota, purtroppo per poco tempo, (e si chiamava Marguerite anche la protagonista di Dumas...), come se il ricordo della morte prematura che l’aveva sottratta al marito fosse tornato a lui sotto la forma del sacrificio d’amore, della rinuncia, dell’abbandono, quasi il destino avesse richiesto a quella giovane un così estremo sacrificio, per permettere al genio che aveva sposato, e di cui non conosceva ancora la grandezza, di compiere da solo quel cammino supremo che lo stava conducendo ai vertici della sua arte, grazie anche a quel dolore e a quella disperazione. Come dicevo nella prima conferenza, l’arte musicale di Verdi ha trasfigurato e reso eterna la sua piccola, giovane famigliola distrutta dal destino, forse proprio perché egli potesse, sorretto dal loro ricordo, dal rimpianto e dalla nostalgia, alimentare la sua creatività, rendere loro la giustizia della storia e portarli con sé nell’eternità del ricordo.

La morte di Margherita è forse il sacrificio di Violetta: quale canto più dolce, commovente, ispirato è mai uscito dalla penna e dall’anima di Verdi del “Dite alla giovane” del duetto del secondo atto, il momento supremo del sacrificio e dell’abbandono di Violetta, così intenso e così toccante che pare veramente l’ultimo saluto dell’amatissima Margherita, che con la sua morte dona al giovane vedovo la forza e l’alimento di una nuova arte, e conclude la sua agonia con quell’ultimo grido disperato “Amami, Alfredo!”, uno dei momenti più commoventi, straordinari, travolgenti dell’intera storia della musica, come se Margherita, nel momento del trapasso, avesse implorato il ricordo affettuoso e amorevole dell’uomo con cui aveva condiviso gioie giovanili e strazianti dolori: quel grido “Amami, Alfredo” di Violetta che significa soprattutto: “Non dimenticarmi, non dimenticare quanto ti ho amato!” è lo stesso di Margherita a Verdi; e il suo compagno di un tempo ha rispettato tale volontà, innalzandole un autentico monumento, con una delle pagine più toccanti del melodramma di tutti i tempi. Dopo questa perorazione intensissima, Violetta è ormai morta: tutto ciò che segue è solo un progressivo scendere nella tomba di un’anima ormai priva di ogni ragione di vita.

Ed anche l’amore ardente, appassionato e irrazionale di Alfredo è un’immagine in cui molti possono riconoscersi, così come la moralità ipocrita e talora urtante del padre Germont rappresenta quel muro cieco di ostinazione e incomprensione contro il quale molti si sono scontrati: e Verdi, che nella musica di Violetta ascende a vertici sublimi e inarrivabili, con quella di Alfredo rappresenta appieno l’ingenuità incosciente e irrazionale del giovane (si vedano i pizzicati che sostengono la sua aria), ma anche l’incapacità assoluta di ascoltare i suoi interlocutori: nel duetto del primo atto, dopo che Violetta lo sollecita a non pensare più a lei, egli prosegue diritto con il suo canto, come se ella non ci fosse, recitando bene la lezione del bravo ragazzo innamorato e cortese; nel secondo, invece, non le dà ascolto quando la sorprende a scrivere qualcosa di sospetto e, quando ella gli si getta al collo proclamandogli solennemente il suo eterno amore, non capisce la ragione di tanto trasporto e non se la chiede neppure (sentiamo come la musica, dalla grandezza della perorazione di Violetta, cade nel banale assoluto, quando Alfredo rimane solo); e non ascolta neppure la sollecitazione del padre, che lo invita a tornare a casa: drammaturgicamente, nulla ottiene meno il suo scopo della romanza di Germont, la cui enfasi oratoria, paternalistica e ipocritamente edificante, viene subito annichilita dalla violenta reazione del figlio.

Con la musica di Germont padre, quindi, Verdi dà voce ad un atteggiamento intimamente arido e falso, forte delle convenzioni sociali e fondato su una moralità sorda ed ottusa e sull’uso a proprio vantaggio dei precetti religiosi; ma sa comunque anche distinguere quel poco di sincerità e trasporto paterno, che Germont possiede a tratti, anche se esclusivamente con secondi, interessati fini, e, in alcuni momenti, la musica è sufficientemente sincera per essere convincente (“Pura siccome un angelo” ad esempio), ma sa anche individuare quella grettezza tutta borghese contro la quale egli stesso si era scagliato: “Un dì quando le veneri” e “No, generosa, vivere” sono un autentico capolavoro musicale d’ipocrisia e mai questo atteggiamento avrebbe potuto essere meglio espresso.

Dunque, composta in pochi giorni, segno evidente che Verdi aveva già trovato il colore drammatico e musicale dell’intera opera, nonostante i problemi dovuti alle trattative col teatro, soprattuto riguardo i cantanti che avrebbero interpretato la prima, e il fatto che fino a gennaio era impegnato con il debutto de “Il Trovatore”, l’opera andò in scena, come abbiamo visto, il 6 marzo 1853, sortendo un esito clamorosamente disastroso: in un altro biglietto Verdi si lamenta del fatto che il pubblico ridesse, ma si dichiara tranquillo e sicuro che l’ultima parola sulla sua opera fosse ancora da dire. Dopo un’accurata revisione, che egli stesso dichiarò per lettera essere stata quasi ininfluente, ma che in realtà riuscì a dare un taglio molto migliore ad alcune sezioni dell’opera, così che alcuni episodi presero un aspetto del tutto nuovo (il passo del grande duetto “Ah il supplizio è sì spietato” e la cabaletta di Germont, ad esempio), l’opera tornò in scena a Venezia, l’anno dopo, al Teatro San Benedetto, con un grande successo, considerando che parte del pubblico presente era la stessa che l’anno prima aveva contestato e deriso quello stesso lavoro. Da quel momento, l’opera iniziò il suo giro trionfale nei teatri di tutto il mondo ed è a tutt’oggi una delle più rappresentate.

Come la prima scena di “Rigoletto”, così anche quella de “La Traviata” consta di una grande introduzione di circa venti minuti, che raggruppa in un unico organismo musicale quelli che, nell’architettura melodrammatica precedente, sarebbero stati numeri diversi: una scena iniziale con un ricco dialogo alternato fra solisti e coro, basata su due temi musicali molto differenti, il primo ritmico e brillantissimo, caratterizzato da intervalli melodici ampi, il secondo, invece, morbido e legato, nel quale prevalgono intervalli di grado congiunto; il famosissimo brindisi, alternato fra soli e coro; il valzer, composto di vari numeri, in mezzo al quale si posiziona il Duetto fra Violetta ed Alfredo; un coro finale introdotto dal primo tema della prima scena. Non ci sono strutture portanti tonali in questa scena, ma tutto si svolge con la naturalezza dell’improvvisazione, con una ricchezza di elementi tematici (come in Rigoletto) tale che, mentre l’organismo drammatico si ravviva nella sua essenzialità, quello musicale si arricchisce e scorre rapidamente: gli elementi di passaggio si sono ormai fusi con i pezzi chiusi e li incorniciano in un tessuto continuo, nel quale il recitativo è ormai diventato canto e il canto ha assunto un’espressività tale da diventare esso stesso recitazione. Anche il grande duetto del secondo atto rinuncia alla ripartizione formale tradizionale, essendo composto da un gran numero di episodi diversi, affidati ora all’uno ora all’altro dei protagonisti, e unendo saldamente, all’interno di una struttura bipartita, i vari momenti musicali e drammatici: l’unico vero recitativo è confinato alle pagine iniziali della scena, dopo di che domina incontrastato il discorso musicale, ora nell’orchestra (momenti di passaggio), ora nel canto (enunciazioni narrative o emotive), ora assieme (nei punti di maggiore valenza drammatica, per un ovvio e naturale climax espressivo).

