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Cantico dei drogati di De Andrè riconduce ad un Sessantotto
poetico e altrettanto tragico, che già sbirciava negli anni a venire del
decennio rivoluzionario e, non a caso, finisce invocando: "tu che m'ascolti | insegnami
un alfabeto che sia | differente da quello | della mia
vigliaccheria". Un coraggio orfano d'ideali, esperienza comunque condivisa
passando attraverso una forte etica ribelle, talmente determinata che
dell'impatto resta tuttora l'eco della moltitudine di sensibilità perdute
lungo quella strada. "Perché non hanno fatto | delle grandi pattumiere |
per i giorni già usati | per queste ed altre sere" è l'utopia nichilista per taluni
evoluta in illusione assassina, ma che tuttavia spinse a pensare e a
confrontarsi per un mondo migliore. Dall'emarginato visionario scoppiato di un
tempo c'è l'evoluzione all'integrato imploso d'oggigiorno, la
tossicodipendenza che si distingue e paradossalmente contrappone da quella di
allora per un vuoto imposto a priori nel ripiegamento su se stessi, in un
atteggiamento anaffettivo ed equivoco all'origine, a partire dall'assenza di
riferimenti. Trovo questa premessa debita per attualizzare il lavoro di Ruffilli come pure per evidenziare una rispettiva
collocazione anagrafica che, per forza di cose, non può non vederlo radicato
nella sua generazione. Da questa possibile duplice lettura si percepisce
meglio, a mio parere, il tentativo del poeta di condurci alla condizione di
una degenerata sofferenza, quella dei drogati. Una condizione che, in
primis, si espleta in un lungo excursus sulle prigioni, tra "grate e cancelli"
dove "fortezze scure", un tempo "sedi del potere", "per uno scherzo del
destino" accolgono "rifiuti dell'umanità".
Ruffilli resta consapevole che un altro tossicomane in
carcere produrrà, se non un'ulteriore morte precoce, un altro delinquente
indotto: "La prima notte | qui in prigione, | insieme a ladri | e protettori". Senza
indugi apre subito denunciando quella vecchia, consunta ipocrisia per cui "si
fa il possibile | per questa gente", fintanto da non risparmiare più
avanti l'ancor più odioso luogo comune per cui le "prigioni sono alberghi | in cui
passare una vacanza". Rilevate alcune tinte poetiche prossime a Lee Masters
nel suo versificare sincopato e prosastico, dove denuda il tossico per quel
che è, coi suoi "occhi di vetro", "miscela incandescente | nella nostalgia",
"mania di tutto | sublime e cupa all'infinito | di felicità da consumare" con
"mani fredde","viscide di miele | senza miele" "della vita, ormai, disidratato".
Si descrive anche l'astinenza: "convulso e ansante | membra muscoli | giunture
labbra e fronte, | tutto tremante" e i fantasmi della mente nelle "notti
insonni", parole che "cominciano a strisciare | più viscide dei
vermi". Accattivante lo "scivolare | nel bicchiere | o dentro la mia tazza |
sciolto nel sapore | del caffé", disilluso trasognare quel che non è stato con
quanto più a portata di mano. "Sentimenti | in fuga contrastante" compaiono
come "orrido male lancinante | di stare soli e nudi | con se stessi", apertura al vuoto più
celato, anche da un presunto benessere omologato, poiché la vita necessita di
un'emotività compiuta. L'impegno civile viene più
direttamente esternato chiedendosi "che significa punire? | E' un patto:
si arriva | a giudicare il fatto, | non la persona. Testimoniati anche
"farmaci", "gocce" e tutt"altra "roba | che gira nel girone | della gabbia". Nella seconda
parte che demarca il libro (La sete, il desiderio) c'è la anamnesi, memoria
della presunta colpa anteposta al carcere. "Non fu curiosità | e non fu noia"
"i passi ignoti | del mio precipitare", "odore di un odore | eterno | in piena
fioritura | su cui di colpo | precipita l'inverno". Un'eroina che "si ficca
dentro il corpo | mettendoci radici" e che è ben resa opportuna nella metafora
di un'amante negativa, che "ti svuota | fino in fondo al sangue | nell'interiorità delle interiora". E visto che l'amore, di per sé,
sviluppa endorfine e dipendenze, si comprende infine meglio la maledizione
del vuoto di questi tempi.
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Recensione |
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