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Esorcismo eretico

Questo di Guidi, poetessa fiorentina alla sua ottava fatica letteraria, è qualcosa di più di un libro bello, poiché si tratta di un libro vero, di una verità umana dirompente prima ancora che poetica. Una verità che rischia di sconvolgere il lettore, magari di accecarlo come se avesse davanti a sé il volto di Medusa. Si resta ammirati di fronte ad un'anima che immessa in un corpo piagato rifiuta si piegarsi e resta fedele alle sue esigenze primarie: il bisogno di luce, di sole, di risposte vere, soprattutto riguardo al dolore che la affligge. Di fronte a questo, al male che la devastano obbligatoria è la scelta tra due atteggiamenti: l'accettazione rassegnata, il lamento flebile nei confronti dell'ineluttabile, oppure la protesta forte, lucida magari gridata che si spinge sino al rifiuto della volontà divina per il credente o del laico destino per chi credente non è. Giacomo Leopardi rappresenta un'eccezione a questa alternativa dato che ha conosciuto e provato entrambi gli atteggiamenti, anche se non ha nascosto la sua preferenza per il secondo di essi. Per quanto riguarda il credente la Bibbia ci offre la potente figura di Giobbe, l'innocente e pio uomo travolto da una serie incredibile di sventure e malanni. Egli chiama in causa Dio, mettendo in discussione il suo disegno provvidenziale, ma solo a lui è toccata la fortuna di poter dialogare con Lui, accettando al termine della drammatica discussione, da uomo giusto qual è, la logica imperscrutabile dell'Altissimo. Per chi, come Guidi, Giobbe non è, in absentia dell'interlocutore, resta solo un inadeguato monologo (vedasi la sezione La recerche (du Dieu perdu) col riconoscimento di un mistero che rende insolubile la questione. Ma la reazione è forte, la protesta veemente.

Ovviamente nell'Esorcismo eretico l'io, il soggetto dell'enunciazione non è una maschera o un alter ego dell'autore: se così fosse non sarebbe quel libro di verità di cui parlavo all'inizio. I componimenti (37, senza titolo e distribuiti in nove agili sezioni) fondano un macrotesto compatto e concentrato sul tema di fondo: la sofferenza del corpo, del proprio corpo, al quale niente viene risparmiato (“Meglio/passare al tritacarne/queste avariate ossa/avanzi di carcassa/spolpata e succhiata: /vuoto aborto di sensi/e di sogni”, p.22), sembrano procedere secondo un percorso che va dal “buio di sole” dell'inizio al finale “Sto”, cioè ad una sorta di stabilizzazione almeno parzialmente alleggerita della sua situazione, anche solo per il fatto di aver trasposto la propria “passione” (termine che mi pare adeguato per le venature cristiche che qua e là affiorano) in versi sulla pagina filtrandola e seppur minimamente distanziandola. Il verseggiare è asciutto, essenziale e affilato come la lama di un coltello quando occorre evidenziare la piaga e si affida a ritmi perlopiù tesi e nervosi, meno spesso distesi e pacati. La lingua rappresenta una sorpresa continua per le sue increspature espressionistiche rilevabili nella disarticolazione dei prefissi e nella coniazione di neologismi quando occorra conseguire una maggior carica di energia espressiva e icastica (pianeta vespizzato , foglie... fragilitate ) D'altra parte chi vuole andare senza pietà alle radici della propria condizione fisica-esistenziale non può mostrare troppo rispetto della grammatica e del lessico consueto. Da porre in evidenza il livello figurale del testo per cui la Stimmung negativa dell'io trova una specchio fedele nell'alternarsi dei fenomeni naturali incentrati nella negazione del sole, nel trionfo del buio e dell'assenza di vento (a questo proposito registro una notevole ormai acquisita scaltrezza retorica. “Buio di sole”, titolo della sezione di apertura, è una metafora/antitesi originale e felicissima (il metaforico “buio” sta per assenza, privazione ma di queste parole è meno astratto; l'antitesi presenta una non lieve epperò significativa variazione rispetto alla classica “luce/ombra”). Non esiste dolore che non conosca delle pause. Così dall'allentamento del suo morso nasce la bellissima A stanchi passi (pp. 52-3), dove, recuperando moduli espressivi tradizionali, un trapasso stagionale verso l'autunno è fermato e fissato nei suoi morbidi colori pastello, diventando la stagione dell'anima di Guidi.

Un libro che lascia il segno dunque. Dopo averlo letto e riposto qualcosa dentro di noi risulta cambiata. Si è acquisita la precisa coscienza che non c'è un limite all'umana sofferenza e per conseguenza all'espressione poetica che da essa può scaturire come uno splendido e malato fiore del male. Certo Guidi non è il solo poeta ad aver tratto materia dal proprio soffrire (e Manescalchi nella partecipe prefazione in forma di lettera ne dà debito atto). Ma essa lo ho fatto con una nuova, personale e forza poetica. Concludendo, direi che questo Esorcismo eretico è pienamente riuscito sia come libro (il riferimento è quindi al titolo corsivato), sia come operazione significata. Infatti se l'esorcismo è un rituale magico a cui una persona si affida per scacciare da sé il nucleo malefico che la possiede e domina, il libro ha svolto almeno parzialmente questa funzione. E l'eresia? Consiste nel fatto che Guidi non poteva utilizzare un esorcismo canonico: questo non avrebbe funzionato visto che non c'era un demonio da cacciare dalla propria vita, ma qualcosa di diverso, qualcosa che malauguratamente è destinato a restare fino al termine di quella straordinaria avventura che è la vita in qualsiasi condizione essa si svolga.

Critico letterario, ex presidente del Premio Borgognoni

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