E, allo stesso modo, anche la drammaticissima scena del gioco, culminante nello scontro fra Violetta ed Alfredo, nell’offesa alla donna, nel grande concertato durante il quale il Barone sfida il giovane rivale a duello, è un organismo musicale unico, entro al quale sono accostati e riconoscibilissimi più numeri distinti; ma il momento in cui la tensione cresce fino ad un limite insostenibile è trattato come un ampio brano dialogato, con sporadici interventi corali, fondato su due temi principali, uno dei quali riservato esclusivamente agli interventi della protagonista.

Il terzo atto, infine, è un’autentica antologia di splendidi momenti musicali che danno vita intimamente al dramma, a partire dal preludio, che si riallaccia idealmente a quello del primo atto, con quel dolorosissimo tema a corale affidato al registro acuto dei violini divisi, né più né meno di quanto aveva fatto Wagner nel preludio del “Lohengrin” tre anni prima (ma ancora in Italia non se ne sapeva nulla), che esprime pienamente quel senso di sospensione del tempo dovuta alla malattia mortale, più ancora interiore e morale che fisica, che affligge il malato senza speranza, sensazione la cui particolarità difficilmente descrivibile ritroveremo nel terzo atto del “Tristan und Isolde”, nel lamento dell’eroe ferito a morte e languente per la lontananza dell’amata. La musica di questo preludio ritorna, frammentaria, a punteggiare tutta la prima scena, distendendo su di essa e sui suoi protagonisti, Violetta, Annina e il Dottor Grénvil, il suo soffio di morte: sostanzialmente fondata su un sommesso recitativo di straordinaria semplicità ed espressività, essa si apre però anche ad un dolcissimo, patetico frammento cantabile sulle parole “Mi confortò ier sera un pio ministro...”, anch’esso ripreso dal preludio. Segue il sommesso parlato con la lettura della lettera e quindi il canto di addio, la seconda aria di Violetta, discretamente accompagnata dalla voce solitaria e desolata dell’oboe solista – strumento al quale in questo periodo della sua attività Verdi affida le cantilene o gli interventi più mesti e dolorosi, dall’introduzione di “Tutte le feste al tempio” del “Rigoletto” a “Stride la vampa” ne “Il Trovatore” – e nella quale compare per l’unica volta, sulle labbra della stessa protagonista, la parola che dà il titolo all’opera. E a questo punto la vita alla quale si è detto addio penetra come un’ossessione nella camera e nella mente della moribonda, attraverso quello sguaiato baccanale che sembra il canto di trionfo della morte sulla sua prossima vittima. La prima parte del duetto che segue rimane limitata agli stilemi tradizionali, eccettuata, se vogliamo, la partecipazione emotiva di Verdi che si pone nei panni di Alfredo, giovane amante prossimo alla perdita della sua donna. Ma ciò che segue ci riserva invece un colpo di genio teatrale e musicale che vale da solo l’intera opera: l’ultimo anelito straziante di Violetta alla vita, “Digli che vivere ancor vogl’io” viene interrotto da un potentissimo unisono degli ottoni, che dà quasi l’impressione di uno schianto contro un muro: la musica nega a Violetta quest’ultimo anelito di vita e, con un brivido che non può fare a meno di investire l’ascoltatore, la proietta completamente nell’aura della morte.

In quest’opera si fa luce anche un primo accenno di quella che è la filosofia sociale verdiana: le convenzioni e le ipocrisie sono marchiate a fuoco da un atteggiamento morale completamente opposto; in un certo senso, pare che Verdi approfitti del tema morale per mettere in luce la propria moralità, e affrontare quella convenzionale e falsa della maggioranza della gente: su un fondo di pessimismo, che da questo momento in poi troverà molteplici occasioni di manifestarsi, sulla consapevolezza rassegnata dell’esistenza dell’ingiustizia, quasi connaturata alla realtà umana, si innesta il sentimento amoroso, capace di redimere e temperare le asperità della vita: anche quando apparentemente l’innamorato sembra sconfitto, in realtà la sua vittoria va oltre il tempo e la limitatezza del presente e dell’effimero. Verdi ha cantato con l’eroica morte di Violetta, sempre più aggrappata alla vita, anche la fine di Margherita Barezzi, sapendo che con la morte quella donna si sarebbe conquistata un posto nell’eternità e nella riconoscente memoria della storia, per sempre al suo fianco: anche l’opera, come la poesia di foscoliana memoria, vince l’oblio dei secoli.

Il Verdi risorgimentale aveva cantato passioni di masse, scontri tra popoli e fedi diverse, conflitti storici epocali, lotte fra oppressori ed oppressi, ed era diventato la voce di questi ultimi, estendendo poeticamente la sua partecipazione emotiva dalla scena alla realtà attorno a lui, al punto che, nella sua musica, nelle sue melodie e nei suoi cori si identificarono la passioni libertarie e risorgimentali del popolo italiano.

Ora, mutate le condizioni storiche, come abbiamo detto all’inizio, attraverso il ponte della “Luisa Miller” del 1849 e dello “Stiffelio” dell’anno successivo, Verdi lascia l’universo dei popoli oppressi per rivolgere la sua attenzione a cantare i singoli oppressi, passando dalle comunità di uomini sottomessi, sconfitti ed umiliati, agli individui smarriti ed emarginati.

Rigoletto è un buffone di corte, costretto a ridere con l’anima straziata dal pianto, circondato da un vuoto esistenziale spaventoso colmato solo dalla figlia; Manrico è un guerriero, destinato alla sconfitta in quanto ha sposato la causa del perdente, e quindi è un ribelle e viene bandito, costretto a vivere da esule presso le comunità di zingari; Violetta è l’emarginata sociale, colei alla quale la stessa società borghese e perbenista che non vuole vedere né accettare negli altri ciò che ella stessa fa, e che l’ha esaltata e sfruttata solo per i propri fini gaudenti ed edonistici, non offre alcuna possibilità di redenzione né una seconda opportunità, costringendola a morire, sola e rifiutata, mentre i suoi assassini celebrano festosamente tra canti, balli e gozzoviglie il Carnevale parigino.

Si tratta di tre esclusi, tre estranei al mondo in cui sono, loro malgrado, costretti a vivere; tre individui soli, che trascinano nell’emarginazione e nella sconfitta coloro che gravitano attorno a loro; sono quelli che lo scrittore Giovanni Verga avrebbe definito i “vinti”: vinti dalla congiura degli altri uomini, i cosiddetti “normali”, contro di loro.

E Verdi sceglie, uno dopo l’altro, quali protagonisti del genere teatrale più popolare e diffuso in Italia, proprio i singoli emarginati, non solo questi tre vinti, tre persone fuori dal comune, incapaci di integrarsi, se non fisicamente, interiormente, ma anche Gilda, Azucena, la stessa Leonora. Egli richiama l’attenzione su di loro, con una musica che assume spesso tratti commoventi e toccanti, si mette dalla loro parte, sempre e comunque, senza alcun istante di dubbio, e li eleva a figure immortali non solo della grande arte musicale ma del teatro universale, autentici miti, come si diceva di Violetta. Il disabile (e padre), e la figlia intimamente ribelle ad una protezione soffocante ma incapace di affrontare una realtà dalla quale è sempre stata esclusa; il proscritto e bandito (nonché figlio e guerriero), la madre perseguitata dalla propria coscienza e dalle proprie visioni, prima ancora che dal potere a lei avverso, e la nobildonna che rifiuta i vantaggi insiti in un matrimonio prestigioso e rifugge dalle convenzioni nobiliari e familiari, isolandosi dal suo ambiente e venendone di conseguenza travolta; la prostituta, figura che il moralismo sociale ha sempre visto con ipocrisia e disprezzo (ma insieme anche la donna che incarna in sé il supremo amore): tutti entrano nella storia grazie all’umanità di Verdi, che assume su di sé i loro dolori, gli strazi, i desideri, le speranze, lo smarrimento di fronte al mondo e alla morte (le frasi strazianti e spezzate di Rigoletto appena si accorge del corpo di Gilda dentro al sacco; il canto dolcissimo e ormai celestiale di Manrico che tenta di consolare ed addormentare Azucena nel carcere poco prima della loro morte; la commovente scena di Violetta all’inizio del terzo atto e, soprattutto, come si diceva poco sopra, quel violentissimo unissono di “sol” che nega inesorabilmente alla giovane donna la sua ultima speranza, la sua ultima volontà di vita, e che infatti è seguito da una delle frasi più lapidarie e sconvolgenti dell’intero repertorio: “Ma se tornando non m’hai salvato, a niuno in terra salvarmi è dato”); grazie a quell’umanità del grande genio – dicevo – che ha rivolto loro un accento di carità, rispetto e passione, quella stessa umanità che egli, uomo di poche effusioni e di nullo sentimentalismo, dimostrava però con i suoi contadini, con i poveri, con i più sfortunati.

A questo punto, Verdi, ormai definitivamente affermato, è giunto ad un punto cruciale della sua carriera artistica e si ritrova praticamente a dover ricominciare dall’inizio, pur facendo tesoro delle sue conquiste: ha chiuso una fase del melodramma, ne ha aperta un’altra ed ora è costretto a rincorrere quel rinnovamento che egli stesso si è imposto. Indietro non era più possibile tornare, mentre andare avanti comportava l’esigenza di trovare nuovi modi espressivi, nuove possibilità drammaturgiche, nuovi progressi nel linguaggio musicale, a partire dalla strada tracciata dai tre capolavori della Trilogia.

Egli stesso era giunto a maturare una nuova, maggiore consapevolezza (“potrei scrivere una Traviata all’anno... ed accumulare una fortuna tre volte maggiore quella che possiedo...” ebbe a scrivere più avanti) che gli imponeva la ricerca di un rinnovamento artistico non disgiunto da quello personale.

Abbiamo visto, nel nostro primo incontro, come nel 1847 Verdi avesse fatto il suo ingresso nell’ambiente teatrale di Londra e Parigi; nel primo caso con un’opera nuova, “I Masnadieri”, nel secondo con “Jérusalem”, rifacimento de “I Lombardi”.

La richiesta di comporre un’opera nuova per Parigi, per un’occasione importantissima quale l’inaugurazione dell’Exposition Universelle voluta dall’imperatore Napoleone III – evento internazionale con la presentazione di prodotti industriali ed opere di arti figurative, con la partecipazione di vari paesi e che avrebbe significato, per un compositore, la definitiva affermazione sul piano mondiale – e con la collaborazione del principe dei librettisti francesi, Eugène Scribe, autore dei testi dei più importanti Grand-opéras del repertorio, venne dopo che precedenti trattative si erano interrotte per sopraggiunti impegni urgenti di Verdi.

Arrivare a Parigi era l’obbiettivo di tutti i grandi compositori internazionali (anche Wagner vi sarebbe giunto, qualche anno dopo) ma, accanto agli onori, comportava oneri non indifferenti, e fu con questi che Verdi dovette frontalmente scontrarsi in questa sua seconda esperienza parigina. Anche i compositori italiani precedenti, una volta raggiunta la notorietà nella penisola, si erano posti il traguardo di conquistare la piazza di Parigi, unica che avrebbe loro consentito di ambire a rinomanza internazionale.

A Parigi esisteva il “Théatre des Italiens”, dove le opere italiane erano rappresentate in lingua italiana, ma era all’Opéra che si otteneva la consacrazione e, per accedervi, bisognava sottostare a volte a lunghe attese e complesse trattative ed a regole inflessibili: prima di Verdi, fra gli stranieri, era riuscito a Rossini, che aveva dato origine al genere con il “Guillaume Tell”, poi al tedesco, ma francese d’adozione, Meyerbeer, vero nume tutelare di quel repertorio, quindi a Donizetti; Bellini, purtroppo, morì mentre stava prendendo accordi per il suo primo contratto in quel teatro.

Questo genere di opera teatrale presentava alcuni elementi caratteristici, cui ogni musicista doveva conformarsi: soggetto storico; ampiezza di dimensioni (quattro o, più spesso, cinque atti, tagliati in modo ben definito); gran numero di personaggi, soprattutto secondari; obbligo del balletto; abbondanza di scene spettacolari, con l’intervento di masse corali, solisti e comparse.

Dal punto di vista artistico, per un musicista italiano si trattava di un innegabile progresso, sia per la necessità di curare maggiormente l’armonizzazione, sia per l’esigenza di occuparsi con perizia ed attenzione della strumentazione (gli italiani passavano per banali armonizzatori, autori di accompagnamenti pessimi, e orchestratori sciatti e trascurati), sia perché nella struttura di queste opere comparivano una maggiore varietà di generi musicali, sia ancora perché le orchestre e i cori erano più grandi, e infine perché l’architettura drammaturgica dei libretti era completamente diversa dagli schemi tradizionali italiani.

Fino a questo momento, l’opera verdiana si era innestata sulla tradizione di stampo rossiniano, portandola al suo estremo grado di maturazione ed all’esaurimento delle sue potenzialità con “Il Trovatore” e ponendo le basi per un rinnovamento in senso drammatico con “Rigoletto” e “La Traviata”. L’altro grande filone che storicamente percorre il periodo della prima affermazione verdiana è, appunto, il francese Grand-Opéra (anche in Francia, altri generi melodrammatici seri cominceranno a definirsi nella seconda metà del secolo).

Qui, dunque, tende in questo momento l’arte verdiana, che già aveva beneficiato del primo contatto con la musica francese, e che non si limiterà al fatto esteriore della composizione di un nuovo dramma ma vi cercherà nuove idee, nuova linfa e nuova ispirazione: di fatto, per quanto poco rappresentata (certamente non per motivi musicali ma più probabilmente per la difficoltà di allestimento) e non popolare, se si eccettuano la sinfonia, l’aria di Procida e il Bolero di Helene, “Les Vêpres Siciliennes” segna un momento capitale nell’evoluzione del compositore. Da allora, in ogni titolo successivo, per una ragione ora musicale (uso dell’orchestra, armonizzazioni, forma dei singoli brani), ora strutturale, ora drammaturgica, si potrà trovare qualche elemento di collegamento o di derivazione da quest’opera.

La vecchia tradizione italiana si era ormai esaurita: morto anche Donizetti, ritirato Rossini, attivi solo i compositori minori, alcuni dei quali anche dotati di personalità, come Pacini e Mercadante, ma incapaci di uscire dal solco di quelle regole comunemente accettate, dei procedimenti tecnici e costruttivi legati al passato e perpetuati da librettisti che si rifacevano all’opera settecentesca, rimaneva il solo astro verdiano a lottare per superare quel crollo.

Tuttavia, le acquisizioni che Verdi aveva fatto nei suoi primi contatti con gli ambienti musicali stranieri e che sarebbero proseguite con quest’opera, non hanno mai alterato né il linguaggio né le intenzioni né il carattere dei suoi lavori: ciò che poté raggiungere grazie a queste nuove esperienze è qualcosa che aveva già tentato, concepito, talvolta parzialmente realizzato in precedenza.

Ma cosa conquista Verdi al contatto con l’ambiente musicale francese, applicandolo da par suo e superando in questo anche i maggiori compositori nazionali? L’uso dell’aria ternaria in alternativa o in sostituzione dell’aria doppia italiana (l’esempio più chiaro è l’aria di Procida e, nel successivo repertorio italiano, quella di Amelia del “Simon Boccanegra”); l’introduzione del “Couplets”, caratteristico e diverso rispetto all’aria strofica variata (esempi del primo sono le due brevi arie di Oscar di “Un ballo in maschera”, un esempio della seconda è “Non so le tetre immagini” da “Il Corsaro”); l’uso delle reminiscenze tematiche sui suoni acuti tremolati degli archi, effetto evidentemente reso possibile dal gran numero di violini di cui disponeva l’orchestra dell’Opéra (ma questo particolare gesto compositivo, evidente nella ripresa della sinfonia, era già stato introdotto, sia pur in forma lievemente diversa, pochi istanti prima della morte di Violetta); le sovrapposizioni sceniche e musicali (c’era già stato il “Miserere” del “Trovatore” ma poi, dopo i grandiosi finali di “Les Vêpres Siciliennes”, ci saranno quelli del primo atto di “Un ballo in maschera”, in cui si sovrappongono due blocchi tematici, del terzo del “Don Carlos” e del secondo di “Aida”, in cui si sovrappongono tre blocchi tematici prima sentiti separatamente).

Verdi dunque ha la capacità di accogliere ogni stimolo che gli deriva da nuove conoscenze, rielaborandolo con la sua prorompente personalità creativa e riutilizzandolo, qualora se ne presentasse la necessità, ma senza mai rifiutare ciò che, pur radicato nel passato, poteva offrirgli la soluzione ad un problema scenico o ad un effetto musicale o fosse funzionale ad uno scopo espressivo; il senso vero di tale utilizzo sta nel modo, completamente nuovo, con cui egli riesce, in ogni opera successiva, come era stato anche negli anni giovanili, a presentare elementi innovativi, una sorta di costante progresso verso un nuovo punto di arrivo.

Torniamo dunque a “Les Vêpres Siciliennes”. Abbiamo anticipato che per Verdi non fu una passeggiata e non solo per la lunghezza del lavoro e la fatica dell’ispirazione (dice in una lettera: “Io scrivo ben lentamente, anzi può darsi che non scriva. Non so da che proviene, ma so che il libretto è là, sempre all’istesso posto.”), ma anche perché si scontrò con un sistema di convenzioni, anche burocratiche, che in Italia era finalmente riuscito, se non a dominare, almeno a fronteggiare. Se dai librettisti italiani poteva esigere tagli di scene e versificazioni secondo le sue esigenze, a Parigi dovette sottostare non tanto all’autorità (e ad una furbizia tanto vicina alla frode) di Scribe, che, senza avvisarlo, gli presentò, sotto questo nuovo titolo, cambiando nomi, epoca e ambientazione, il riadattamento del libretto de “Le Duc d’Albe”, lasciato a metà da Donizetti, e che tuttavia fece se non altro le viste di collaborare fattivamente, quanto invece alle esigenze irrinunciabili ed indiscutibili della forma teatrale del Grand-Opéra, del tipo di lavoro di preparazione, del gusto del pubblico. Fu una vera e propria agonia (o Verdi la fece apparire tale): discussioni con la direzione, litigi con l’orchestra indisciplinata, tentativi spesso delusi di far dare al libretto una maggiore sostanza drammatica, poiché la trama era alquanto artificiosa e improbabile. A complicare il tutto ci si mise pure la fuga d’amore della primadonna, Sofia Cruvelli, che abbandonò improvvisamente le prove senza più dare notizie per alcune settimane (fu uno scandalo di portata europea) e rischiando di mandare a monte tutto l’allestimento. Di tale disagio rimangono alcune testimonianze epistolari, riferite all’ambiente della musica e del teatro parigino:

“Nissun teatro mi ha mai recato tante noje e tanti dispiaceri come l’Opéra.” E poi: “Un’opera all’Opéra è fatica da ammazzare un toro.” E ancora: “Nei vostri teatri musicali... vi sono troppi Sapienti! Ciascuno vuol giudicare a norma delle proprie cognizioni, de’ suoi gusti, e, quel che è peggio, secondo un sistema, senza tener conto del carattere, e dell’individualità dell’autore... Cosa significano mai queste povere parole di commun... di bon goût... Io credo all’Ispirazione; voi altri alla Fattura...”

Niente male, per un maestro già ben affermato che però sentiva pressante l’urgenza di concepire un nuovo ideale drammatico e desiderava avere tutta la calma e serenità necessarie per rinnovarsi.

Dal punto di vista musicale, ben conscio delle esigenze francesi e dei problemi affrontati dai suoi predecessori nello scrivere per quel pubblico (Bellini in particolare), Verdi agisce prima di tutto sulla qualità degli accompagnamenti (processo che aveva iniziato autonomamente già molto tempo prima), cura maggiormente la strumentazione (proseguendo su una linea di progressiva raffinatezza che aveva inaugurato già dalle ultime opere), aggiunge alla scrittura fioriture ed abbellimenti che da sempre avevano caratterizzato lo stile musicale francese (si veda ad esempio il Bolero di Helene) e, ovviamente, pone particolare cura nelle armonizzazioni, conquistando alcune tipiche successioni accordali che poi userà ancora (si definiscono “armonia non funzionale” in quanto trattasi di accordi in relazione fra loro ma avulsi dal contesto tonale in cui sono inseriti, pur provenendo e muovendo verso accordi della tonalità principale con collegamenti tecnicamente regolari e grammaticalmente corretti).

Tutto questo si aggiunge alla prosecuzione del processo di emancipazione dalle forme chiuse vocali e di progressiva crescita d’importanza tematica e drammatica dell’orchestra, mentre si afferma il principio della parola musicata col suo accento più opportuno, la “parola scenica”.

Invece, sulla via dell’elaborazione psicologica dei personaggi che acquistano la loro individualità, proseguendo il cammino iniziato con la Trilogia, emerge soprattutto – manco a dirlo – la figura del padre: Monfort, dapprima oppressore inflessibile, poi addolcito dal sentimento della paternità, quindi magnanimo ed infine vittima: una figura di potente solitario e triste, bisognoso di affetti e di comprensione del proprio dramma, figura, forse larvatamente autobiografica, che ritroveremo quasi costantemente d’ora in poi (Simon Boccanegra, Riccardo, Filippo II, la principessa Amneris, lo stesso Otello).

L’opera ebbe un enorme successo, valse a Verdi la stima di tutti i maggiori musicisti francesi (compreso Berlioz) e onorificenze conferitegli dall’Imperatore, e fu replicata numerose volte. In Italia giunse con titoli diversi e rimaneggiamenti vari a causa della censura, e non riuscì mai ad affermarsi definitivamente nel repertorio popolare, neppure nella traduzione italiana, pur essendo un’importante opera di grandi valori musicali e proiettata verso un nuovo ideale drammatico.

Naturalmente, l’accettazione di Verdi, forse ancora inconsapevole di ciò a cui sarebbe andato incontro, ed il relativo lavoro, suscitarono le meschine reazioni nazionalistiche italiane, di coloro che non riuscivano a comprendere come colui che poteva sedere sul trono del melodramma italiano, si accontentasse di una panca ai piedi di Meyerbeer. Ora, a parte che è tutto da dimostrare quanto Verdi si ritenesse inferiore a Meyerbeer, questo atteggiamento, di cui si fece interprete lo stesso Piave, denotava l’incapacità generale di comprendere le intime e pressanti ragioni di un artista in continua evoluzione e desideroso di cercare ovunque nuove vie, nuove fonti d’ispirazione, nuovi suggerimenti da incorporare nella sua strada di continuo progresso e affinamento; gli Italiani avrebbero forse preferito sentire per altri quarant’anni copie sbiadite di Rigoletti, Trovatori e Traviate, secondo quello che fu il difetto principe dei compositori minori del tempo, sia italiani che francesi.

Dopo “Les Vêpres Siciliennes”, Verdi rimette mano allo “Stiffelio” scritto nel 1850, trasformandolo in “Aroldo”, opera musicalmente molto valida, che risente positivamente dell’esperienza della trilogia ma che, purtroppo, non regge drammaturgicamente la vicenda del suo fratello maggiore, anticipata di sei secoli. Tuttavia, anche questo titolo è fondamentale per il progresso verdiano, sulla scia di quanto già osservato per l’opera precedente: si passa dal motivo tematico al singolo accento, nell’ottica della ricerca della verità drammatica attraverso la musica (vi sono esempi non inferiori a quelli della trilogia).

Questa è la conquista ulteriore che appare anche nel successivo “Simon Boccanegra”, unita alla crescente disposizione verso organismi formali sempre più ampi, al punto che, in quest’opera, nel prologo, nel primo e nel terzo atto tutto si sviluppa senza soluzione di continuità, raggruppando momenti musicalmente diversi e per tanti aspetti autonomi; solo il secondo atto conserva ancora l’antica struttura a numeri chiusi. In tal modo, gli episodi lirici e quelli drammatici, ossia l’evoluzione dei vecchi aria e recitativo, si fondono in un unico, rapido flusso musicale e drammatico, senza fratture, realizzando pienamente il principio del cosiddetto “dramma cantato”.

Quest’opera, scritta con molta attenzione e, proprio per la sua natura innovativa, considerata di transizione, destinata ad un iniziale insuccesso, e del cui valore Verdi era sempre stato convinto (“Il Bocanegra non è inferiore a tante mie altre opere più fortunate di questa.”), venne ripresa e revisionata nel 1881.

Verdi prosegue nel suo cammino di rinnovamento coll’intenzione di superare definitivamente gli schemi precedenti, intenzione che non è dettata da impulsi o occasioni esterne ma da una deliberata volontà: punto d’arrivo è la costruzione del dramma musicale, la ricerca di una nuova, reale originalità.

Il soggetto, tratto, come abbiamo già visto, da un dramma di Gutierrez, dalla trama particolarmente complessa a sfondo storico, intreccia, come nel “Trovatore”, amore, politica (qui nella forma di scontri e conflitti tra famiglie per il potere cittadino), figli smarriti e ritrovati; individuato dal compositore nel 1856, fu affidato alla versificazione di Piave.

Ma solo nel 1879, dopo più di vent’anni, Verdi, con la collaborazione di A. Boito, vi rimise mano, ideando quello che rimane uno dei massimi capolavori della sua carriera creativa, la scena del Consiglio, un capolavoro musicale e drammatico, in cui le contrapposizioni politiche, i rapporti sociali, quelli personali, la raffigurazione del popolo in tumulto, la suprema invocazione di pace del Doge, in una delle pagine più ardenti, ispirate, nobili e sublimi mai uscite dalla penna di Verdi (“Plebe! Patrizi! Popolo, dalla feroce storia!”) si compongono in superiore unità drammatica, grazie alla varietà e coerenza strutturale del discorso musicale che già risente dell’ultimo, tardo stile verdiano.

Abbiamo parlato poco sopra di un’invocazione di pace: ebbene, questo protagonista, lacerato in tre aspetti di un’unica personalità, il corsaro avventuroso ed eroico, amante del mare e della libertà (espresso dalla musica del Prologo e dell’inizio del terzo atto), il padre trepidante ed affettuoso, talora tormentato (duetto del primo atto e atto secondo), l’uomo di stato, il potere cittadino incarnato (nella scena del Consiglio e nel tragico finale), dall’alto del suo soglio invoca pace per le contrade d’Italia che si scannavano in una lotta fratricida. Egli ha con sé una lettera di F. Petrarca, documento reale che il poeta aretino inviò ai Dogi di Venezia e Genova per richiedere la pace, in nome dell’appartenenza alla stessa patria: questo senso di unità, affondato in tempi tanto remoti, toccò profondamente le corde patriottiche di Verdi.

Ma la suggestione del grande poeta aveva toccato il maestro già nella prima versione, nella meravigliosa figura di Amelia Grimaldi, nome sotto cui si cela Maria Boccanegra, la vera donna angelicata portata sulla scena. Tutti coloro che entrano in contatto con lei, direttamente o indirettamente, si redimono ed abbandonano i propri odi e rancori; donna forte, decisa, sollecita ella stessa le sue nozze, scampa con coraggio ad un rapimento, salva per due volte la vita del padre, e santifica tutto ciò che tocca, destinando, al contrario, alla morte, coloro che disprezza: uno dopo l’altro, Boccanegra ritrova il suo lato umano e perdona i nemici, Gabriele Adorno rinuncia ai propositi di vendetta e si fa messaggero di pace, Andrea Fiesco si riconcilia col genero Simone, componendo finalmente la lunga, atavica lotta di classe e di famiglia; e il demone della vicenda, Paolo, di fronte a quell’intoccabile innocenza angelica, precipita nella sua ignobile fine. Ma, se si eccettua appunto quest’oasi angelica, forse troppo perfetta e pura per essere vera, “Simon Boccanegra” rimane un’opera fondamentalmente pessimistica, improntata all’impossibilità per gli uomini di intendersi e comprendersi, una sorta di confessione autobiografica, soprattutto nella figura di Fiesco che, nel concertato finale che porta Simone alla morte, riassume lapidariamente, con una musica solenne, posta in piena evidenza ritmica e tonale all’interno dell’assieme, il principio del pessimismo cosmico verdiano: “Ogni letizia in terra/ è menzognero incanto,/d’interminato pianto/fonte è l’umano cor.”

Sulla linea della progressiva acquisizione di nuova esperienza e consapevolezza si inserisce appieno l’opera successiva, che diverrà uno dei titoli più amati e rappresentati del Verdi maturo.

Dopo la “Luisa Miller” e la morte del librettista Cammarano, non vi era più stata a Napoli, città in cui pure venivano riprese regolarmente le nuove opere verdiane date altrove, una prima esecuzione di un lavoro di Verdi. L’occasione parve dunque sopraggiungere quando il maestro firmò un contratto col Teatro San Carlo per la realizzazione di una nuova opera, e, postosi al lavoro con la collaborazione di un nuovo librettista conosciuto a Venezia, Antonio Somma, scrisse e propose quella che sarebbe diventata “Un Ballo in maschera”. Ma, nella Napoli in cui gli ultimi sovrani borbonici sentivano ormai traballare il proprio potere, forse anche sotto l’impressione della fallita impresa di Pisacane, e col timore di quanto si stava preparando negli altri stati d’Italia, la censura aveva stretto fortemente le maglie, e non solo respinse il soggetto ma alterò il libretto e finì per modificarne il titolo e l’epoca, svuotando completamente sia il senso musicale che Verdi aveva posto sotto determinate parole, che il significato complessivo degli eventi della trama.

Ma qual era il problema? Il soggetto è la rielaborazione di un episodio storico realmente avvenuto nel 1792, l’assassinio del re Gustavo III di Svezia ad opera di un nobile, per motivazioni che nella realtà non furono mai appurate, ma che nel dramma teatrale francese di E. Scribe “Gustave III”, ispirato a quell’episodio, si legano alla gelosia. La censura non poteva ammettere che sulla scena si rappresentasse l’assassinio di un re, e quindi, come per “Rigoletto” dispose che fosse trasformato in un Duca, ma, ciò che è peggio, si attaccò anche a particolari d’infimo conto, per esempio la necessità di trovare una collocazione geografica che giustificasse il ricorso popolare ad una maga, ovviamente lontana dall’originaria Svezia, l’assenza di armi da fuoco, l’amore del Duca obbligatoriamente nobile e velato di rimorso e così via. Tuttavia, quando il libretto, nonostante le molteplici difficoltà, fu riadattato e ripresentato, la censura, anche sotto la perdurante suggestione negativa dell’attentato a Napoleone III, avvenuto in Francia nel 1857, respinse totalmente il nuovo testo approntato, chiedendo tante e tali modifiche da impiantare di fatto una nuova opera, che si sarebbe intitolata non più “Una vendetta in domino” ma “Adelia degli Adimari”. Ne seguì il rifiuto di Verdi, la citazione per inadempienza contrattuale da parte del teatro e la controquerela di Verdi per danni. Verdi rese pubblica la sua difesa:

“La Vendetta in Domino si compone di 884 versi: ne sono stati cambiati 297 nell’Adelia, aggiunti molti, tolti moltissimi. Domando inoltre se nel dramma dell’Impresa esiste come nel mio: il titolo? No. Il poeta? No. L’epoca? No. Località? No. Caratteri? No. Situazioni? No. Il sorteggio (una delle scena chiave e fra le più innovative dal punto di vista drammatico)? No. Festa da ballo (sostituita da un banchetto!!!)? No.

Un maestro che rispetti l’arte sua e se stesso non poteva né doveva disonorarsi accettando per subbietto d’una musica, scritta sopra ben altro piano, codeste stranezze che manomettono i più ovvii principii della drammatica e vituperano la coscienza dell’artista.”

La questione fu risolta fuori dai tribunali, con la remissione delle accuse in cambio di una nuova opera, che, nelle intenzioni di Verdi, sarebbe dovuta essere, sempre su libretto di Somma, il tanto vagheggiato e mai realizzato “Re Lear”.

Ovviamente, anche se ufficialmente non era stato detto, i rapporti di Verdi con Napoli si guastarono, e sappiamo bene quanto fosse stato intransigente sia con Milano che con Parma in passato: da allora si lamenterà per lettera più e più volte sull’ambiente musicale e teatrale napoletano, rifiutando talora di avallare esecuzioni delle sue opere (come nel caso de “La Forza del destino”) e naturalmente rifiutando l’incarico di direttore del locale conservatorio, offertogli dopo la morte di Mercadante.

Verdi, vista la mal parata, si era cautelato ed aveva già avuto alcuni contatti ed intrapreso una trattativa per dare la sua nuova opera a Roma. Con astuzia di consumato uomo di teatro, saputo che a Roma si stava rappresentando in prosa il dramma di Scribe, ne richiese una copia e, di fronte alla possibilità che anche lì la censura avesse qualcosa da obbiettare sul libretto originario, rispose che, se si permetteva l’originale in prosa non si capiva per quale motivo si dovesse proibire o modificare la sua versione musicale. Somma faceva pressioni per dare l’opera a Milano, mentre Verdi voleva restare nei pressi di Napoli, e Roma era il luogo più adatto. Fortunatamente la censura venne a miti consigli e si accontentò che il Re fosse ridotto ad un semplice nobile, e Somma lo fece diventare Conte di Warwick, e della modifica di alcuni versi particolarmente incisivi, imponendo poi di trasferire la vicenda fuori dall’Europa: fu in questa occasione che l’ambientazione di “Un Ballo in maschera” divenne quella definitiva, l’America puritana del Seicento e dei primi colonizzatori, che Verdi, soddisfatto, mantenne anche quando maturarono le condizioni per tornare a quella originaria.

L’opera andò in scena il 17 febbraio 1859 con enorme successo, come era già avvenuto nella stessa città per “Il Trovatore”.

Ciò che sorprende e lascia perplessi, dopo tutte queste vicissitudini, è il fatto che su questo stesso soggetto, pur mutato di ambientazione e talora di situazioni, erano già state scritte numerose opere, due delle quali Verdi doveva certamente conoscere, il “Gustave III” di Auber e “Il reggente” di Mercadante; alcune reminiscenze tematiche, volute o inconsce o casuali, con la prima di queste due opere, sembrerebbero dimostrarlo, ma del resto il debito allo stile e alla musica francese, cui si è accennato più sopra a partire dai “Vepres Siciliennes” è qui più evidente che mai, ed è anche all’origine della collocazione così particolare e originale che quest’opera ha nel repertorio verdiano.

Facciamo naturalmente qualche esempio a dimostrazione di questa tesi: tutta la musica che si riferisce al paggio Oscar nel suo ruolo di corte, e quindi sia i due couplets che il Quintetto dell’invito al ballo rivelano la loro derivazione dalla scrittura melodica brillante della musica teatrale francese; la stretta dell’introduzione “Ogni cura si doni al diletto” dimostra chiaramente come Verdi, nel suo soggiorno parigino, fosse entrato in contatto con la musica di quello che era destinato ad essere il nume tutelare della musica ufficiale del Secondo Impero, il re dell’operetta francese Jacques Offenbach, che nei suoi lavori ritrasse e satireggiò impietosamente quella stessa società che Verdi aveva descritto ne “La Traviata”; anche la musica della scena del ballo, sia quella propriamente danzata sulla scena, eseguita dai complessi strumentali sul palcoscenico, sia quella vivacissima che accompagna gli interventi del coro, non hanno nulla a che vedere con quella di situazioni analoghe di opere precedenti quali “Rigoletto” e “La Traviata” ma derivano direttamente dal grandioso Finale Terzo de “Les Vêpres Siciliennes”; e da quest’opera Verdi riprende anche uno stilema di scrittura che da allora impiegherà sempre, l’ampia melodia all’unisono, quale tema principale al culmine di grandiosi concertati dalla struttura complessa, nella quale compaiono contemporaneamente più situazioni emotive e quindi più elementi musicali combinati, caratterizzata da una nota lunga iniziale e alcune note più rapide subito dopo: ne “Les Vêpres Siciliennes” si trovava anch’essa per la prima volta nel citato Finale Terzo e qui invece compare nel Finale Primo, poi combinata con l’inno di lode al Conte (e, come detto, ritroveremo questa scrittura nel Finale Secondo di “Aida”, addirittura con la combinazione di tre temi, nel Finale Terzo di “Otello” e nel Finale Secondo di “Falstaff”).

Rispetto a tutto il resto del repertorio di Verdi, quest’opera ha anche una particolarità che la distingue: è l’unica opera in cui l’amore, inteso come passione disperata e impossibile, un amore consapevole e adulto, è il tema centrale, esclusivo quasi, del dramma, poiché sia le poco credibili figure di congiurati, con i loro moventi personali più che politici, che chiacchierano, brontolano ma sono subito pronti a divertirsi o a spaventarsi, pur di rimandare all’infinito i loro propositi di vendetta; sia l’ambientazione naturalistica e magica (che andava bene per una Svezia tutta boschi e foreste, dimora della tradizionale strega delle nostre fiabe infantili, ma che personalmente trovo ancor più suggestiva nel regno della foresta vergine americana del Seicento, soggiorno di sciamani e stregoni, così ben descritta da N. Hawthorne, con tutto il suo patrimonio di suggestioni fantastiche e soprannaturali); sia l’elemento fantasioso ed estroso (per mascherarsi e nascondersi i protagonisti non aspettano la scena finale, ma in altre occasioni si muovono nascosti o sotto mentite spoglie), fungono esclusivamente da sfondo per una vicenda che, dalle prime note o quasi, e fino alle ultime, è un poema d’amore appassionato, ardente ma straziante, rassegnato, stoico quasi, da entrambe la parti, ciascuna delle quali sa bene quanto tutto questo sia impossibile, e quanto quel dolce momento del duetto centrale dell’opera sia destinato a svanire così come è comparso, travolto non dagli eventi in sé – materializzazione esteriore di una superiore volontà, che trova rappresentazione anche visiva nell’oscuro, “orrido” campo della morte su cui brilla per un attimo la luce di un sentimento sincero – ma da qualcosa di ancora maggiore, da un destino già scritto che vuole queste due anime ardenti separate e poi lontane per sempre.

E poi vi è una nuova, grande conquista da parte di Verdi, in quest’opera, ossia la capacità di astrarsi dalle passioni dei suoi personaggi e di osservarne le vicende e i drammi con lo sguardo attento, commosso, compiaciuto quasi, del padre che guarda i suoi figli piccoli che ancora stentano a camminare, lo sguardo di chi sta comprendendo e riproducendo tutta la molteplicità e complessità dei negozi umani, degli affetti e delle emozioni, nulla disdegnando di ciò che crea la varietà e ricchezza degli atteggiamenti e degli umori dei suoi protagonisti, parte di quella grande umanità che d’ora in poi sarà la vera protagonista delle sue opere: riso e pianto, divertimento e dolore, preoccupazione e indifferenza, speranza e disinganno, apatia e rancore, devozione e odio, tutto questo e ancor di più è presente nei rapporti fra i personaggi di quest’opera, e tutto ha una sua specifica e particolareggiata definizione musicale, così che la prima, apparente impressione è di un ritorno alle forme spezzate e chiuse antecedenti la Trilogia. Possiamo portare ad esempio le due arie di Renato, che esprimono, nello stesso personaggio, sentimenti completamente diversi e quindi si avvalgono di una scrittura totalmente differente, così come i due momenti consecutivi nell’antro di Ulrica in cui Riccardo canta dapprima travestito da marinaio, in tono popolaresco (“Di’ tu se fedele”), e poi, quando si è svelato, continua in tono garbatamente e nobilmente divertito (“E’ scherzo od è follia”).

Ma ognuno di questi brani ha un suo colore, delinea quelle realtà umane di cui si diceva e quindi si unisce agli altri molto più di quanto se ne separi, proprio come i colori dell’iride, ben definiti e separati ma uniti a comporre l’arcobaleno: così è il primo atto di quest’opera, così anche l’ultimo, mentre il secondo, autentico, assoluto vertice drammatico, si muove tutto all’ombra del sentimento amoroso, fattosi lancinante sofferenza, momento di gioia fugace e speranza, intimo e segreto terrore, fonte di gelosia che attizza l’odio feroce e mortale. Drammaturgicamente, si può parlare di opera perfetta, anche per il chiaro parallelismo fra il primo e il terzo atto, una sorta di costruzione a ponte che la rende, pur nella sua lunghezza e varietà, veloce e stringata e straordinariamente unitaria nel suo sviluppo teatrale.

Si inquadra in questo atteggiamento anche la scelta, per così dire, “politica” di Verdi, ciò che fa apparire ancora più ottusa l’opposizione della censura a questo dramma, evidentemente perché si era limitata ad esaminare esclusivamente le parole del libretto: se avessero ascoltato la musica, i censori si sarebbero resi conto di trovarsi di fronte all’opera più conservatrice di Verdi, quella in cui il maestro, nella sua piena maturità artistica ed umana, ha abbandonato gli ardori giovanili e rivoluzionari per mettersi dalla parte del sovrano illuminato e clemente, delle istituzioni sagge e benevole, con un atteggiamento quasi paternalistico: in nessuna altra opera di Verdi un potente è ritratto con accenti musicali di tale sincerità e simpatia (e basti un raffronto con il predecessore diretto di Riccardo, ossia il Duca di Mantova, e segnatamente fra le loro due arie di sortita, così come tra “La donna è mobile” e la ballata del marinaio, entrambi casi in cui il sovrano è travestito da popolano, per comprendere il mutato atteggiamento di Verdi), mentre la musica riservata ai congiurati non è più che un sorriso beffardo, quasi una presa in giro che ci fa capire, nell’uso embrionale del contrappunto fugato, la loro artificiosità (fino ad un certo punto della sua vita artistica Verdi assimilava il contrappunto ad artificiosa creazione scolastica, dopo di che, vedremo la prossima volta, cambiò atteggiamento) e ci fa intuire senza possibilità di errore la loro inconcludenza. Evidentemente tale atteggiamento artistico riflette il mutato atteggiamento politico di Verdi, ora orientato, come si diceva all’inizio, verso una monarchia costituzionale che permettesse di riunire sotto di lei l’intera Italia: e tale propensione politica trova in quest’opera, e solo in questa, la sua piena espressione.

Chiudiamo l’illustrazione di questo lavoro con le parole di uno dei maggiori critici del tempo, Filippo Filippi, estraendole da una sua recensione: “...volete motivi, pensieri, proporzioni, principio, seguito e fine? volete ritmo, periodi, musica pura? ne avete a ribocco; ...volete tinta generale del dramma, fedele interpretazione della parola, svincolo dalle forme abusate e convenzionali? volete idealità, vaghezza, spicco di carattere? volete bandite le banalità e sostituito il nuovo, l’elegante? volete che l’orchestra e la scena siano una sola statua...? Servitevi, che c’è quanto vi occorre.”

Dopo il successo di “Un ballo in maschera”, la carriera di Verdi conosce il primo, volontario arresto, per circa due anni; due anni ricchi di vicende, il matrimonio con Giuseppina Strepponi, la Seconda Guerra d’Indipendenza con le battaglie di Solferino e San Martino, l’impresa dei Mille di Garibaldi, la raggiunta e proclamata Unità d’Italia e la nomina del compositore a deputato del primo Parlamento italiano, su pressione di Cavour, che sapeva benissimo quale lustro anche internazionale sarebbe venuto alla neonata nazione dal vantare fra i suoi esponenti politici un uomo ormai tanto importante e noto, nonché dalla storia integerrima. Verdi, perciò, non si occupa di musica, non se ne cura e sembra che nella sua esistenza altre preoccupazioni ed impegni abbiano preso il suo posto.

Finché, un giorno, giungono due lettere da Pietroburgo: una destinata alla signora Verdi, da parte di un vecchio amico e, inclusa in questa, un’altra indirizzata al maestro dal tenore Enrico Tamberlick, attivo nella capitale russa, con la richiesta di sapere se Verdi avrebbe preso in considerazione la proposta di scrivere un’opera per il Teatro Imperiale.

Contrariamente a quanto sia la signora Verdi che gli amici temevano, Verdi, forse già annoiato dalle sedute parlamentari, forse ormai ricaricato nella sua vena creativa da due anni di pausa, forse più prosaicamente bisognoso di altro denaro per la sua tenuta agricola di Sant’Agata, accettò e si mise in caccia, come sempre, di un soggetto. La scelta cadde inizialmente sul “Ruy Blas” di V. Hugo, ma dalla Russia giunse la notizia che probabilmente non sarebbe stato accettato (il nome di Hugo per le corti europee era ancora esplosivo); Verdi, allora, decise di interrompere la trattative, e dovette intervenire la stessa corte imperiale dello zar Alessandro II, dichiarando che qualunque soggetto avesse scelto Verdi sarebbe andato bene. Ma a quel punto fu Verdi a rigettare l’idea del “Ruy Blas” (musicato qualche anno dopo da Filippo Marchetti) e ad orientarsi su un enorme dramma spagnolo di Angel de Saavedra, duca di Rivas, di ispirazione romantica a forti tinte, ricchissimo di vicende e personaggi e caratterizzato da un forte realismo e dall’interesse per le scene di carattere pittorico (come il suo ispiratore Hugo, anche il Duca di Rivas era pittore e curava moltissimo le didascalie e le descrizioni).

Si intitolava “Don Alvaro o La fuerza del sino” e, con il libretto di Piave e con elementi ripresi del dramma “Wallensteins Lager” di Schiller, tradotto da A. Maffei, (la scena dell’accampamento militare, uno dei pallini di Verdi, che aveva sempre desiderato mettere in musica la varia, vivace umanità, composta da soldati, vivandiere, zingari, astrologi, predicatori, che gravita attorno all’accampamento di un esercito in guerra, nella linea di prosecuzione del ritratto globale della vita e della realtà dei fatti, degli affari e dei sentimenti, una sorta di avvicinamento progressivo al grande mondo shakespeariano delle sue due ultime opere) divenne “La Forza del destino”.

Se con “Un ballo in maschera” Verdi aveva realizzato una ballata romantica di intonazione passionale, con “La Forza del destino” entrò nel mondo del romanzo, e tanto complesse ed elaborate sono le vicende del dramma originario, che Piave faticò non poco nel ridurlo per la scena lirica: ma le difficoltà nell’introdurre i cambiamenti di scena e rendere credibili personaggi, situazioni, successioni temporali delle vicende, rivelava appieno lo sforzo compiuto. Verdi stesso, dopo aver realizzato la prima versione, fu incerto sul finale e ne cercò una diversa, credibile soluzione, che fu possibile realizzare solo nella seconda versione del 1869, con l’aiuto del librettista Ghislanzoni (Piave nel frattempo si era gravemente ammalato), auspice un cambiamento anche psicologico ed emotivo intervenuto nella vita di Verdi, a seguito della conoscenza personale del vecchio Alessandro Manzoni, episodio di cui parleremo nel prossimo incontro.

La prima esecuzione di quest’opera venne rinviata di un anno a causa di un’indisposizione della cantante per la quale era stato scritto il ruolo della protagonista. Finalmente, essa andò in scena nel novembre 1862, con grande successo di pubblico e riserve della critica e del movimento musicale nazionalista russo, incarnato dai giovani del cosiddetto “Gruppo dei Cinque”, ai quali, però, non passò inosservata proprio quella che era stata l’innovazione più radicale e significativa di Verdi, ossia la descrizione e la partecipazione attiva delle masse, fossero poveri, frati, zingari, vivandiere e soldati, pellegrini piuttosto che frequentatori di taverne, e del ruolo significativo, non solo coloristico ma anche reale, di un gran numero di personaggi non direttamente funzionali al nucleo del dramma, ma senza i quali non è possibile immaginarne né il carattere né lo spirito e tanto meno l’esito, e fra i quali spiccano le figure della zingara Preziosilla, del frate laico Melitone, di Mastro Trabuco. Il grande repertorio nazionale russo, a partire dal “Boris Godunov” non è immaginabile senza la miccia accesa dalle grandi scene collettive di quest’opera verdiana, e persino alcuni singoli personaggi, segnatamente quelli che gravitano attorno al convento, possono essere stati all’origine della concezione di personaggi dello stesso stampo del dramma musicale russo.

Questa è la caratteristica fondamentale de “La Forza del destino”, opera nella quale lo sfondo pittorico e musicale, comprensivo anche di danze, nel secondo e terzo atto, funge da terreno fertilissimo, entro il quale si stagliano le vicende dei singoli, in una fuga e rincorsa continua, l’uno contro l’altro, con ripetuti colpi di scena e un’incredibile serie di combinazioni per cui finiscono tutti, nel corso dei lunghi anni di durata della vicenda (nella disposizione scenica si raccomandava agli artisti di tener conto del tempo passato fra un atto e l’altro nel trucco), per ritrovarsi negli stessi posti, proprio come se “la forza del destino” avesse stabilito per loro i vari appuntamenti. Un confronto rapido con “Il Trovatore”, opera anch’essa di ambiente spagnolo, ricca di soldati, suore, zingari, guerre e duelli anch’essa, ci permette di comprendere la differenza sostanziale tra questi due mondi. Nell’opera della Trilogia dominava il dramma dei singoli e la cornice era sempre sullo sfondo e limitata a inquadrare le scene salienti, con cori situati all’inizio o alla fine dei singoli episodi, senza per questo aggiungere o togliere nulla alla forza del conflitto fra i protagonisti e alle loro personali tragedie. In questo lavoro, la vicenda dei singoli – eccettuato l’intimo primo atto che, non a caso, pare porsi formalmente come un prologo, sia per la durata, sostanzialmente inferiore a quella degli altri tre, sia per il suo carattere, anche musicale, di antefatto (l’aria di Leonora rivela nella sua scrittura l’affanno e il dubbio della ragazza giovane ed inesperta, il cui indugio sarà fatale a tutti, mentre quando tornerà sulla scena con le altre arie, saremo di fronte ad un personaggio che la vita ha temprato, rendendolo di ben altra statura; e così il duetto fra Alvaro e Leonora presenta uno slancio ed una vitalità che solo due giovani ardenti ed appassionati, non ancora toccati dal male nel loro rapporto reciproco, possono esprimere: dopo questo momento, così breve e intenso, non si ritroveranno più, se non di fronte alla morte) – la vicenda dei singoli, dicevo, si svolge sullo sfondo delle scene collettive, e la vita della gente si compenetra con quella dei protagonisti: alla taverna, cori e danze, ballate, canzoni, preghiere si intersecano in un unico organismo musicale; il coro dei frati subentra in mezzo alla personale preghiera di Leonora e ne assume poi su di sé il dramma, in atto di consolazione, e, nell’ultimo atto, il coro dei mendicanti si inquadra appieno nella vita reale e quotidiana del convento, oltre a fornire un contrasto efficacissimo dal punto di vista drammaturgico con quanto seguirà e ad anticipare, grazie a Melitone, la misteriosa figura del Padre Raffaele; al campo militare, infine, tutto si mescola in un groviglio inestricabile di vita: ronde, rimpianti, duelli e alterchi, battaglie, testamenti, vivandiere, reclute, mercanti, predicatori, zingari, e nulla è possibile senza tale varietà scenica e musicale ad un tempo.

Con i miglioramenti apportati dalla revisione, fra i quali lo sviluppo dell’originario preludio in una sinfonia che raggruppa tutti i principali temi dell’opera, e che divenne uno dei brani più famosi di Verdi, normalmente eseguita anche in sede concertistica, “La Forza del destino” andò in scena, sette anni dopo, al Teatro alla Scala, in un momento storico già diverso, sia per Verdi personalmente ed artisticamente, che per l’ambiente musicale e culturale italiano.

Nel 1862, all’indomani del ritorno di Verdi in Italia, scomparso Cavour, col quale il maestro intendeva portare avanti un grande progetto di riorganizzazione dell’educazione musicale e dell’attività teatrale della nuova nazione, la situazione, sotto l’aspetto culturale, era difficilissima, soprattutto per la musica: non emergevano nomi di spicco e il grande nume del teatro lirico ormai viaggiava in Europa per le rappresentazioni delle sue opere ed aveva iniziato una fase della sua carriera in cui avrebbe scritto esclusivamente per i teatri stranieri, limitandosi, in Italia, all’attività di imprenditore agricolo. Ma, mentre il vecchio veniva contestato ed aggredito dalle intemperanze dei giovani che ambivano ad un cambiamento, senza, per altro, essere in grado di realizzarlo, il nuovo astro della musica italiana non nasceva.

Dovrà essere proprio quel cinquantenne, in altri trent’anni di attività, a ringiovanire l’opera italiana e creare tutte le premesse perché sorgessero nuovi compositori in grado di perpetuare, almeno per altri trent’anni, le ultime glorie del melodramma nazionale.

Inizieremo da questo punto la prossima, ultima conferenza.

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